lunedì 18 dicembre 2017

Tempo e memoria tra cinema e fotografia. "La jetée" di Chris Marker




Si sa che il cinema è figlio diretto della fotografia. La pellicola di un film, infatti, è costituita da una successione di fotogrammi, riprodotti ad una velocità sufficientemente alta (24 fotogrammi o più al secondo) da fornire all'occhio umano l'illusione del movimento.
Il cinema è perciò caratterizzato da un qualcosa che la fotografia, in quanto immagine fissa, non avrà mai: la durata. Bazin affermava che il tempo in una fotografia è congelato, anzi “mummificato”, mentre il cinema, al contrario, è tempo allo stato puro in quanto, per breve che sia l’inquadratura, essa avrà sempre una durata. La fotografia immobilizza il tempo, mentre il cinema inserisce il singolo fotogramma in un flusso temporale.

domenica 17 dicembre 2017

LO SPECCHIO NELL’ARTE – TRA VANITAS E PRUDENTIA


Pochi oggetti racchiudono una così grande moltitudine di significati simbolici come lo specchio. Nel corso della storia esso è stato rappresentato come allegoria della vanità e della superbia; come simbolo di prudenza e di conoscenza oppure di inganno; come il luogo in cui si forma l’io e la coscienza di sé e contemporaneamente avviene lo sdoppiamento tra il soggetto reale e la sua immagine ideale o il suo doppio diabolico; come una porta di passaggio tra il mondo della realtà e un mondo immaginario.
L’utilizzo dello specchio nelle arti visive ha permesso la contrapposizione tra l’occhio e lo sguardo, tra il vedere e il comprendere, tra l’esteriorità e l’interiorità. Esso inoltre ha consentito di dilatare lo spazio svelando ciò che non si vede e non è presente nel campo figurativo rappresentato, ma diventa visibile allo spettatore solo tramite il riflesso dello specchio.

Donne allo specchio

Christoffer Wilhelm Eckersberg, Woman standing in front of a mirror, 1841.

Il rapporto della donna con lo specchio si perde nella notte dei tempi. Forse non tutti sanno che il simbolo del femminile, cioè ♀, è la rappresentazione stilizzata della mano della dea Venere che sorregge uno specchio (mentre quello maschile, convenzionalmente rappresentato con il simbolo ♂, è la raffigurazione stilizzata dello scudo e della lancia del dio Marte).
I dipinti raffiguranti donne davanti a uno specchio sono tantissime, decine e decine. Abbracciano le epoche e gli stili più vari, e dunque veicolano anche messaggi estetici, culturali e sociali diversi.
Molti di essi sono dotati di indubbio fascino, ma di certo l'ingente mole di queste rappresentazioni, soprattutto a partire dall'Ottocento, fa nascere la domanda sul perché questo soggetto sia stato per secoli e continua ad essere così tanto raffigurato. Nelle epoche passate la significazione allegorica legata allo specchio era senza dubbio prevalente. Dalla fine del Settecento in poi, però, assistiamo a un cambiamento radicale. Nel frattempo molte cose sono mutate. E' l'epoca dell'ascesa della classe borghese, che rivendica l'importanza di una dimensione privata distinta da quella pubblica dell'esistenza, e la centralità fisica e morale dell' individualità. La casa borghese, in quanto "regno" della sfera privata, acquista un valore quasi sacro di regno inviolabile della famiglia e dell'individuo. Per quanto riguarda gli oggetti di uso quotidiano, inoltre, i progressi della tecnologia hanno mutato radicalmente l'aspetto delle case borghesi. Lo specchio, in particolare, prodotto su più larga scala, è diventato un oggetto accessibile a una parte più ampia della popolazione, grazie al prezzo più contenuto rispetto al passato. Nell'Ottocento si diffonde in quasi tutte le case, per cui il guardarsi allo specchio diventa un gesto usuale, quotidiano, espressione di quella intimità privata che avviene dentro l'ambiente domestico.
Ma cosa vediamo realmente davanti a queste opere di donne allo specchio? Potremmo dire che ciò a cui assistiamo spesso in questo tipo di rappresentazioni è solo l'atmosfera raccolta e appartata di una donna sola con se stessa, nell'atto di riappropriarsi della propria intimità, strappandola allo sguardo indiscreto del mondo, nello stesso momento in cui a quello sguardo viene esposta impudicamente. Infatti, di contro, possiamo anche obiettare che ciò che si vede è il processo di trasformazione della donna in immagine, "perseguitata" fin nella sua più profonda intimità ed esposta al voyeurismo maschile e contemporaneamente alla sua pruderie. E probabilmente questi due aspetti sono entrambi inscindibili da ogni discorso sull'argomento.

Tra tutti i dipinti di cui si diceva, ho scelto questa Donna allo specchio del pittore danese Christoffer Wilhekm Eckersberg, oggi conservato alla Hirschprung Collection di Copenhagen.
La filosofia estetica di Eckersberg tendeva ad unire la classicità con l'attenzione alla realtà e alla natura, principio a cui si attiene in tutti i suoi dipinti, compreso questo, nel quale il nudo di donna esce fuori dal mondo sublime e lontano delle pitture storico-mitologiche e assume atteggiamenti più reali e quotidiani. In questa rappresentazione non c'è nessuna traccia di affettazione, nessun mascheramento nei personaggi dei miti e delle leggende della classicità o dell'iconografia religiosa. C'è solo una giovane donna, intenta ad acconciarsi i capelli alla moda del tempo, colta in un momento di intimità, ignara di essere vista, quasi spiata di nascosto, sorpresa in un momento di quotidiana vita domestica, nella stanza di una casa borghese. Nonostante impegnata in un atto del tutto ordinario, la figura rivela una grazia straordinaria, accentuata dalla posizione del braccio destro che nasconde la parte inferiore del suo viso. Questo non toglie nulla alla sua bellezza, anzi l'accresce, isolando ed enfatizzando la dolcezza degli occhi. La luce fredda del nord fa il resto, donando al quadro quella luminosità che contribuisce al suo tono di composta sobrietà. Come si è lontani da certe rappresentazioni di nudo ostentato e frivolo. In questa serena e silenziosa intimità domestica sta tutto il fascino del dipinto, capace di restituire, libera da ogni sovrastruttura, un’immagine femminile di pura e nuda bellezza.

A questi link si possono ammirare decine di rappresentazioni di donne allo specchio. Il secondo rimanda al primo di sei video, riguardanti questo tema

https://bjws.blogspot.it/2011/02/preparing-to-meet-morning-at-mirror.html


Lo scudo di Perseo

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Scudo con testa di Medusa,1597 circa, Galleria degli Uffizi di Firenze.

