Perché nessuno si soffermerebbe mai a osservare un ortaggio, mentre è attratto dai cavolfiori e dai peperoni di Weston? Rispondere a questa domanda coinvolge il discorso sulla natura stessa della fotografia, soprattutto sulla sua capacità di mostrare la realtà quotidiana in maniera differente da quella in cui ce la fanno percepire i nostri occhi.
Scrive Walter Benjamin in “Piccola storia della fotografia” (1931):
“Una tecnica esattissima riesce a conferire ai suoi prodotti un valore magico che un dipinto per noi non possiede più. Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla magari minima di caso... La natura che parla alla macchina fotografica è infatti una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente. Se è del tutto usuale che un uomo si renda conto, per esempio, dell’andatura della gente, sia pure all’ingrosso, egli di certo non sa nulla del loro contegno nel frammento di secondo in cui si allunga il passo. La fotografia, coi suoi mezzi ausiliari: con il rallentatore, con gli ingrandimenti, glielo mostra. Soltanto attraverso la fotografia egli scopre questo inconscio ottico, come, attraverso la psicanalisi, l’inconscio istintivo”.
Attraverso l'inconscio ottico, si riconosce al dispositivo fotografico la capacità di mostrare il mondo secondo una modalità diversa rispetto a quella di cui è capace lo sguardo umano. Grazie alla tecnica fotografica, all’esattezza e impassibilità dell’obiettivo, si ottiene uno spazio elaborato inconsciamente, che rivela particolari ignoti e imprevisti, dettagli insignificanti che sfuggono alla visione ordinaria.