domenica 21 maggio 2017
Sguardi - Lo sguardo eterno. I ritratti del Fayum
Insieme agli affreschi di Ercolano e Pompei e a pochi altri esempi, i ritratti del Fayum formano l'eredità pittorica pervenutaci, in buono stato di conservazione, dall'antichità. Pur essendo state scoperte già da tempo, solo alla fine dell'Ottocento vennero effettuati degli scavi massicci nelle necropoli di quelle regioni. I ritratti furono staccati dalle mummie e trasportati in Europa, dove suscitarono grande clamore. In particolare stupiva la grande naturalezza e immediatezza espressiva, in poche parole la modernità di questi ritratti, così simili agli stili europei post-impressionisti di quegli anni, al punto da far sorgere a volte il sospetto che si trattasse di vere e proprie falsificazioni. E notevole fu l'influenza esercitata da queste tavole sullo sviluppo dell'arte moderna.
I ritratti sono stati ritrovati in forma di pannelli dipinti (a encausto o a tempera) nella regione egizia del Fayum, ad Hawara, Marina-el-Alamein e Antinoopolis, mentre altri ritratti eseguiti sui sudari provengono per la maggior parte dagli scavi condotti nelle località di Saqqara, Asyut e Tebe.
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venerdì 19 maggio 2017
Sguardi - La "Saffo" di Pompei
Tondo con Donna con tavolette cerate e stilo (cosiddetta "Saffo") proveniente da Pompei, Particolare, 55 d.C., Museo Archeologico Nazionale di Napoli. |
Secondo alcuni studiosi, la comparsa di dipinti dallo sguardo intenzionalmente rivolto verso lo spettatore coincide con la diffusione dell'arte cristiana.
Anche a causa del generale naufragio della pittura di epoca precedente e degli scarsi esempi superstiti, difficile oggi fare una valutazione definitiva. A giudicare dalla ben più copiosa arte statuaria pervenutaci, sappiamo che all'arte greca interessava, a partire dall’età arcaica, ritrarre non i singoli individui, ma figure umane che costituivano un modello di perfezione, di bellezza e di regolarità e le cui espressioni rimanevano sempre e comunque serene e imperturbabili, spesso assorte in una sorta di contemplazione interiore, immerse in una dimensione ideale, generalmente imperscrutabile e indifferente a quella reale occupata dallo spettatore. Dell'arte greca ci sono pervenuti quasi esclusivamente reperti scultorei, ma la scultura, per sua natura, sfugge alla nostra indagine sullo sguardo dell'immagine, in quanto si colloca in uno spazio tridimensionale e il suo punto di vista dipende sempre dalla posizione dell'osservatore.
giovedì 18 maggio 2017
Sguardi - Un nuovo percorso
Uno dei tabù più vecchi e più noti del cinema è il divieto assoluto, per l'attore, di guardare in macchina, perché tutto deve sembrare assolutamente vero: non guardare la cinepresa significa fare come se non ci fosse, negare la sua esistenza, per far sì che lo spettatore non si accorga della presenza della macchina ed abbia invece l'illusione di star assistendo, non visto, a una scena reale. Il cinema cerca di realizzare la finzione della realtà ma, per far questo, deve far finta anche che non ci sia nessuno spettatore al di là dello schermo, deve ignorarlo, negarne l'esistenza.
lunedì 8 maggio 2017
La fotografia entra nei manicomi ... e i matti finalmente ne escono fuori
Fotografia tratta dal libro “MORIRE DI CLASSE. LA CONDIZIONE MANICOMIALE FOTOGRAFATA DA CARLA CERATI E GIANNI BERENGO GARDIN”, a cura di F. e F. Basaglia, Einaudi 1969. Gianni Berengo Gardin, Firenze, Istituto Psichiatrico, 1968.
"Morire di classe"
Nate a distanza di pochi decenni l’una dall’altra, tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, psichiatria e fotografia tornano più volte, in occasione di significativi cambiamenti socioculturali, a incontrarsi e a incrociare i propri destini. Era successo nella seconda metà dell'Ottocento, quando la psichiatria positivista aveva trovato nel documento fotografico un mezzo realistico per individuare, osservare, catalogare e così dominare la malattia mentale. La tecnica fotografica, in quanto fedele riproduzione della realtà, era considerata una garanzia di obiettività e di scientificità.
Tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta del secolo scorso le due culture, ambedue impegnate a ridefinire i propri assetti e statuti, si incontrano ancora una volta, in un contesto di mutamento epocale. Da una parte la psichiatria che stava mettendo in discussione la tradizionale impostazione positivista delle sue teorie e dei suoi luoghi di cura (gli istituti psichiatrici), dall'altra un gruppo di fotografi fortemente impegnati nel sociale, che decide di imbracciare la macchina fotografica e di documentare con sguardo diverso la pratica e l'istituzione della cura mentale.
"Morire di classe"
Nate a distanza di pochi decenni l’una dall’altra, tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, psichiatria e fotografia tornano più volte, in occasione di significativi cambiamenti socioculturali, a incontrarsi e a incrociare i propri destini. Era successo nella seconda metà dell'Ottocento, quando la psichiatria positivista aveva trovato nel documento fotografico un mezzo realistico per individuare, osservare, catalogare e così dominare la malattia mentale. La tecnica fotografica, in quanto fedele riproduzione della realtà, era considerata una garanzia di obiettività e di scientificità.
Tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta del secolo scorso le due culture, ambedue impegnate a ridefinire i propri assetti e statuti, si incontrano ancora una volta, in un contesto di mutamento epocale. Da una parte la psichiatria che stava mettendo in discussione la tradizionale impostazione positivista delle sue teorie e dei suoi luoghi di cura (gli istituti psichiatrici), dall'altra un gruppo di fotografi fortemente impegnati nel sociale, che decide di imbracciare la macchina fotografica e di documentare con sguardo diverso la pratica e l'istituzione della cura mentale.
Cinema e follia
Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975), regia di Milos Forman |
La follia è un tema molto presente nel cinema. Cesare Secchi, in uno studio che dura da diversi anni, ha catalogato ben 1115 pellicole in cui sono presenti storie e personaggi con tratti e sintomi psicopatologici. Specularmente, dall'inizio degli anni novanta a oggi si è constatato che in ambito medico-psichiatrico è decisamente aumentato l'interesse tanto per l'impiego dei mezzi audiovisivi quanto per i rapporti tra cinema e malattia mentale. Probabilmente ciò deriva dal fatto che cinema e psichiatria condividono lo stesso soggetto: pensieri, emozioni, motivazioni, comportamenti e storie di vita rappresentano per l'uno e l'altra la principale, complessa, materia di studio. La curiosità degli psichiatri nei confronti dei film nasce quindi dalle caratteristiche strutturali del linguaggio cinematografico. Il cinema, con l'uso delle immagini in movimento, riesce a riprodurre il funzionamento effettivo della mente umana meglio delle forme narrative classiche. Il cinema, "penetrando visivamente nella coscienza", ha i mezzi per analizzare gli interstizi reconditi della follia: primi piani, riprese "in soggettiva", montaggio, sovrapposizioni di immagini, effetto allucinazione, compressione del tempo e dello spazio, etc.. Il primo piano scandaglia e fissa ogni sfumatura, riuscendo a far cogliere allo spettatore il disagio psichico del personaggio senza bisogno di parole, ma facendo leva sul solo linguaggio visivo del corpo, il più immediato ed empaticamente efficace. Il montaggio cinematografico, equilibrando sequenze espressive, tempi reali, narrazioni metaforiche, è in grado di esprimere tutte le impercettibili nuances degli stato d'animo e attingere all'interiorità del personaggio.
domenica 7 maggio 2017
Il binomio arte e follia
Vincent Van Gogh, Autoritratto con cappello di feltro, 1887. |
Negli ultimi due secoli, nell'immaginario comune, il vero artista è colui che si avvicina più o meno pericolosamente alla follia. Genio e follia quasi vengono a coincidere. Una certa devianza è considerata garanzia di creatività.
Se fino alla fine del Settecento veniva affidata all'arte una funzione mimetica, cioè di imitazione della realtà, con l'avvento del Romanticismo scopo dell'arte diventa quello di esprimere l'interiorità dell'artista, anche i suoi recessi più profondi e oscuri. Il quadro non è altro che il ritratto intimo dell'artista perché, solo liberandosi dalla conoscenza sensoriale e calandosi nella propria interiorità, egli ha accesso a una “conoscenza extrasensoriale” che lo conduce al luogo originario in cui si annulla la differenza fra sé e mondo, fra soggetto e oggetto, fra sé e la totalità dell’Essere. Solo lì può acquisire quindi la verità ultima delle cose.