Nei tanti post dedicati allo specchio abbiamo visto i vari significati estetici o metaforici che quet'oggetto assume in varie espressioni d'arte. Lungo i secoli, allo specchio è stato attribuito il significato allegorico della Vanitas, della Prudentia, della Verità; poi abbiamo visto specchi che riflettono, che duplicano, che deformano, che sconfinano, che mentono, che predicono il futuro, che rimangono muti. Specchi davanti ai quali ci interroghiamo sul senso della vita e su chi siamo. Di sicuro ci è rimasta l'impressione di un oggetto ambiguo ed enigmatico.
La nostra cultura è sovraffollata di specchi, perché viviamo nell'epoca del narcisismo. Camminiamo in città che riflettono o catturano continuamente la nostra immagine, per non parlare della nuova moda dei selfie, senza dubbio anch'essi una forma di specchiamento.
Il rischio che si corre è che nello specchio non vediamo più noi stessi, ma il modello vincente a cui tendiamo a somigliare. Il nostro io è sempre più fuori di noi e il rapporto con noi stessi è sempre più problematico. Ma lasciamo questi temi agli esperti.
Da parte mia desidero parlarvi del mio specchio preferito, o meglio della sua metafora.
Nel mito di Perseo, l'eroe raggiunge il giardino delle Esperidi per uccidere la Gorgone Medusa, il cui sguardo ha il potere di impietrire chi lo guarda. Perseo riesce a decapitare Medusa guardandola riflessa in uno scudo lucente e finemente istoriato, che gli era stato donato da Atena. Dal collo reciso della Gorgone spunta fuori Pegaso, il cavallo alato.
Lo sguardo diretto di Medusa è mortale. L'orrore non può essere guardato in faccia, ma deve essere mediato da uno specchio che lo riflette. Questo mito ha sempre esercitato su di me un grande fascino. Ho sempre visto in quello scudo tutto il complesso di simboli che l'uomo ha elaborato nei secoli per interpretare la realtà, perché solo attraverso di essi riusciamo a guardarla senza impietrire dall'orrore.
Cos'è infatti un simbolo? Un simbolo è un segno concreto che evoca l’invisibile, cioè qualcosa che è al di là di se stesso. Sono i simboli che stabiliscono un rapporto tra mondo visibile e mondo invisibile, tra il mondo degli oggetti e il mondo dei significati. Esso può essere costituito da parole, immagini, suoni.
Poesia, Letteratura, Pittura, Scultura, Musica, Cinema, Fotografia, non sono altro che universi di simboli che fungono da specchio per guardare la crudezza del mondo, senza rimanere pietrificati da quella visione. Solo in questo modo riusciamo a reggerne lo sguardo, proprio come, nel rito di iniziazione al culto dionisiaco, il novizio poteva scorgere la terribile maschera del Sileno soltanto riflessa in uno specchio d'acqua.


sabato 16 dicembre 2017

La porta di un altro mondo

Maurits Cornelis Escher, Mano con sfera riflettente (Autoritratto allo specchio sferico), 1935.

L’autore di quest’opera del 1935 è l'olandese Maurits Cornelis Escher. Non è un surrealista, non ha mai aderito a nessun movimento artistico, la sua produzione ha sempre stentato ad essere riconosciuta come arte, eppure, come i surrealisti, anche lui è noto per le sue immagini impossibili, un'impossibilità che non risulta immediatamente, ma solo dopo che la percezione ha avviato il suo processo di interpretazione.
In questa litografia è raffigurata una sfera di vetro tenuta in mano da Escher, sulla quale si riflette la sua figura e tutto il resto della stanza in cui si trova. Il periodo di realizzazione di quest'opera coincide con un radicale cambiamento nella produzione artistica dell'autore, che passa dall'interesse naturalistico e figurativo a una meditazione matematica per immagini sullo spazio.

Lo specchio rotto di Mino Ceretti

Mino Ceretti, Uomo allo specchio rotto (1956)

Di un mondo in sfacelo parla anche la pittura di Mino Ceretti.
Abbiamo visto finora specchi infedeli che riflettono secondo leggi contrarie alla fisica, specchi che moltiplicano l'immagine all'infinito, specchi che la distorcono. Qui vediamo invece uno specchio rotto, che riflette un uomo a pezzi. Il ritratto, la storica rappresentazione del sé, si rifrange in una moltitudine di frammenti.
Anche nel quadro di Bacon l'immagine era a pezzi, ma qui c'è un elemento in più: è lo stesso specchio che è distrutto. Forse qui l'autore vuole andare oltre la rappresentazione della condizione esistenziale dell'uomo contemporaneo, che non riesce più a trovare un significato unitario di se stesso. Qui forse il pittore vuole dirci anche qualcosa a proposito della capacità della pittura, e dell'arte in genere, di riuscire a dare una rappresentazione più o meno unitaria e coerente della realtà umana.

I corpi deformati di Francis Bacon.

Come dichiarava lo stesso autore nelle interviste, l'obiettivo della attività artistica di Francis Bacon è quello di produrre veri e propri shock visivi. Le sue opere infatti rappresentano la condizione esistenziale dell'uomo moderno attraverso immagini deformate di corpi umani. Distorsioni che raccontano del tormento dell'uomo solo che lotta con se stesso.

Francis Bacon, Ritratto di George Dyer allo specchio, 1968, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.

George Dyer, il soggetto di questo quadro, è stato a lungo il compagno dell’autore e morì suicida nel 1971, alla vigilia dell'inaugurazione della trionfale personale dell'artista al Grand Palais di Parigi. Qui Bacon lo ritrae davanti a uno specchio dall'incongruo colore azzurro cielo. E' vestito in giacca e cravatta, seduto su una sedia girevole, in una posizione disinvolta, la sigaretta accesa in una mano, con lo sguardo rivolto allo specchio. Una linea diagonale bianca taglia il corpo in due parti, delle quali la sinistra risulta deformata e sfocata, come sottoposta a delle pressioni che hanno schiacciato alcune parti e rigonfiato delle altre, spostando i volumi e creando un disarmonico sovrapporsi di masse. Anche il volto sembra essere stato sottoposto a una misteriosa forza centrifuga che ha limato i rilievi consueti del viso. Il riflesso nello specchio completa la lacerazione del corpo, mostrandoci il volto che nell'immagine riflettente è assente perché mutilato, un volto visto di profilo, lacerato in due come un foglio di carta. Qui non è lo specchio deformante, convesso o concavo, ad alterare e sformare il corpo. La deformazione è la condizione esistenziale dell'uomo e lo specchio non fa che rifletterne la devastazione.

Gli specchi deformanti di André Kertész


André Kertész, Distorsion n°40, Paris, 1933.

Il fotografo André Kertész, ungherese di nascita, francese d'adozione, era considerato da Henry Cartier-Bresson il padre della fotografia contemporanea e da Brassaï il proprio maestro. Se i suoi costanti mutamenti di stile, temi e linguaggio da un lato ci impediscono di collocare il suo lavoro in un ambito estetico esclusivo, dall’altro ne dimostrano lo sguardo poliedrico e la costante ricerca. La sua fotografia va dal lirismo umanista all'astrattismo costruttivista, dalle sperimentazioni surrealiste al fotogiornalismo e alla fotografia di strada, pur dichiarandosi sempre indipendente rispetto a qualsiasi movimento artistico.
Nel 1933 la rivista satirica francese Le sourire gli offrì cinque pagine da riempire in piena libertà. In particolare il Direttore chiese a Kertész di «produrre immagini di nudo capaci di rinnovare drasticamente il genere». Per l’occasione il fotografo ungherese utilizzò alcuni specchi deformanti da Luna Park, sia concavi che convessi, e nel suo studio realizzò una serie di fotografie di due modelle in pose diverse, o meglio dei loro riflessi negli specchi, che restituivano immagini distorte dei corpi. La serie, conosciuta con il nome di Distorsioni, comprendeva 200 foto: ciò che all’inizio doveva essere un servizio all’interno di una rivista umoristica, finirà per essere una serie tra le più apprezzate di fotografia artistica del Novecento.

