lunedì 28 settembre 2020

Hannah Wilke, Jo Spence. Il corpo malato

Hannah Wilke, Intra-Venus, 1992

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

"La malattia è il lato notturno della vita" ha scritto Susan Sontag in Illness as Metaphor. La malattia aggiunge un altro strato di "alterità" allo status di outsider della femminilità. Eppure non sono poche le donne artiste che hanno raccontato la malattia attraverso il loro corpo.

Diverse sono le opere in cui Frida Kahlo, ad esempio, rappresenta il suo corpo devastato. Nei due autoritratti La colonna spezzata (1944) e Il cervo ferito (1946) si rappresenta come vittima sacrificale. La sua pittura può essere anche (non solo) interpretata come pratica riparativa, come un modo non soltanto per alleviare il dolore, ma anche per visualizzarlo, per trasformarlo, da destino individuale, in tema universale.

Il corpo ferito dalla malattia ritorna nelle opere fotografiche di due artiste che operano negli stessi anni: Hannah Wilke e Jo Spence. 

Frida Kahlo, La colonna spezzata, 1944

L’artista americana - pittrice , scultrice , fotografa, videografa e performer - Hannah Wilke è molto attiva nel movimento femminista, distintasi, tra l’altro, per il lavoro con materiali non convenzionali, come la gomma da masticare, il lattice e la lanugine. La sua ricerca mirava alla decostruzione dei modelli culturali che hanno plasmato la femminilità come sinonimo di vanità e narcisismo e al capovolgimento della riduzione della donna a oggetto sessuale dello sguardo voyeurista. E tutto ciò, usando il proprio corpo come materia artistica. Tuttavia, la notevole bellezza della Wilke ha spesso impedito questa lettura della sua produzione, che è stata invece interpretata come esibizione narcisistica, soprattutto in riferimento agli autoritratti di nudo che Wilke eseguiva in uno stile da "pin up". Secondo la critica d’arte Ann-Sargent Wooster, era troppo bella per essere presa sul serio e ciò evidenziava quanto sottile fosse il confine che separa l'uso voyeuristico e sessuale delle donne da parte degli uomini dall'uso del corpo delle donne da parte delle donne stesse per stigmatizzare lo sguardo maschile.

Hannah Wilke, SOS - Starification Object Series, 1974-82

Le circostanze, tuttavia, subiscono un’inversione drammatica quando all’artista viene diagnosticato un linfoma, che la porterà di lì a breve alla morte, nel 1993, a soli 52 anni. Durante la malattia realizza Intra-Venus, una serie di fotografie a colori e a grandezza naturale che mostra il suo corpo trasformato e devastato dal male e dalla chemioterapia.

Wilke sceglie, dunque, di mostrare pubblicamente una malattia che molti preferirebbero mantenere privata, esponendo il deterioramento del suo corpo a degli spettatori, mettendoli di fronte a qualcosa che la società contemporanea percepisce come osceno - nel significato originale della parola: abietto, ripugnante. E lo fa in una maniera che sfida le rappresentazioni stigmatizzanti del cancro che prevalevano in quel periodo.

Hannah Wilke, Intra-Venus, 1992

Inizia Intra-Venus nel 1991, registrando lo sviluppo della sua malattia e il progressivo decadimento del suo corpo. La maggior parte delle fotografie sono di Wilke a letto, d'ospedale o della sua casa. In contrasto con le fotografie precedenti, che mostravano Wilke in pose stile Playboy, ora si presenta al pubblico alle prese con la sua malattia. Molte delle fotografie della serie risultano difficili anche solo da guardare, poiché trasmettono un argomento che la cultura, specialmente quella di allora, relegava alla condizione di tabù impronunciabile e irrappresentabile. 

Sebbene Wilke stia ovviamente attraversando un periodo terribile, si sforza ancora di comunicare le sue esperienze il più onestamente possibile allo spettatore. Ciò che Wilke vive è reale, e il suo lavoro appare come una documentazione del suo difficile percorso. Possiamo vedere i cambiamenti non solo nel suo corpo, ma anche nel suo viso, in cui pian piano si spegne la scintilla che aveva negli occhi. 

Hannah Wilke, Intra-Venus 7, 18 agosto 1992.

Anche l’artista britannica Jo Spence, elabora i suoi ‘traumi silenziosi’ - cancro al seno e leucemia - attraverso la fotografia, portandoli nella sfera pubblica, facendo della sua testimonianza privata un’esperienza collettiva, condividendo con lo spettatore la valenza terapeutica che lei ha investito e trovato nella sua arte.

