mercoledì 30 settembre 2020

Autoritratti in relazione. Anna di Prospero

Anna Di Prospero, Self-portrait with Eleonora, 2011

 

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 


Anna di Prospero indaga soprattutto il rapporto tra sé e lo spazio, sia quello urbano che domestico, ma anche quello tra sé e gli altri. Self-portrait at home (2007/2009) è il suo primo progetto fotografico, dove esplora la sua relazione con lo spazio della casa in cui abita, creando delle corrispondenze tra le geometrie del suo corpo e quelle degli ambienti.

Lavora sull’autorappresentazione in diverse serie, ad esempio in Self-portrait at hometown (2009) e in Urban Self – portrait (2010-2012) dove l’artista usa il proprio corpo come strumento di indagine, ma soprattutto di esperienza attiva dello spazio, ricercando le proporzioni tra le sue forme e quelle degli edifici e costruendo in tal modo un dialogo performativo con l’ambiente urbano.

In Self-portrait with my family, Self portrait with my friends e Self-portrait with strangers, sono invece le relazioni personali ad essere esplorate tramite l’auto-collocamento nella scena insieme a parenti, amici e sconosciuti. In tutti questi casi, il soggetto delle fotografie non è l’autrice, ma la sua relazione con lo spazio, le architetture, le persone.

martedì 29 settembre 2020

Le fotografie di Moira Ricci e la memoria falsificata

Moira Ricci, dalla serie 20.12.53-10.08.04, 2004-2009


Chi ha fatto l’esperienza di perdere una persona molto cara, avrà quasi sicuramente desiderato poterla avere ancora accanto a sé, in alcuni momenti della sua vita. Moira Ricci, invece, percorre un’altra strada. Desidera sì essere vicina a sua madre, prematuramente scomparsa, ma andando indietro nel tempo, trovando un posto accanto a lei in quello che era il suo presente, nei momenti da lei vissuti nel corso della sua vita e che la fotografia ha fermato in immagini.

Ed è così, partendo dall’elaborazione del lutto e della perdita, che dà vita a 20.12.1953 - 10.08.2004 (le date di nascita e di morte della madre), un'opera che segnerà definitivamente il percorso artistico di Moira Ricci.

La serie nasce dopo un lungo processo di recupero, dagli album di famiglia, di tutte le fotografie della madre, dall'infanzia all'età adulta, ed è costruita grazie ad un minuzioso lavoro di fotomontaggio e manipolazione digitale mediante il quale l'artista, superando la distanza spazio-temporale, inserisce se stessa all'interno di queste fotografie, diventando così una protagonista in più della scena. Si veste e si pettina secondo la moda del tempo e assume una posa in perfetta armonia con il resto della composizione, riuscendo a mimetizzarsi perfettamente nello spazio, affinché l’immagine risulti ai nostri occhi come la fotografia di un normale album di famiglia. Nella verosimiglianza dell'immagine istantanea l’artista ricrea un ponte per il suo desiderio e una relazione perduta.

lunedì 28 settembre 2020

Hannah Wilke, Jo Spence. Il corpo malato

Hannah Wilke, Intra-Venus, 1992

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

"La malattia è il lato notturno della vita" ha scritto Susan Sontag in Illness as Metaphor. La malattia aggiunge un altro strato di "alterità" allo status di outsider della femminilità. Eppure non sono poche le donne artiste che hanno raccontato la malattia attraverso il loro corpo.

Diverse sono le opere in cui Frida Kahlo, ad esempio, rappresenta il suo corpo devastato. Nei due autoritratti La colonna spezzata (1944) e Il cervo ferito (1946) si rappresenta come vittima sacrificale. La sua pittura può essere anche (non solo) interpretata come pratica riparativa, come un modo non soltanto per alleviare il dolore, ma anche per visualizzarlo, per trasformarlo, da destino individuale, in tema universale.