Gli specchi ambigui di Magritte

René Magritte, La réproduction interdite (portrait d'Edward James), 1937.

Quella che vedete in questa foto è una riproduzione dell'opera "La riproduzione vietata (Ritratto di Edward James)", di René Magritte.
Un uomo di spalle, vestito elegantemente e con i capelli accuratamente tagliati, è in piedi di fronte a uno specchio. La resa pittorica è molto accurata e la precisione quasi fotografica. Ogni elemento è reso molto realisticamente: il marmo della mensola, la cornice dello specchio, i capelli impomatati, la copertina del libro, di cui riusciamo persino a leggere titolo e autore. Le nostre convenzioni percettive vorrebbero subito farcelo riconoscere come un normale ritratto allo specchio, ma le nostre aspettative sono spiazzate. Contro ogni logica, il volto non si vede. Rimaniamo disorientati, in preda all'inquietudine: l'immagine nello specchio ci restituisce ancora le spalle dell'uomo. Il titolo dell'opera ci dice che si tratta del ritratto di Edward James, ma il suo volto, la sua identità visibile restano nascosti. E' un cortocircuito sensoriale, una contraddizione in termini: un ritratto che nega l'essenza stessa del ritratto.

Chi c'è nello specchio?


Quante volte, vedendo un thriller o un horror, davanti a una scena con lo specchio, ci prepariamo al peggio? E infatti, una scena davanti allo specchio in questo genere di film anticipa sempre un balzo sulla sedia dello spettatore. Ce lo dice la musica, che prende toni di suspence, ce lo dice il cliché di genere. E anche se lo spettatore è preparato, il regista bravo sa come prenderlo ugualmente di sorpresa, giocando sui tempi, e attentare ai suoi nervi.
Mostri, demoni, fantasmi, possibili assassini, proiezioni di paure o di personalità multiple, personaggi conosciuti e fidati fino ad allora e che in genere, in questo tipo di scene, cominciano a rivelare il proprio lato nascosto, ambiguo e pericoloso.

Gerald Leslie Brockhurst, Adolescence.

Gerald Leslie Brockhurst, Adolescence, 1932.

Gerald Leslie Brockhurst (1890-1978) è considerato uno dei migliori ritrattisti del XX secolo. Nato a Birmingham, operò prima in Inghilterra e dal 1939 negli Stati Uniti. Era specializzato nel ritrarre le belle donne, personaggi spesso famosi come Marlene Dietrich e la duchessa di Windsor.
Fu anche un abile e meticoloso incisore.
Questa acquaforte, dal titolo "Adolescence", del 1932, è considerata il suo capolavoro, una delle migliori opere di incisione del XX secolo. Ritrae la sua modella e amante di 15 anni, Kathleen Nancy Woodward, dal pittore chiamata Dorette, la relazione con la quale scatenò molto scandalo in Inghilterra.

Le "incarnazioni" di Janieta Eyre

Janieta Eyre, da "Incarnazioni", 1995.

Il tema del doppio viene declinato in maniere diverse. Il doppio può essere una duplicazione o una scissione di se medesimi, o essere interpretato come sosia o gemello, cioè come un altro da sé ma dalle sembianze identiche. Gli psicologi spiegano il doppio in questa seconda accezione come l'incarnazione dell'ombra, cioè la personificazione delle parti negative di sé, quelle che rimangono scisse, non integrate, costitutive di una personalità multipla. In questo senso, quindi, il sosia o gemello rappresenterebbe un’invasione dell’inconscio nel campo della coscienza, la cui comparsa provoca angoscia e inquietudine. Questo doppio sarebbe dunque il risultato di una scissione interiore e rappresenterebbe la personificazione della parte di sé sconosciuta, oscura, della quale si prende coscienza solo attraverso il drammatico confronto con un altro se stesso, la cui comparsa assume quasi sempre una connotazione ossessiva e persecutoria.

venerdì 15 dicembre 2017

Le finestre di Josef Sudek

Josef Sudek, Ultime rose, 1959.

Dalla finestra del proprio studio, il fotografo cecoslovacco Josef Sudek ha ripreso immagini piene di poesia, molte delle quali durante l'occupazione nazista di Praga.
Seppure privato del braccio destro durante la Prima guerra mondiale, la fotografia diviene il centro del suo lavoro. Il suo braccio mutilato non gli impedisce di aggirarsi per Praga con un treppiedi di legno sulla spalla e fermarsi ad aspettare anche per ore la luce giusta che dia vita a qualsiasi oggetto che desti la sua attenzione. Sudek viene definito poeta della luce, perchè con la luce, ricercata e a lungo attesa, compone le sue immagini.
Ad un primo sguardo le sue fotografie sembrano delle perfette nature morte o visioni di paesaggi, immagini del tutto convenzionali, ma esse sono frutto di un lavoro di preparazione lunghissimo, severo, che cerca nella bellezza e nell’armonia della luce la poesia del mondo. Un mondo che è immobile dietro una finestra rigata dalla brina o dalle gocce di pioggia, una finestra che è cornice e limite di uno spazio indefinito che definisce la poesia dei suoi scatti.

Finestre dello Spirito. La Cappella Rothko

Rothko Chapel, 1964-71, Houston.

Oggi voglio parlarvi di un luogo totalmente privo di finestre, intese come aperture che mettono in comunicazione un interno con un esterno, perché questo luogo è stato progettato per mettere in comunicazione mistica l’individuo con un aldilà spirituale. La Cappella Rothko è una cappella aconfessionale che si trova a Houston (Texas), voluta dai collezionisti John e Dominique de Menil. Colpiti dalle immense tele che l’artista di origini russe Mark Rothko stava realizzando per il ristorante Four Seasons (e che poi avrebbe invece donato, in parte, alla Tate Gallery, dov’è tuttora presente un’installazione permanente progettata dallo stesso Rothko), decisero di commissionargli alcuni grandi quadri per la cappella che volevano farsi costruire nei pressi della St. Thomas Catholic University di Houston, dove Dominique insegnava alla facoltà d’arte. Fu Rothko stesso a deciderne la forma ottagonale che rimanda visivamente agli antichi battisteri e pone il visitatore in uno spazio circolare circondato e avvolto dai dipinti. Nessuna finestra, niente altro se non la luce che cade dal grande lucernario e schermata da veli, otto semplici panche mobili e i testi sacri delle maggiori religioni del mondo.
E’ un luogo tanto profondamente mistico da essere segnalato dal National Geographic come uno dei primi dieci posti più dispensatori di pace dell’intero globo. Un’architettura sobria, un minimalismo francescano, l’assenza di qualsiasi immagine sacra. E il vuoto. E in questo vuoto, alle pareti, tre trittici e cinque quadri singoli dai colori cupi, il nero opaco, il marrone, il viola scuro, l'indaco, un po' di rosso su un unico pannello, davanti ai quali sedersi in silenzio come di fronte a vere e proprie finestre che immettono in un mondo ultraterreno.


