martedì 29 settembre 2020

Le fotografie di Moira Ricci e la memoria falsificata

Moira Ricci, dalla serie 20.12.53-10.08.04, 2004-2009


Chi ha fatto l’esperienza di perdere una persona molto cara, avrà quasi sicuramente desiderato poterla avere ancora accanto a sé, in alcuni momenti della sua vita. Moira Ricci, invece, percorre un’altra strada. Desidera sì essere vicina a sua madre, prematuramente scomparsa, ma andando indietro nel tempo, trovando un posto accanto a lei in quello che era il suo presente, nei momenti da lei vissuti nel corso della sua vita e che la fotografia ha fermato in immagini.

Ed è così, partendo dall’elaborazione del lutto e della perdita, che dà vita a 20.12.1953 - 10.08.2004 (le date di nascita e di morte della madre), un'opera che segnerà definitivamente il percorso artistico di Moira Ricci.

La serie nasce dopo un lungo processo di recupero, dagli album di famiglia, di tutte le fotografie della madre, dall'infanzia all'età adulta, ed è costruita grazie ad un minuzioso lavoro di fotomontaggio e manipolazione digitale mediante il quale l'artista, superando la distanza spazio-temporale, inserisce se stessa all'interno di queste fotografie, diventando così una protagonista in più della scena. Si veste e si pettina secondo la moda del tempo e assume una posa in perfetta armonia con il resto della composizione, riuscendo a mimetizzarsi perfettamente nello spazio, affinché l’immagine risulti ai nostri occhi come la fotografia di un normale album di famiglia. Nella verosimiglianza dell'immagine istantanea l’artista ricrea un ponte per il suo desiderio e una relazione perduta.

Moira Ricci, Fidanzati - “20.12.53 - 10.08.04”, 2004-2009

La fotografia, dunque, si presta a fungere da ‘luogo’ in cui affrontare il dolore della perdita, attraverso un gioco struggente che trasforma la realtà in finzione, alterando la natura di impronta dell’immagine fotografica, necessariamente ancorata a un momento temporale, per trasformarla in uno spazio ricreato e per fondere passato e presente. 

Non si tratta dell’attaccamento al simulacro, a quanto dell’essenza della madre si è impresso sulla pellicola sotto forma di radiazioni di luce da lei emanate. Qui avviene un’altra cosa: è l’artista che smaterializza se stessa per trovare spazio nelle foto di famiglia, per riplasmare e includersi in una memoria da cui era esclusa. Anche Barthes scrive La Camera Chiara dopo la morte della madre, cercando di recuperarne il ricordo tra le fotografie di famiglia, evidenziandone il valore emotivo determinato dalla natura indicale dell’immagine fotografica, dal suo noema che colloca il soggetto dell’immagine realmente là, di fronte all’obiettivo, dando vita a un legame indissolubile tra la fotografia e la persona in essa ritratta. Ma nel suo caso l’esperienza si arresta a un’esperienza di visione soggettiva e privata, che non si spinge a pubblicare quelle fotografie e a condividerle con i lettori. A Moira Ricci, invece, la relazione con l’immagine non è sufficiente; ha bisogno di penetrarvi all’interno. Perciò ne altera il noema; si colloca in modo verosimile in quelle fotografie datate manipolandone la superficie e falsandone la natura di documento, per poter dare un carattere di realtà alla sua disperata ricerca di un ultimo contatto con la persona amata; per tradurre quel desiderio in immagine e farne, dunque, un oggetto di visione.

Mamma, Maura e Claudia - “20.12.53 - 10.08.04”, 2004-2009

L’elemento che più colpisce di queste fotografie è lo sguardo muto e incessante che, all’interno della scena, l'artista rivolge a sua madre. Uno sguardo che non è un dialogo, perché è unidirezionale e non corrisposto; è più che altro un’osservazione minuziosa e un interrogativo instancabile. E’ la ricerca struggente di un contatto o forse il tentativo disperato di mettere in guardia la madre rispetto al triste destino che le riserva il futuro; o forse ancora l’indagine discreta di un mistero che rimane insondabile. In fondo, in più o meno tutti  noi ha destato incredulità e stupore il pensiero che anche le nostre madri sono state bambine e adolescenti, e hanno vissuto paure e speranze, gioie e dolori simili ai nostri; e abbiamo avuto difficoltà ad integrare quelle fasi della loro vita con quelle, più tarde, che abbiamo conosciuto e condiviso insieme. 