Il corpo ferito dalla malattia ritorna nelle opere fotografiche di due artiste che operano negli stessi anni: Hannah Wilke e Jo Spence. 

domenica 27 settembre 2020

Nan Goldin. Autorappresentazione come diario visivo

Nan one month after being battered 1984

 

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

Icona degli anni '80, Nan Goldin ha rivoluzionato la fotografia, trasformando la sua esistenza in arte. Per più di quarant'anni ha fotografato il suo mondo, i suoi amici, i molti momenti di vita quotidiana condivisi e anche quelli privati e intimi: feste, sesso, droga, violenza, gioia, amore, malattia, morte. Il suo lavoro, che ha presentato come un "diario visivo", è diventato la storia di un'intera generazione. I soggetti della Goldin sono il mondo bohemien metropolitano, le drag queen e i transgender, la cultura punk, gli amori etero e omosessuali, la violenza e la droga, l'AIDS, le feste e la solitudine, ma non è l’indagine di fenomeni sociali l’obiettivo della sua fotografia.
Nelle sue opere, e in particolare in The Ballad of Sexual Dependency (1986), ha anche inserito molti autoritratti, che hanno contribuito in maniera determinante a costruire un nuovo modo di rappresentare il sé. Questo dipende dal fatto che tali fotografie di auto-rappresentazione non sono delle messe in scena, delle dichiarazioni identitarie o le tappe di una ricerca intima, ma si presentano come momenti di vita colti nella loro cruda verità. Ciò determina, nello spettatore, un turbamento dato dall’identificazione con il soggetto delle fotografie; è come se questi fosse costretto, attraverso le immagini, a riconoscere le ferite che possiede dentro di sé. 

sabato 26 settembre 2020

Hannah Villiger e il corpo frammentato

Ich fotografiere mich selbst.
Ich bin mein nächster Partner und der mir naheliegendste Gegenstand.
Ich horche in meiner Polaroidkamera an meinem nackten, kahlen Körper entlang, um ihn herum, in ihn hinein, durch ihn hindurch. 

(Io fotografo me stessa. Sono il mio partner più stretto e il mio soggetto più ovvio. Con la mia macchina fotografica Polaroid ascolto il mio corpo nudo e glabro, intorno, dentro, attraverso di esso.)

Hannah Villiger 

L’artista svizzera Hannah Villiger, nonostante si definisse una scultrice (chiamava le sue mostre “sculture”), è riconosciuta a livello internazionale per il suo lavoro fotografico. Dall’inizio degli anni Ottanta fino al termine della sua breve vita (muore nel 1997), abbandona la tridimensionalità della materia plasmabile preferendo la superficie bidimensionale della pellicola impressa. Utilizza la Polaroid per esplorare il proprio corpo, in un dialogo solitario, appassionato e tormentato, con se stessa, anche perché stava già affrontando l'isolamento causato dalla tubercolosi, che aveva contratto a 29 anni.

Un ombrello sulla testa. Happy Days di Samuel Beckett



Nel dramma a due atti Happy Days (1961) di Samuel Beckett, la protagonista Winnie è una donna sepolta in un tumulo di terra fin sopra la vita. Con sé ha solo una borsa, piena di oggetti vari tra cui uno specchio e una pistola, unici legami fisici con il mondo reale che ormai esiste solo nella memoria. 

L'altro oggetto, che svolge un importante ruolo scenico e simbolico, è un ombrello, che finirà incenerito dalla luce del sole.

In questo collage, realizzato con le fotografie di varie rappresentazioni teatrali di Happy Days, la protagonista lo tiene sollevato sulla sua testa, quasi una patetica difesa contro l'assenza di ogni speranza e significato della vita.

Sophie Calle e la narrazione di sé

Copertina del catalogo della mostra M’as-tu vue (Parigi, 2003-2004)


Alcuni artisti si servono dell’autoritratto per realizzare delle “narrazioni”, componendo vere e proprie storie in cui giocano il ruolo di protagonisti.

Sophie Calle è un'artista francese, epigono della Narrative Art, che utilizza gli strumenti dell'arte narrativa: principalmente fotografia e testo, ma anche video, performance, installazioni.