La nave dei folli
Das Narrenschiff di Sebastian Brant
Motivo ereditato dalle festività carnevalesche, in particolare dei paesi germanici, è quello della “nave dei folli”, che diventerà un topos letterario in tutta l'Europa Settentrionale, la più ricorrente allegoria della instabilità, della precarietà e della insensatezza della condizione umana.
Nel 1494 esce a Basilea un lungo poema allegorico in versi rimati, dal titolo Das Narrenschiff (La nave dei folli, appunto), scritto in dialetto alsaziano dall'umanista e poeta satirico Sebastian Brant. Il tessuto narrativo, che combina all'intento didascalico una sferzante satira dei costumi dell’epoca, è corredato da numerose xilografie, alcune delle quali attribuite al giovane pittore ed incisore Albrecht Dürer. E’ il libro tedesco che, ponendosi a cavallo tra Medioevo ed età moderna, ha probabilmente avuto più fortuna nei secoli, godendo di una grande popolarità, tanto da essere tradotto e pubblicato in tutta Europa. L'editore Mentelin, per amplificarne il successo, lo farà tradurre nella lingua internazionale di allora, ossia il latino, con il titolo di Stultifera Navis.
Albrecht Dürer, Das Narrenschiff, 1494.
Motivo ereditato dalle festività carnevalesche, in particolare dei paesi germanici, è quello della “nave dei folli”, che diventerà un topos letterario in tutta l'Europa Settentrionale, la più ricorrente allegoria della instabilità, della precarietà e della insensatezza della condizione umana.
Nel 1494 esce a Basilea un lungo poema allegorico in versi rimati, dal titolo Das Narrenschiff (La nave dei folli, appunto), scritto in dialetto alsaziano dall'umanista e poeta satirico Sebastian Brant. Il tessuto narrativo, che combina all'intento didascalico una sferzante satira dei costumi dell’epoca, è corredato da numerose xilografie, alcune delle quali attribuite al giovane pittore ed incisore Albrecht Dürer. E’ il libro tedesco che, ponendosi a cavallo tra Medioevo ed età moderna, ha probabilmente avuto più fortuna nei secoli, godendo di una grande popolarità, tanto da essere tradotto e pubblicato in tutta Europa. L'editore Mentelin, per amplificarne il successo, lo farà tradurre nella lingua internazionale di allora, ossia il latino, con il titolo di Stultifera Navis.
Albrecht Dürer, Das Narrenschiff, 1494.
Alda Merini. Un'anima indocile
“Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti…”
Questi versi fanno parte della raccolta di poesie “Terra Santa” della poetessa milanese Alda Merini, che visse molti anni in manicomio, subendo 46 elettroshock.
La poetessa, afflitta da un grave disturbo bipolare, già a 16 anni era stata internata per un mese nella clinica Villa Turro di Milano. Nel 1962, date le leggi allora vigenti, il marito Ettore Carniti, con il quale si era sposata all’età di ventidue anni e con il quale aveva avuto due figlie, la fece internare, a sua insaputa, nel manicomio “Paolo Pini” di Milano, dove trascorse dieci lunghi anni. La realtà degli istituti psichiatrici in quegli anni era terribile e desolante e l'impatto di Alda con quel mondo fu devastante: “Quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto fatica ad uscire.” Dappertutto nelle corsie e nelle camere dell'ospedale sovrastava un odore acre di malattia, urina e altri fluidi organici, poiché i pazienti defecavano e urinavano a terra. Altri ancora erano legati a letti di contenzione e non facevano altro che urlare fino a perdere conoscenza. Alda Merini denominerà questa visione infernale col nome di “Girone dei Dannati”.
Follia e musica
Cominciamo con un bel brano di Vasco Rossi, tratto dal primo album ...ma cosa vuoi che sia una canzone del 1978.
Il brano di Guccini, dal titolo "Il frate", uscì per la prima volta nel 1970, all'interno dell'album "L'isola non trovata". Questa versione che sentite fa invece parte della raccolta live "Fra la mia Emilia e il West".
Racconta di un personaggio chiamato "il frate", "vestito di stracci e stranezza", che "viveva di tutto e di niente, di vino che muove i ricordi, di carità della gente, di dei e filosofi sordi".