Se la sua figura è integrata bene nella scena, quello sguardo insistente e ricorrente in tutta la serie la pone contemporaneamente all’esterno, trattenendola al margine dell’evento, e in ciò l'artista assume quasi l’antico ruolo degli admonitor, cioè di quei personaggi collocati nei quadri del Rinascimento che, attraverso il loro sguardo rivolto verso il cuore della rappresentazione, guidavano e indirizzavano la visione dello spettatore e perciò erano delle figure sia interne che esterne alla scena.


Moira Ricci, Sulla motoretta con un'amica - “20.12.53 - 10.08.04”, 2004-2009

È attraverso quella esortazione insistente, quello sguardo fisso e silenzioso - che non potrà mai più essere ricambiato - che Moira Ricci riesce ad attivare, nell’immagine, il sospirato incontro tra due temporalità, tra due momenti di vita. Non è la corrispondenza tra fotografia e realtà ciò che conta, ma piuttosto la creazione di uno spazio in cui quell’incontro di sguardi sia quanto meno ancora possibile e la distanza colmabile.

In una di queste fotografie, l’artista si inserisce in un Autoritratto di sua madre, cioè in un’immagine in cui la donna esplorava la propria identità come in uno specchio. Moira Ricci invade quell’intimità, quello spazio di auto-rappresentazione dove non c'è posto per l'altro e, manipolando la fotografia, trasforma l’autoritratto di sua madre in un suo autoritratto, raddoppiando l’istanza specchiante all’interno della stessa immagine. L'artista non solo sfida il tempo e il destino, ma si colloca alle spalle di sua madre, come un angelo protettore o un vampiro.

Moira Ricci, Autoritratto - “20.12.53 - 10.08.04”, 2004-2009


In questo processo di riappropriazione delle fotografie conservate nell'album di famiglia e di ricordi che non sono propri, Ricci ricostruisce non solo la storia della vita di sua madre ma anche la sua, assorbendola da lei, ricreando la simbiosi intrauterina. Si stacca dalla materialità del proprio corpo, che lo tiene legato al presente, e crea un alter ego immateriale, che si colloca in vari momenti del passato, usando la fotografia come una macchina del tempo. Attraverso l'illusione del mezzo fotografico, Moira Ricci modella e modifica la memoria, creando nuove testimonianze di quanto accaduto e rinnovando così il racconto della propria storia familiare.

Ma l’artista, che si è inserita nella superficie piatta di quelle fotografie, è sì riuscita a scavalcare le barriere fisiche e temporali della propria esistenza per abitare tempi e luoghi che non esistono più, ma al prezzo di visualizzare, in quelle immagini, la propria stessa scomparsa, la propria incorporeità. Andando oltre lo spazio e il tempo, è approdata nel mondo delle ombre sfuggenti. Perché la fotografia è una protezione rispetto alla dimenticanza e al passare del tempo, ma è anche un’inevitabile evocazione di evanescenze, un luogo di apparizioni effimere, dove si affacciano il vuoto e l’assenza. In un mondo abitato da fantasie e verità, Moira Ricci ricostruisce gradualmente la propria storia e in essa cerca la propria identità. Ma tutto ciò comporta il rischio di un confronto ineluttabile con l'ignoto e con l’esperienza più perturbante di tutte: tornare a vedere chi è morto. È così che le immagini più innocue e rassicuranti, come sono quelle dell’album di famiglia, acquistano un’inquietante estraneità, esponendo l’individuo alle sue paure più profonde e lasciandolo sospeso tra realtà e finzione, presenza ed assenza, tra il familiare e l'ignoto.


Zio Auro, Cla e mamma - “20.12.53 - 10.08.04”, 2004-2009



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