Nel 1981 il Centre Pompidou le commissiona un’opera per una mostra dedicata all’autoritratto. Nasce così La Filature (in francese l'espressione 'prendre en filature' significa 'pedinare'), che porta avanti quella spiccata attitudine voyeuristica che caratterizzava già alcuni progetti precedenti, come Les dormeurs (1979), le Filatures parisiennes, Suite vénitienne (il racconto per testo e immagini del pedinamento di uno sconosciuto da Parigi a Venezia, 1980), L'Hôtel (1981).

giovedì 24 settembre 2020

Carrie Mae Weems, Lorna Simpson, Renée Cox. La decostruzione dello stereotipo razziale

Renée Cox, Liberation of Aunt Jemima and Uncle B, 1998

 

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

L’autorappresentazione fotografica femminile ha spesso intrecciato le questioni dell’identità di genere con quelle dell’identità culturale e razziale. La fotografia ha, fin dalle sue origini, giocato un ruolo cruciale, ad esempio, nel processo di autoconsapevolezza e autorappresentazione degli afroamericani, divenendo anche un campo di rivendicazione e di lotta per strappare ai bianchi il monopolio di quella rappresentazione, infarcita di stereotipi razzisti.

Già nel 1926, nel suo saggio Criteria of Negro Art, il sociologo e pioniere della teoria della critical race Web Du Bois aveva lanciato un appello agli artisti afroamericani per la creazione di produzioni che ne testimoniassero l’identità, mettendo radicalmente in discussione la visione caricaturale e stereotipata del ‘nero’ che i bianchi avevano prodotto per secoli. 

Raccogliere questa eredità finalizzata alla rappresentazione della propria identità etno-razziale è diventata una priorità per i fotografi afroamericani. Negli anni '70 questo approccio ha subito notevoli cambiamenti, fondendosi con l’istanza concettualista e la performance.

martedì 22 settembre 2020

Suzy Lake e l'invenzione del Sé

Suzy Lake, Miss Chatelaine, 1973-1978

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

L’artista americana-canadese Suzy Lake indaga il difficile rapporto tra immagine e identità, concentrandosi su alcuni aspetti del femminile in quanto costrutti sociali, mettendo in discussione le aspettative comuni in riferimento all’immagine della donna.

Nella serie Suzy Lake as Gary William Smith (1973-1974), ad esempio, vediamo l'artista trasformarsi gradualmente in un uomo, mentre in Are You Talking to Me? (1979), che cita la famosa scena di De Niro allo specchio nel film Taxi Driver di Martin Scorsese, ci offre numerose espressioni emotive che vanno dalla disperazione e dallo sconforto al panico e alla rabbia.

Le immagini di On Stage sono girate in uno stile diretto, in bianco e nero, simulando lo stile dell’istantanea. In ogni immagine, l’artista impersona un ruolo diverso: la studentessa alla moda, la casalinga alle prese con il trucco, la donna di classe e raffinata, quella sexy ed elegante.

lunedì 21 settembre 2020

Nicole Gravier e i cliché del fotoromanzo

 

Nicole Gravier, Mythes et Clichés. Fotoromanzi (1978)

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

L’opera di Nicole Gravier, artista francese attiva stabilmente a Milano dal 1971, si concentra in particolar modo sulla decostruzione degli stereotipi di genere insiti nel linguaggio e nella comunicazione mediatica, demistificando la rappresentazione del femminile all’interno dei fotoromanzi. Nella serie Mythes et Clichés. Fotoromanzi (1978) l’artista mette a nudo gli stereotipi di questo genere popolare di racconto per immagini, nato in Italia nell’immediato dopoguerra e molto diffuso negli anni Settanta. Nel 1978, in occasione della mostra al Laboratorio in via Maroncelli a Milano, l’artista espone fotografie a colori in cui impersona e mima le protagoniste di questo medium, accanto alle immagini in bianco e nero dei fotoromanzi originali. Il confronto richiama così l’attenzione dello spettatore sui meccanismi di formazione del significato all’interno delle immagini del femminile diffuse nella cultura visiva occidentale, dove il corpo della donna è abitualmente sottoposto a un processo di reificazione. 