Jo Spence aveva iniziato la sua carriera nel campo della fotografia commerciale, ma negli anni '70 aveva rifocalizzato il suo lavoro verso la fotografia documentaria, adottando un approccio politicizzato alla sua espressione d'arte, intorno a temi socialisti e femministi. Così erano nate le sue collaborazioni con Hackney Flashers, un collettivo di donne socialiste e femministe. Nella sua ricerca fotografica e nel suo attivismo, aveva proposto il primato del processo sull'oggetto, della collaborazione e della collettività sull’eroismo paternalista e, soprattutto, della generosità (verso sé e gli altri) sul perseguimento di ogni singolare ambizione creativa. 

Jo Spence, The Highest Product of Capitalism, 1979

Jo Spence as a Sex Object-How I’d really like to be remembered (collaboration with Terry Dennett)”, 1979

Quando, nel 1982, arriva la diagnosi di cancro al seno, Spence intraprende la tecnica della "fototerapia", utilizzando la fotografia come strumento terapeutico per documentare la propria battaglia contro la malattia, fino alla sua morte, un decennio dopo. Spence viene sottoposta a mammografia, nodulectomia e, infine, mastectomia. Le fotografie esprimono il suo stato fisico ed emotivo e l’artista traspone anche in questi autoritratti, che mostrano il suo corpo mutilato, l’istanza che caratterizzava la sua produzione precedente, cioè quella di sovvertire l'idea di un’immagine femminile idealizzata. Jo Spence rappresenta con sincerità il suo vivere un corpo che non può conformarsi alle pretese di perfezione femminile proprie della società occidentale.

Middle Class Values Make Me Sick (collaboration with David Roberts)”, 1986-8


L’esperienza della malattia le fa sperimentare una dolorosa condizione di impotenza e di perdita di controllo sul proprio corpo. Non è solo il tumore ad agire in questa direzione. Ricevere una diagnosi e intraprendere la cura significa anche mutare il proprio status da ‘persona’ in ‘paziente’, alla mercé del personale medico, di protocolli sanitari e di una terminologia disumanizzante.

La fotografia diviene allora lo strumento per affrontare i complessi sentimenti di rabbia e paura. Insieme a vari collaboratori, Spence sviluppa una propria forma di autoanalisi tramite la fotografia, producendo un lavoro che le permette di riappropriarsi della propria immagine, di riacquisire una forma di controllo sul proprio corpo ed esprimere le proprie emozioni. Nascono così le serie che compongono le Narratives of dis-ease. L’artista elabora le sue storie e ricordi personali, i traumi come l'andare in ospedale e la sua sensazione di essere infantilizzata. L'opera Infantilization (1984) mostra Spence che indossa una cuffia da bambino con un ciuccio in bocca. Cerca così di rivendicare la padronanza sulla propria vita e di opporsi a un sistema clinico che riduce l’individuo adulto a uno stato infantile. La fotografia la aiuta a oggettivare la malattia, a continuare la lotta per la vita e la dignità e a recuperare il senso di sé. 

Jo Spence, Infantilization (1984)

In un’altra serie di Narratives of Dis-ease la vediamo in piedi nel suo camice da ospedale, con in mano un orsacchiotto di pezza. Il punto di vista è in alto e la sovrasta, facendola sembrare più piccola, più vulnerabile. 

Negli anni che seguirono questo lavoro, a Jo Spence fu diagnosticata la leucemia. Scrive: "Ho a che fare con una malattia che è quasi impossibile rappresentare. Non ho la più pallida idea di come rappresentare la leucemia tranne che per quello che provo al riguardo. " 


Narratives of dis-ease, 1989 © Victoria and Albert Museum, London

Narratives of Dis-ease, 1989, © Victoria and Albert Museum, London

Spence credeva fermamente nella capacità della fotografia di farsi arma di lotta, oltre che di terapia. Servendosi di essa, si è sempre mobilitata contro tutte le forme di egemonia, di dominio e di controllo, in battaglie culturali, politiche e poi anche mediche, rifiutando, ad esempio alcune metafore della medicina occidentale come quelle che trattano il cancro come una malattia da "sconfiggere", come un nemico esterno da annientare e asportare, adoperando una terminologia bellica. Rispetto a ciò, Spence continua a reclamare la proprietà del proprio corpo e a cercare nella fototerapia una guarigione di sé piuttosto che del corpo, per non essere ridotta a una malattia e tornare a sentirsi ancora un essere umano. In ciò, prende le sue battaglie personali e le mette a disposizione degli altri per farne un'esperienza sociale collettiva. 




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