La luce naturale che piove dall'alto muta con il mutare della luminosità esterna, e stare lì dentro non è come visitare un museo, è un'esperienza dello spirito, un viaggio all'interno di se stessi. Infatti questo posto consacrato scatena sui frequentatori delle reazioni divergenti: c'è chi medita sul suo Dio, chi sull'universo, sulla vita, sulla morte, sul nulla, qualcuno trova la pace interiore, qualcuno si abbandona al pianto e c'è chi fugge perché trova emotivamente insostenibili l’impatto visivo, il silenzio o il senso di angoscia. Ma per la maggior parte di coloro che superano quella porta, avviene di entrare in uno stato meditativo al di là dello spazio e del tempo.

I mostri entrano dalla finestra

Le notti di Salem.

Porte e finestre sono, nei film horror, molto più che meri elementi scenografici, ma fanno parte integrante dell'universo significante legato a questo genere cinematografico, tanto che, durante la visione, se vediamo un personaggio sostare presso una finestra o aprire una porta chiusa, noi ci prepariamo a fare il balzo sulla sedia, perché nei film del terrore spesso i mostri entrano dalla finestra e dietro le porte chiuse ci sono realtà che è meglio non scoprire.
In Poltergeist: demoniache presenze, il tetro albero secolare di fronte alla casa, si trasforma in un mostro orribile che entra dalla finestra e cattura il piccolo Robbie; in Venerdì 13 sono frequenti gli attacchi di Jason alle sue vittime proprio attraverso una finestra e in Le notti di Salem il bambino vampiro entra dalla finestra a far vittime. I mostri e i fantasmi, inoltre, stazionano come ombre inquietanti dietro i vetri di una finestra del piano di sopra, come in Psycho o The Others. Ci sono case del terrore in cui le finestre trasformano la facciata in una presenza sinistra e viva, come in Amitiville o nel film di Pupi Avati "La casa dalle finestre che ridono".

Il voyeur alla finestra

Rear Window, regia di Alfred Hitchcock, 1954.

Secondo Alberto Moravia, autore del libro "L'uomo che guarda", "la scopofilia, o, se si preferisce, il voyeurismo sarebbe all’origine di gran parte della narrativa e, ovviamente, del cinema". Perchè ci sia voyeurismo, il comportamento della persona spiata deve essere un comportamento privato, di solito sottratto a sguardi indiscreti, e l'atto di spiarlo deve pertanto essere accompagnato dalla consapevolezza di commettere una trasgressione. Inoltre lo scopofilo spia non soltanto ciò che è proibito, ma anche ciò che è ignoto.

La porta di una baracca

Dorothea Lange, Between Weedpatch and Lamont, Kern County, California. Children living in camp...Rent $2.75 plus electricity, 12 April 1940.

Dorothea Lange (1895-1965) è stata una grande fotografa documentarista americana, nota soprattutto per le sue cronache della Grande Depressione e per le fotografie di lavoratori agricoli migranti. Anche lei, come Walker Evans, lavora su commissione della Farm Security Administration (organismo federale di monitoraggio della crisi) esaminando le condizioni di vita dei lavoratori agricoli e delle loro famiglie negli Stati occidentali.
Lange fotografa i contadini che hanno abbandonato le campagne e si spostano ad ovest, a causa del Dust Bowl (tazza di polvere), il lungo periodo di siccità e tempeste di polvere e sabbia che aveva desertificato 400.000 km² di terreni agricoli negli stati del Midwest, come l'Oklahoma. Mezzadri e braccianti, con famiglia e masserizie al seguito, danno vita al più drammatico e silenzioso esodo della storia americana del XX secolo.

Una finestra sulla fotografia di Walker Evans

Walker Evans, New York. 61st Street between 1st and 3rd Avenues. Children playing in the street, New York, 1938.

Walker Evans è il capostipite della tradizione documentaria della fotografia americana. Per oltre quaranta anni, dal 1930 ai primi anni settanta, Evans ha registrato la scena americana con le sfumature di un poeta e la precisione di un chirurgo, creando un catalogo visivo enciclopedico dell'America moderna nel suo divenire. E' ricordato soprattutto per aver immortalato la Grande Depressione degli anni trenta in una serie di fotografie che denunciano la condizione umana in quel periodo.
Evans si dedica alla fotografia attorno al 1930, dopo aver rinunciato alla carriera di scrittore professionista.

Foto di un fotografo che fotografa dalla finestra


René Burri, Henri Cartier Bresson sulla 5th Avenue, New York 1959.

René Burri è stato uno dei più grandi fotografi di sempre. Si è spento l'ottobre scorso all'età di 81 anni, dopo una carriera incredibile. Molte immagini iconiche del Novecento sono sue fotografie, che hanno immortalato personaggi come Che Guevara, Picasso, Giacometti, Le Corbusier, nonché molti protagonisti del mondo del cinema e dello spettacolo.
Comincia la sua carriera fotografica con un reportage sulla realtà dei bambini sordomuti, che viene pubblicato sulla prestigiosa rivista Life nonché su altre importanti riviste europee. Entrato a far parte della scuderia di Magnum Photos inizia la sua intensa attività come fotografo di reportage in giro per il mondo, per realizzare i lavori commissionati da Magnum. Questi furono gli anni in cui Burri si recò in Italia, Cecoslovacchia, Turchia, Egitto e altri paesi. Tra le numerose pubblicazioni menzione particolare merita la raccolta "Die Deutschen" del 1962, realizzata un anno dopo la costruzione del Muro di Berlino. Si tratta di una delle migliori raccolte fotografiche della storia, in cui lo sguardo straordinariamente umano di Burri testimonia uno squarcio disteso e insieme malinconico della Germania divisa su due fronti.

Il mostro è alla finestra.


Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens), regia di Friedrich Wilhelm Murnau, 1922.

Siamo nel 1838, nell’immaginaria città baltica di Wisborg, in Germania. L’agente immobiliare Knock invia il giovane Hutter in Transilvania per concludere un affare col conte Orlok per l’acquisto di una casa nella stessa Wisborg. Il viaggio fino al castello sui monti Carpazi è segnato da strani e sinistri presagi. Il padrone di casa, il conte Orlok, si rivela non meno strano e misterioso. Il contratto si conclude e Hutter realizza che l'ambiguo conte altri non è che il famigerato Nosferatu, il vampiro di cui ha sentito parlare durante il suo viaggio. Chiuso nella sua stanza, egli lo vede partire su di un carro carico di bare, riempite di terra (senza la sua terra il vampiro perderebbe ogni potere).

Finestre deformate. Il Gabinetto del Dottor Caligari


Das Cabinet des Dr. Caligari, regia di Robert Wiene, 1920.

Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari) è un film muto del 1920 diretto da Robert Wiene ed è il simbolo del cinema espressionista tedesco. Progenitore per eccellenza del genere fantasy ed horror, il film prende vita nella Germania ferita e umiliata dalla sconfitta nel primo conflitto mondiale, nel clima instabile della Repubblica di Weimar, e inscena una parabola gotica e fantastica incentrata sul potere oscuro dell'ipnotismo e del controllo della mente.