Già nel decennio precedente, artiste come Ketty La Rocca e Lucia Marcucci avevano lavorato con le immagini pubblicitarie, sottolineando le disparità di genere da esse veicolate e spacciate come ‘naturali’. 

sabato 19 settembre 2020

Marcella Campagnano e l’invenzione del Femminile

Marcella Campagnano, L’invenzione del Femminile: Ruoli, 1974

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 


La produzione di Marcella Campagnano (artista inserita nell’ambiente del movimento femminista milanese), iniziata negli anni Sessanta, si pone l’obiettivo di decostruire il canone culturale della femminilità elaborato nei secoli dalla società patriarcale. La fotografia diviene allora da un lato uno strumento finalizzato alla consapevolezza di come il corpo sia una costruzione culturale, un luogo segnato da rapporti di potere, mostrando l’illusorietà di qualsiasi visione neutra (e asessuata) della realtà, e dall'altro lato un modo nuovo di concepire e di costruire l’identità e il corpo della donna. 

La accomuna ad altre artiste, come ad esempio Martha Wilson e Cindy Sherman, il ricorso al travestimento e al gioco di ruoli. Nel 1974 prende il via il suo ciclo fotografico L’invenzione del Femminile: Ruoli, che fin da subito rivela la sua forte connotazione politico-sociale. Si tratta di fotografie in cui la stessa artista ritrae se stessa (e alcune amiche del collettivo femminista di cui la Campagnano faceva parte) nelle vesti che richiamano i diversi ruoli e funzioni sociali che la tradizione patriarcale assegna alle donne: la sposa, la madre, la casalinga, l’operaia, la prostituta, l’amante, la militante di sinistra, indagando così la costruzione dell’identità femminile. Prendere coscienza di quei cliché rappresentava il primo passo di messa in discussione degli stessi.

mercoledì 16 settembre 2020

Cindy Sherman e gli stereotipi del femminile


Untitled Film Still #3


CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 


Le fotografie di Cindy Sherman sono delle meticolose messe in scena tramite le quali l'artista esplora l'identità, in particolare l'identità femminile, partendo dalla convinzione che il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri è mediato dalle immagini.
Una delle sue prime serie, Untitled Film Stills, è costituita da 69 fotografie, prodotte tra il 1977 e il 1980. Già il titolo (il cui significato letterale è “Fermo-immagine senza titolo") ci induce a considerare queste immagini non come delle semplici fotografie, ma come dei fermo-immagine cinematografici, momenti di una narrazione. Sono, inoltre, delle fotografie in bianco e nero, perché in esse la Sherman mette in scena gli stereotipi visivi, ma anche psicologici, che il cinema hollywoodiano degli anni Cinquanta e Sessanta aveva costruito intorno all’immagine della donna (la starlette, la femme fatale, la casalinga solitaria, la donna in carriera, la ragazza romantica). Le molteplici identità femminili rivelate da queste fotografie mirano a evidenziare le convenzioni sociali e culturali che hanno sottratto alle donne la propria individualità, costringendole a conformarsi a degli standard. Modellati dai media, instillati dalla cultura, questi stereotipi condensano una serie di attributi del "femminile" - la fragilità, la seduzione, il mistero (per citarne alcuni) - che le donne devono rispettare per poter "esistere".

lunedì 14 settembre 2020

Ritorno alle origini. L'arte di Ana Mendieta


CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 


Ana Mendieta è stata un'artista americana di origine cubana, la cui produzione si è espressa attraverso molteplici linguaggi: performance, scultura, land art, fotografia e video. Nata nel 1948 a L'Avana in una famiglia di ceto alto, all’età di 12 anni viene mandata con la sorella negli Stati Uniti, come parte di un programma americano che, all'indomani della rivoluzione castrista, ha l’obiettivo di far espatriare i minori cubani. Dopo una prima permanenza in un campo profughi, le due ragazze cambieranno spesso residenza, passando per orfanotrofi e case famiglia, un’esperienza di sradicamento che determinerà nell’artista un profondo senso di non-appartenenza e di identità divisa.