Guccini trae dai suoi ricordi questa figura marginale, esposta allo scherno e al riso, con alle spalle una vocazione finita e una crisi spirituale, un presente fatto di alcool e di elemosine, di discorsi in tedesco e in latino su Dio e Schopenhauer.
Eppure l'autore si chiede alla fine chi dei due fosse veramente disperato, "chi avesse capito la vita, chi non capisse ancor nulla", riconoscendo il confine labile ed incerto tra normalità e follia e come quest'ultima, spesso, non sia altro che una porta, strampalata o dolorosa, che immette nella verità.
Il brano di Guccini, dal titolo "Il frate", uscì per la prima volta nel 1970, all'interno dell'album "L'isola non trovata". Questa versione che sentite fa invece parte della raccolta live "Fra la mia Emilia e il West".
Racconta di un personaggio chiamato "il frate", "vestito di stracci e stranezza", che "viveva di tutto e di niente, di vino che muove i ricordi, di carità della gente, di dei e filosofi sordi".
Guccini trae dai suoi ricordi questa figura marginale, esposta allo scherno e al riso, con alle spalle una vocazione finita e una crisi spirituale, un presente fatto di alcool e di elemosine, di discorsi in tedesco e in latino su Dio e Schopenhauer.
Eppure l'autore si chiede alla fine chi dei due fosse veramente disperato, "chi avesse capito la vita, chi non capisse ancor nulla", riconoscendo il confine labile ed incerto tra normalità e follia e come quest'ultima, spesso, non sia altro che una porta, strampalata o dolorosa, che immette nella verità.
sabato 6 maggio 2017
Specchi - La Maschera e il Volto. "Luci della ribalta"
Charlie Chaplin prepares for his role as Calvero in Limelight. Photograph: W. Eugene Smith, 1952. |
Lo specchio di un camerino. Ci pensate? A tutto il tempo che attori e attrici passano davanti a uno specchio illuminato prima di esibirsi, a ripassare la parte, a truccarsi, a trepidare sull'esito dello spettacolo, a guardare con ansia e sgomento i segni del tempo sul loro volto. A passare ogni volta attraverso la vertigine del travestimento, tra la Maschera e il Volto.
Limelight (Luci della ribalta) è uno degli ultimi film di Charlie Chaplin, l'ultimo girato negli Stati Uniti, prima dell'esilio forzato in Europa, a causa dei problemi con il maccartismo e dell'ordine di arresto che era stato spiccato nei suoi confronti.
Lo specchio vuoto. Il Settimo Sigillo
Il Settimo Sigillo, regia di Ingmar Bergman, 1956. |
Parliamo di un film che è un capolavoro assoluto del cinema: Det Sjunde Inseglet (Il Settimo Sigillo), di Ingmar Bergman.
Nella Svezia del Trecento, torna a casa dalle Crociate il cavaliere Antonius Block. Ma sbarcato sulle spiagge svedesi, trova ad attenderlo la Morte. Egli, tuttavia, ha ancora delle domande a cui vuole dare delle risposte, delle domande sulla vita e su Dio. In particolare, egli cerca una prova dell’esistenza di Dio, perché, quando tutto intorno regna il male e l'orrore, come si può continuare a credere che Egli esista? Per questo propone alla Morte di giocare una partita a scacchi.
Porte e finestre - Una finestra sui tetti di Parigi. La Bohème
La Bohème è un'opera lirica in quattro quadri di Giacomo Puccini, ispirata al romanzo di Henri Murger "Scènes de la vie de bohème" e rappresentata per la prima volta al Teatro Regio di Torino nel 1896.
Il primo e il quarto Quadro dell'opera sono ambientati in una soffitta, dove vive il poeta Rodolfo, che conduce una vita da bohémien insieme ai suoi amici: un pittore, un musicista, un filosofo. Chi sono i Bohémiens? Li descrive bene Murger, nella prefazione alla Vie de bohème: sono degli "avventurieri", intellettuali o artisti, che vivono alla giornata ai margini della società, sempre a corto di mezzi, facendo la fame per gran parte del tempo e sperperando tutto subito in donne e divertimenti non appena capita un po' di fortuna e un po' di denaro nelle tasche. Sono in genere refrattari alle regole sociali e insofferenti all'ipocrisia borghese, proclamano l'identità di arte e vita e agitano velleità libertarie.
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