Una finestra su una Parigi da fine del mondo

Jacques Louis Daguerre, Boulevard du Temple, Paris, 1838.

Come quella di Niépce, considerata la prima fotografia della storia, viene realizzata da una finestra anche la celebre Boulevard du Temple, che Daguerre esegue dallo studio della sua casa di Parigi. Una fotografia che detiene anch'essa un primato, in quanto prima della storia in cui si vede una figura umana.
Nonostante a quell'ora il boulevard dovesse essere affollato di passanti e di carrozze, nel dagherrotipo appare deserto a causa del grande tempo di esposizione occorrente (dai 15 ai 20 minuti), che impediva l'impressione di oggetti in movimento. Ma se si guarda bene, si riesce a vedere una piccola sagoma nera sul marciapiede in basso a sinistra. Si tratta di un uomo che si sta facendo lucidare gli stivali ed è rimasto immobile per un tempo sufficientemente lungo, con la gamba sollevata e poggiata sul banchetto del lustrascarpe.
Il filosofo Giorgio Agamben, nel suo saggio del 2004 Il Giudizio Universale, cerca di indicare il significato simbolico di questa foto, che mette in luce la novità epocale del fare fotografia.

La prima fotografia.

Joseph Niépce, Vista dalla finestra a Le Gras, 1826, Harry Ransom Center dell'Università del Texas.

"Vista dalla finestra a Le Gras" è la prima fotografia conosciuta della storia, precedente all'invenzione del dagherrotipo. Creata da Nicéphore Niépce nel 1826, rappresenta uno scorcio del giardino visto da una finestra al primo piano della sua casa-laboratorio, detta Le Gras, in Borgogna. A destra si vede, o meglio si intuisce, il tetto del fienile, a sinistra la colombaia, e sullo sfondo un albero di pero sotto un cielo limpido.
Niépce era riuscito a catturare l’immagine con una camera oscura, ricoprendo una lastra di peltro con bitume di Giudea e lasciano in esposizione per un tempo di circa 8 ore. La miscela di bitume esposta alla luce si è indurita mentre quella non esposta è stata rimossa con una miscela di olio di lavanda e petrolio bianco. In realtà non si tratta di una vera e propria fotografia, come oggi noi la intendiamo, ma bensì di una eliografia.

Balthus. Finestre del "mito del passaggio"

Balthus, La semaine des quatre jeudis 1949.


Entrando nelle opere di questo pittore eccentrico e discusso, intraprendiamo un piccolo viaggio nei recessi oscuri e disturbanti della mente, dove sensualità e crudeltà, Eros e Thanatos si intrecciano indissolubilmente.
Balthus, pseudonimo di Balthasar Kłossowski de Rola (1908-2001), è stato un pittore francese di origine polacca. Rimase sostanzialmente estraneo a tutte le avanguardie del Novecento, sebbene siano rintracciabili nella sua opera delle venature di surrealismo e l'importante influsso di artisti come Bonnard e Giacometti. Quando decise di diventare pittore a sedici anni, trasferendosi a Parigi, non frequentò nessuna Accademia; seguendo il consiglio di Bonnard, impara il mestiere copiando i grandi maestri nel Museo del Louvre. Infatti, l’identità artistica di Balthus avrà come matrice fondamentale la tradizione del classicismo francese, da Poussin fino ad Ingres, Corot, Degas.

venerdì 8 dicembre 2017

Piccoli schermi luminosi

Lee Friedlander, Philadelphia, 1961.

Nel febbraio del 1963, Harper’s Bazaar pubblicò, su quattro pagine, un lavoro fotografico di Lee Friedlander, dal titolo The Little Screens, accompagnato da una presentazione di Walker Evans. Si trattava di sei fotografie in bianco e nero che riproducevano schermi televisivi ospitati in stanze di motel o in anonimi soggiorni domestici sparsi per l’America dei primi anni '60, gli anni in cui la televisione aveva ormai assunto un posto centrale all'interno della famiglia americana, assurgendo al ruolo di nuovo simbolo della vita contemporanea e di emblema del potere dirompente dei mezzi di comunicazione di massa.
Tra il 1963 e il 1969 la serie è cresciuta, ma non è stata riunita per intero fino alla mostra del 2001 alla Fraenkel Gallery di San Francisco, che ha pubblicato anche il libro, avente per titolo l’originario The Little Screens, comprendente 34 immagini scattate tra il 1961 e il 1970, accompagnate da un saggio di Saul Anton.

Il quadro nello schermo


Molto spesso i quadri d'autore entrano nelle scenografie dei film, in modo certo non casuale, ma aggiungendo significato alla narrazione, fungendo pertanto da co-protagonisti.
Così la cornice di un dipinto si inserisce all'interno della cornice di uno schermo cinematografico, spesso per raccontarci qualcosa dell'identità di un personaggio, della sua classe sociale o della sua vita interiore, per enfatizzare una scena o inquadrare la pellicola in un certo contesto storico.
Questo video è stato realizzato dall’attrice e videomaker Candice Drouet e raccoglie alcune scene di film in cui compaiono quadri famosi, come "Guernica" di Picasso in "Children of Men" (2006) e "Le Ninfee" di Monet in "Titanic" (1997), ma anche dipinti anonimi, che però rivestono un ruolo importante per lo svolgimento della storia, come accade per i ritratti animali che prendono vita in "Amélie" (2001).

Le "Museum Photographs" di Thomas Struth

Thomas Struth, Louvre 3, Paris 1989.

Nel 1989 Thomas Struth inizia a lavorare a uno dei suoi progetti più celebri e apprezzati, Museum Photographs, una serie d’immagini che ritraggono la dinamica del rapporto che si viene a creare tra museo e visitatori, scattate in alcuni dei più importanti musei del mondo ( il Louvre di Parigi, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, la National Gallery di Londra, il Rijksmuseum di Amsterdam e l'Art Institute di Chicago) tra il 1989 e il 1992. L’artista tedesco ritrae la gente che osserva i capolavori universali della pittura, restituendo una sensazione di teatralità del tutto assente nel lavoro del fotografo italiano.
A differenza di quelle di Ghirri, le fotografie di Struth sono di grande formato e molte presentano inquadrature ampie e profonde. Le notevoli dimensioni delle immagini modificano radicalmente l'abituale fruizione della fotografia da parte dell'osservatore: la visione è in realtà quella di un gioco teatrale, spettacolare, i cui protagonisti sono il museo, le opere e il visitatore che, da osservante, diventa osservato. Quella che potrebbe apparire una ricerca documentaria svolta all'interno di un luogo d'arte, in Struth si configura letteralmente come una messinscena, che accosta insieme due diverse temporalità: quella dei dipinti e quella dei visitatori, passato e presente, storia e contemporaneità.

Il fotografo nel museo. Luigi Ghirri

Luigi Ghirri, Firenze, 1986.