Studia presso l’Iowa State University dove decide nel 1972 di dedicarsi alle performance. I temi del femminismo sono particolarmente forti in quel periodo e Ana Mendieta comincia a svilupparli in un modo proprio. Nello stesso anno realizza Glass on body, in cui indaga le potenzialità del proprio corpo attraverso le deformazioni ottenute schiacciandolo contro lastre di vetro. Quest’opera si colloca nella ricerca, da parte dell’artista, di riappropriarsi della propria immagine, ribadendo una totale libertà nei confronti del proprio aspetto contro le pretese che la società, e in particolare lo sguardo maschile, impone alle donne. Anche a costo di ottenere effetti disturbanti.

domenica 13 settembre 2020

Valie Export e la ribellione del corpo

Valie Export, Smart Export, Selbsportrait, 1970


CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 


Già a partire dalla fine degli anni Sessanta, in Europa operano diverse artiste che mirano a scuotere le costruzioni culturali della femminilità attraverso il ricorso al proprio corpo. La fotografia consente alle artiste di muoversi su un doppio binario, che comprende istanze decostruttive e insieme costruttive: da un lato ricorrono all'autorappresentazione per individuare e demistificare le ideologie e gli stereotipi della femminilità trasmessi dalla società patriarcale e molto spesso introiettati e fatti propri dalla donna stessa; dall'altro mettono in primo piano il corpo per sondarne potenzialità, limiti e desideri e costruire un'identità non più alienata e libera dai canoni imposti dalla cultura maschile. Adottando uno sguardo che si pone simultaneamente al di qua e al di là dell’obiettivo, la donna cessa di essere l’oggetto dello sguardo e del desiderio altrui e si riappropria del corpo, della sua rappresentazione simbolica, della sua identità.
Come rileva Raffaella Perna (Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta, Postmedia Books, Milano 2013), in questi lavori ciò che emerge "è la centralità assunta dalla realizzazione di azioni o messe in scena create esclusivamente per l’obiettivo fotografico. Eventi in cui la fotografia non è pensata soltanto come uno strumento di supporto alla memoria, né come una registrazione a posteriori, ma è parte integrante del progetto e dell’esistenza stessa dell’opera. La fotografia è già incorporata nell’azione, in quanto il processo di “messa in immagine” è congenito all’azione stessa e ne influenza la concezione e lo svolgimento (oltre che, ovviamente, la diffusione e la commercializzazione)." 
Si tratta di un modo di concepire la fotografia militante e politico, lontano dalla logica dell’immagine rubata o dal paradigma dell’“istante decisivo”, per dare vita piuttosto a contesti narrativi, interlocuzioni, provocazioni nei confronti dello spettatore.

sabato 12 settembre 2020

Birgit Jürgenssen e la decostruzione del corpo domesticato

 

Birgit Jürgenssen, Hausfrauen – Küchenschürze - Grembiule da cucina da casalinghe, 1975


CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 


Birgit Jürgenssen e la critica del corpo domesticato

Birgit Jürgenssen è stata un’artista di origini viennesi molto attiva a partire dagli anni Settanta ed è considerata una delle figure più importanti dell’avanguardia femminista internazionale. La sua produzione comprende molteplici e variegati codici espressivi: disegni, acquerelli, collage, fotografie, dipinti e sculture.

Ottiene il suo primo successo nel 1975, quando Valie Export la invita a partecipare alla mostra MAGNA-Feminismus: Kunst und Kreativität, a Vienna, dove presenta il dittico di fotografie Hausfrauen- Küchenschürze (Casalinga – Grembiule da cucina), in cui l’artista indossa letteralmente una cucina sotto forma di grembiule. La Jürgenssen attua così la sua rivolta contro "la semiotica della cucina" - per usare il titolo di una performance video diventata un classico di Martha Rosler (1975) – contestando, con umorismo sovversivo, i pregiudizi, le funzioni sociali e i modelli di comportamento a cui le donne sono soggette. Il suo dittico diventa un’icona radicale del femminismo, che demolisce – in quanto estremizza - la figura della casalinga identificata totalmente con le proprie funzioni domestiche, e che inoltre – come scrive Silvia Bottani in questo articolo (https://www.doppiozero.com/materiali/birgit-jurgenssen-io-sono) -  “mantiene un sottotesto perturbante, nell’immagine del forno che evoca l’idea della donna-contenitore, il suo essere ridotta a funzione sessuale e riproduttiva.” Qui vediamo la donna non solo imprigionata dall’oggetto domestico di uso quotidiano, ma il suo corpo risulta come fuso con esso. La figura finale è una sorta di ibrido grottesco, il risultato di un processo di metamorfosi tramite il quale la donna è diventata tutt’uno con il suo ruolo di casalinga.