Quando si pensa a Luigi Ghirri solitamente si pensa alla fotografia di paesaggio. A partire dagli anni Ottanta, tuttavia, molte opere fotografiche di Ghirri sono ambientate nei musei, luoghi dove l’immagine è già presente nel contesto. Questo accade anche in altri lavori ghirriani, come “Paesaggi di cartone” o “Kodachrome”, in cui fotografa immagini pubblicitarie, manifesti o intonaci decorati e, nel far ciò, l'intento dell'artista è sempre quello di attuare uno scardinamento della percezione, di analizzare lo scarto tra vero e falso, di recuperare la visione della realtà nascosta dalle sue rappresentazioni, perché la fotografia è prima di tutto uno strumento di pensiero e di comprensione.
Ne “Il Palazzo dell’Arte”, che comprende 102 immagini di vari musei italiani (gli Uffizi di Firenze, il Museo d’arte antica al Castello sforzesco di Milano, le Gallerie di Palazzo Rosso a Genova) e internazionali (il Metropolitan Museum of Art e il Solomon Guggenheim a New York, il Centre Pompidou a Parigi), Ghirri riprende spesso anche i visitatori in contemplazione delle opere d'arte esposte. Alcune volte sono inquadrati di spalle, mentre sono intenti ad osservare un quadro, altre volte appaiono invece presenze sfuggenti, figure sfocate senza tempo.

Il fotografo dentro il museo

Elliott Erwitt – Prado Museum – Spain, Madrid, 1995.

Martine Franck, Elliott Erwitt, Alfred Eisenstaedt, Henri Cartier-Bresson, Ferdinando Scianna, Herbert List, David Seymour, Thomas Struth. Sono davvero molti i grandi fotografi che hanno scelto come loro soggetto i visitatori dei musei. Per farci un'idea, basta scorrere questo bell'articolo di Didatticarte: http://www.didatticarte.it/Blog/?p=4406
Elliott Erwitt viene di solito descritto come il fotografo della commedia umana, per il realismo, condito di humor e di ironia, con il quale ha letto e interpretato le faccende della vita, in tutte le sue manifestazioni. Con lievità e arguzia ha saputo mostrarne gli aspetti più comici e spesso anche ridicoli, svelando i paradossi e le contraddizioni del quotidiano. Suoi soggetti preferiti erano i cani, i bambini, ma aveva anche una vera predilezione per i visitatori dei musei, come dimostra la sua famosa serie ‘Museum Watchers’. Delle fotografie all'apparenza casuali, ma raccolte in realtà dopo lunghe e pazienti attese.

La guerra in salotto

Martha Rosler. Cleaning the Drapes, from the series House Beautiful Bringing the War Home. 1967–72.

Il conflitto in Vietnam è stato indicato come la prima "guerra da salotto", a causa del modo senza precedenti in cui la televisione e i mezzi di informazione di massa diffondevano le immagini della carneficina in corso all'interno delle famiglie americane. Eppure, fu per reagire alla sensazione di inadeguatezza di tali immagini, in particolare alla loro distanza dalla vita quotidiana degli americani, che l'artista poliedrica Martha Rosler ha prodotto la sua "Bringing the War Home: House Beautiful" (1967-72).

Le cose non sono ciò che sembrano

Duane Michals, Things are queer, 1973.

«Il riflesso in uno specchio è illusione, così come ogni altra cosa è illusione, semplicemente frutto dei giochi della mente. Ogni cosa non è reale. Ma allora cos'è reale?».
Queste parole sono del fotografo e artista statunitense Duane Michals, un innovatore che negli anni Sessanta e Settanta fu in grado di rompere decisamente con i canoni fotografici dell’epoca, che oscillavano dalla perfezione contemplativa del paesaggio di Ansel Adams all’attimo decisivo di Henri Cartier-Bresson.

I "luoghi non comuni" di Stephen Shore

Stephen Shore, US 97, South of Klamath Falls, OR, July 21, 1973.

Il 21 luglio 1973 il newyorkese Stephen Shore, il pioniere della fotografia a colori, mentre viaggiava lungo le strade dell’Oregon, riprese questa immagine, che avrebbe poi pubblicato nel suo celebre Uncommon Places (1982).
Si vede inquadrato un grande cartellone pubblicitario, che rappresenta un paesaggio curiosamente molto simile a quello in cui l'immagine è collocata.
L'effetto fotografia-nella-fotografia ricorda un po' quello che caratterizza un'opera quadro-nel-quadro del pittore surrealista Magritte, La condizione umana, dove il paesaggio che fa da sfondo non è che il prolungamento del paesaggio raffigurato su una tela, poggiata su un cavalletto.

L'Omaggio all'Ariosto di Franco Vaccari

Franco Vaccari, “Omaggio all’Ariosto. Esposizione in tempo reale n.8”, 1974.

“Ero stato invitato nel 1974 a partecipare ad una mostra dedicata all’Ariosto, al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Così ho deciso di ripercorrere il tragitto che si dice lui avesse fatto a piedi, da Carpi a Ferrara, in ciabatte, distratto, come tutti pensano che siano i poeti. Io l’ho fatto in macchina, e invece delle ciabatte avevo gli zoccoloni d’ordinanza. Prendevo le cartoline dei paesi che attraversavo, fra un paese e l’altro facevo le Polaroid, le incollavo sulle cartoline, le timbravo, le spedivo al Palazzo dei Diamanti. Mi interessava l’interazione fra la foto Polaroid, che diventava il documento irripetibile del viaggio, e le immagini immutabili delle cartoline. Un’interazione fra il persistente e l’occasionale”.
Questo è il modo con cui l'artista e teorico Franco Vaccari descrive uno dei propri “Viaggi minimi”, “Omaggio all’Ariosto. Esposizione in tempo reale n.8” (1974).

I volti dei desaparecidos

Juan Ángel Urruzola, Eduardo O'Neil, detenido desaparecido en Buenos Aires en 1977, da Miradas ausentes, 2000.

Nel 2008, il fotografo Juan Ángel Urruzola ha affisso sessanta gigantografie in bianco e nero sui muri nel centro di Montevideo. Si tratta di fotografie che, citando quelle di Kenneth Josephson, contengono a loro volta altre fotografie: i volti di alcuni ragazzi, desaparecidos durante il periodo della dittatura, inseriti in vari paesaggi.
“Miradas ausentes (en la calle)”, questo il nome, è un progetto visivo memoriale. Come si può intuire, qui lo stesso artificio, presente nelle immagini di Josephson, non si pone fini concettuali e metafotografici. L'obiettivo di questi murales è quello di riportare l'attenzione su un fatto storico, realmente accaduto, e dunque di testimoniarlo, di tenerne viva la memoria e di stimolare l'impegno pubblico, dal momento che le misure del governo si volgevano invece a imporre una politica del silenzio finalizzata alla pacificazione, facendo cadere nel dimenticatoio i crimini passati e i loro responsabili.

La fotografia concettuale di Kenneth Josephson

Kenneth Josephson, New York State, 1970.

Prima di introdurre l'opera di Josephson, vi propongo un prospetto sintetico delle varie concezioni che riguardano la fotografia.
Semplificando oltre misura, è possibile affermare che in fotografia si fronteggiano due visioni fondamentali:
- Realismo: la fotografia è una copia della realtà. Questa teoria ribadisce la funzione referenziale della fotografia, cioè il suo rapporto imprescindibile con il frammento di realtà riprodotto (denotazione). La capacità mimetica è insita nella natura tecnica della fotografia, nel procedimento meccanico in grado di far apparire l'immagine in modo oggettivo, senza la necessità di un intervento autoriale.
Ruolo della macchina fotografica: la macchina rappresenta un mezzo automatico, che opera da sola, detenendo un potere autonomo, in grado di operare una registrazione più fedele di qualunque occhio umano.

sabato 7 ottobre 2017

Immagini al quadrato - I "Ritratti reali" di Mario Cresci

Mario Cresci, dalla serie Ritratti reali, Tricarico 1967-72.

Mario Cresci (nato a Chiavari nel 1942) è un maestro di fotografia, scrittore e graphic designer, attento ai mutamenti linguistici, tecnici e sociali che gradualmente si sono sviluppati nei cinquant'anni delle sua attività. Il suo rapporto col Meridione d'Italia, e con la Basilicata in particolare, inizia negli anni Sessanta, nel decennio successivo a quello in cui Ernesto De Martino conduce lì, in terra lucana, le sue ricerche antropologiche che porteranno alla stesura di “Morte e pianto rituale” e “Sud e magia”.
Si tratta, insomma, del periodo in cui sociologi e intellettuali cercano nelle comunità del Sud di sciogliere i nodi di quella questione meridionale che il dopoguerra aveva riscoperto come oggetto d'indagine imprescindibile e obiettivo etico e civile.

Immagini al quadrato - Smoke. Le fotografie del mio angolo


Quale sarebbe la vostra reazione se un amico vi mettesse di fronte dodici album contenenti ben 4.000 fotografie, che riprendono tutte quante lo stesso scorcio urbano, un angolo all'incrocio di due strade, e vi dicesse che quello è il lavoro della sua vita, cominciato ben quattordici anni prima?
Questo è quanto capita al protagonista di “Smoke”, il bel film diretto da Wayne Wang e basato su un racconto di Paul Auster, “Il racconto di Natale di Auggie Wren”.

La scena che vi ho descritto, ambientata in un appartamento di Brooklyn, coinvolge lo scrittore Paul Benjamin (interpretato da William Hurt), in crisi in seguito alla morte della moglie, e Auggie Wren (Harvey Keitel), gestore di una tabaccheria. E' quest'ultimo colui che ha la passione della fotografia e ogni mattina, alle otto in punto, piazza il cavalletto e la macchina davanti al suo negozio e scatta una foto all’angolo fra la Terza Strada e la Settima Avenue: “E' per questo che non vado in vacanza – dichiara - , devo stare qui ogni mattina, alla stessa ora, ogni mattina nello stesso posto alla stessa ora. E' il mio progetto. Quello che puoi chiamare il lavoro della mia vita. E' la documentazione del mio angolo”. L'amico scrittore è un po' sconcertato nel vedere tante fotografie che sembrano tutte uguali.

Immagini al quadrato - "Blow-up" e l'inconscio tecnologico


Il film di Michelangelo Antonioni, Blow-up (1966), mette in scena il meccanismo della fotografia e dell'atto fotografico.
La storia sembra dipanarsi come un giallo, per poi implodere in implicazioni di tutt'altro tipo, di carattere soprattutto filosofico.
Thomas, egocentrico ed inquieto fotografo professionista della Swinging London anni Sessanta, scatta alcune fotografie a una coppia di amanti in un parco pubblico deserto. La donna se ne accorge e lo rincorre per farsi consegnare i negativi. Più tardi lo raggiunge addirittura nel suo studio fotografico, disposta ad offrirsi pur di riavere la pellicola.

Sguardi - Lo sguardo dell'autore presente in carne ed ossa


Nel 2010, dal 14 marzo al 31 maggio, l'artista Marina Abramović è stata protagonista di una performance davvero singolare. Tutti i giorni di apertura, in uno spazio al primo piano del MOMA di New York (in cui tra l'altro era allestita una retrospettiva sull'artista), è rimasta seduta immobile e in silenzio, guardando fisso negli occhi chi avesse voluto raccogliere l'invito (o la sfida) di sedersi di fronte a lei e di ricambiare quello sguardo per il tempo voluto. Ogni giorno, per sette ore di fila, senza mai alzarsi, né per mangiare né per assolvere altri bisogni. Nel corso delle 700 ore di performance, la sedia di fronte non è rimasta quasi mai vuota e in totale si sono avvicendate quasi 1400 persone, compresi personaggi celebri, alcune solo per pochi minuti, altre per delle ore.

sabato 9 settembre 2017

La trappola barocca degli sguardi

Diego Velázquez, Las Meninas, 1656, Museo del Prado.

Nella sua opera “L'invenzione del quadro”, Stoichita elenca una serie di quadri, soprattutto del Seicento, ambientati per lo più nello studio del pittore, i quali presentano pertanto uno “scenario di produzione”, cioè mostrano il farsi stesso di un'opera di pittura.
I due vertici di questa sorta di “autoritratti della pittura” sono “Las Meninas” di Velasquez e “L'Arte della pittura” di Veermer. Ma se in quest'ultima opera il pittore è ritratto completamente di spalle, mentre siede al suo cavalletto, e tutta la scena rimane racchiusa all'interno dello spazio pittorico, nella tela di Velasquez, invece, delle dieci figure presenti (più le due riflesse nello specchio in fondo), ben otto guardano verso lo spettatore. Il loro sguardo proietta lo spazio scenico fuori dal quadro, penetrando nello spazio di chi guarda.
“Anzi – scrive Martina Corgnati -, l'impressione di chi si trovi al Prado, di fronte alla grande tela, è proprio di essere inavvertitamente capitato sul palcoscenico, al centro dell'attenzione generale, sotto gli occhi di tutti. In altre parole: forse nessun'opera nell'intera storia dell'arte occidentale ci restituisce con altrettanta forza l'impressione di essere noi il vero soggetto del quadro” (I quadri che ci guardano).

domenica 3 settembre 2017

Scatti ribelli



La storia dell’uomo è intessuta di gesti di ribellione, che spesso si sono trasformati in motore di cambiamenti epocali e altrettanto spesso sono invece rimasti ignoti e sepolti nell’oblio. Prima ancora della narrazione storica, il gesto ribelle e disobbediente del singolo al potere o alle leggi dello Stato o ai costumi o alle norme della morale comune, caratterizzava i miti dell’antichità e la trama delle tragedie classiche. Il ribelle è il dissidente, il libero pensatore, l’individuo che disobbedisce e oppone il suo rifiuto a un pensiero o a un ordine costituito. Il suo è un atto prima di tutto etico, che nasce dall’adesione a un sistema di valori che reputa superiore a quello che contesta. Esso richiede coraggio e coerenza, perché quello del ribelle è un atto unico, una nota “stonata” che porta l’individuo fuori dal coro. Ma soprattutto il gesto ribelle mette colui che lo fa in opposizione ai suoi simili e al sistema di regole che normalizza il loro vivere comune.

giovedì 31 agosto 2017

LE GEOMETRIE INTERIORI DI FRANCESCA WOODMAN



CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

Nel capitolo precedente abbiamo visto i lavori di alcune artiste che hanno esplorato l’autorappresentazione come strumento per stigmatizzare la costruzione sociale delle identità di genere e provare a costruirne di nuove, liberate dai canoni della cultura patriarcale. In questo capitolo passeremo in rassegna delle autrici che, pur integrando spesso questa stessa istanza, finalizzano l’autorappresentazione a una funzione più introspettiva, alla conoscenza del proprio sé, alla ricerca della propria identità, alla definizione dei propri confini in relazione al mondo esterno e all’altro.
Una caratteristica di questo tipo di autorappresentazioni è il ruolo attoriale e quindi performativo che sta alla base del processo, in quanto l’autoritratto fotografico richiede al soggetto di incarnare personalmente il ruolo che intende rappresentare, trasformandolo, nello stesso tempo, da regista in attore, in grado di servirsi di scenografie, di maschere e travestimenti e sperimentare così fisicamente la plasticità del proprio Sé.
Parlando di esplorazione dell’identità, tuttavia, non si intende restringere la ricerca dell’artista dentro i confini di un narcisismo sterile. Quella indagata dall’autore è quasi sempre una condizione universale, fatta attraverso la propria immagine e il proprio corpo.


Corpo e spazio, presenza e assenza, identità e metamorfosi: sono questi i temi dell’opera fotografica di Francesca Woodman, un’artista dal grande talento visionario, che continua ad affascinare dopo trent’anni dalla sua scomparsa. Nata nel 1958 a Denver, vissuta per lunghi periodi in Italia, muore suicida a New York a soli 23 anni, lanciandosi nel vuoto da un palazzo di New York.
Dal 5 settembre al 6 dicembre 2015, il Moderna Museet di Stoccolma ha allestito una grande retrospettiva dedicata all’artista statunitense, mettendo assieme oltre cento fotografie della sua collezione nella mostra On Being An Angel. Questo era anche il titolo di una serie di fotografie realizzate da Francesca Woodman a Providence, Rhode Island, nel 1977.

lunedì 28 agosto 2017

Fuga dallo sguardo. “Film” di Samuel Beckett



E se lo sguardo avesse un effetto mortale sul guardato e quest'ultimo cercasse di fuggirlo a tutti i costi?

Nel 1964 Samuel Beckett termina la stesura della sua unica sceneggiatura per il cinema. Si tratta di “Film”, un cortometraggio di 22 minuti diretto da Alan Schneider. L'attore protagonista è Buster Keaton, che era stato negli anni '20 uno dei più importanti attori e registi del cinema muto.
Il film è totalmente privo di suono, a parte lo “shh!” onomatopeico pronunciato da una donna all'inizio. La parola e l'elemento uditivo hanno lasciato il posto a un silenzioso agire, perché tutto il film si concentra sulla funzione della vista.
Il nucleo centrale del film è il celebre assunto del filosofo empirista Berkeley: “esse est percipi” (l'essere è essere-percepito), cioè l'essere di ogni cosa, compreso l'uomo, consiste nel suo venir percepito e nient'altro.

domenica 27 agosto 2017

LO SPECCHIO RIVELATORE - LA DILATAZIONE DELLO SPAZIO PITTORICO IN TRE CAPOLAVORI DELL’ARTE



L’arte ha spesso cercato di invitare lo spettatore, nelle modalità più varie, a indagare lo spazio oltre il limite stabilito dalla cornice, fino a risucchiarlo letteralmente nella scena. A questo fine, molte volte si è servita di un elemento che ha posizionato strategicamente nell’ambiente raffigurato sulla tela: uno specchio. Questo oggetto è in grado di espandere la scena rappresentata, di dilatare lo spazio pittorico, di includere in esso anche il “fuori campo”, di mostrare ciò che è visibile e ciò che non è visibile, di consentire visioni del reale nel reale, come degli spazi rubati, dei riflessi, delle duplicazioni.

sabato 26 agosto 2017

LO SPECCHIO AMBIGUO: IDENTITÀ, DOPPIO, DEFORMAZIONI



IL DOPPIO NELLO SPECCHIO

Gli psicologi dell’età evolutiva sanno quanto lo specchio sia importante nel processo di acquisizione della propria identità da parte del bambino. Il legame tra specchio e identità viene da molto lontano, se si pensa che già Socrate e Seneca raccomandavano lo specchio come strumento per conoscere se stessi.

In tutte le espressioni d’arte e non solo, dalla letteratura al cinema, dalla pittura al teatro, numerose sono le testimonianze circa le implicazioni profonde del rapporto con la propria immagine allo specchio; e in particolare, in quest’ambito, la problematica dell’immagine allo specchio si confonde spesso con il tema del doppio.

Rodney Smith



I personaggi delle foto di Rodney Smith sono collocati in paesaggi sospesi tra realtà e immaginazione, dove vige la logica bizzarra del sogno e del nonsenso.
Nato nel 1947 negli Stati Uniti, Rodney Smith è un fotografo surrealista contemporaneo, il cui lavoro, come si legge nella breve biografia, è ispirato a Magritte.
Le sue fotografie sono visioni oniriche molto eleganti, che giocano con la logica e il paesaggio, permeando le immagini di sottili contraddizioni, di tranquille tensioni, di sorprese stravaganti.
Pur ispirando un senso di meraviglia e di spaesamento nello spettatore, le foto oniriche di Smith tendono ad essere più spensierate e meno sovversive rispetto a quelle dei fotografi surrealisti storici come Man Ray o Hans Bellmer. Nella calma ordinata delle sue immagini, non troviamo nulla delle distorsioni, delle ambiguità e delle provocazioni che caratterizzano gran parte di quella fotografia surrealista. Con quei fotografi però, e soprattutto con Magritte, condivide il ricorso allo scarto logico, il voler mettere in scacco la struttura della percezione comune e le aspettative di colui che guarda.
Nel mondo magico di Smith regna un equilibrio e una chiarezza formale che producono bellezza, ma non mancano il senso dell'umorismo e un tocco di stravaganza.

mercoledì 16 agosto 2017

I ritratti di Antonello da Messina


Per riscattare la propria condizione sociale, passando dallo status di artigiani a quello di intellettuali, gli artisti del Rinascimento rivendicavano il potere conoscitivo dell’arte, cioè il suo tendere all'universale, all'ideale eterno che trascende la materia e la caducità del particolare. Il ritratto, per sua natura, non si prestava molto allo scopo, perché è un genere che è legato alla particolarità di un individuo e per questo è stato a lungo visto con diffidenza dagli stessi artisti e considerato un genere inferiore rispetto alla pittura sacra e mitologica. Emblematico, infatti, è il caso di Michelangelo che accettò di eseguire un ritratto soltanto una volta in tutta la sua carriera. I ritratti del Quattrocento italiano tendono a idealizzare, a nobilitare, a trarre dalla caducità terrena e a elevare in una dimensione eterna i soggetti raffigurati, e non solo perché la loro funzione è soprattutto celebrativa ed encomiastica, ma anche perché la tendenza all'ideale, alla sublimazione della materia è considerata lo scopo supremo dell'arte, ciò che innalza quest'ultima dalla pratica artigiana facendone una nobile strada di conoscenza. Prevale all'epoca, perciò, il ritratto aulico di profilo, modellato sulle monete e medaglie romane, che celebra e idealizza i potenti, chiudendoli tuttavia in una dimensione lontana e in un isolamento inaccessibile, come i ritratti di Federico da Montefeltro e di Battista Sforza realizzati da Piero della Francesca.