venerdì 2 ottobre 2020

Autoritratto di donna velata. Shirin Neshat

Shirin Neshat, “Rebellious Silence”, from the series The Women of Allah (1994). © Shirin Neshat.

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

Shirin Neshat è una videoartista, regista e fotografa di origine iraniana, le cui opere esplorano il ruolo delle donne nelle società islamiche contemporanee, soprattutto in Iran. Ancora giovanissima, lascia l’Iran e nel 1974 si trasferisce in California per studiare arte. Nel 1989, un viaggio in Iran, dove non era più tornata dalla sua partenza, le provoca un grande shock. All'improvviso scopre l'immenso divario tra i suoi ricordi e la realtà iraniana contemporanea, in cui la rivoluzione islamica di Khomeyni aveva cambiato radicalmente la condizione femminile. Dopo un secolo di leggi e cultura improntate a un certo laicismo (nel 1935, Rezã Chãh Pahlavi, desiderando svolgere una grande azione di modernizzazione e occidentalizzazione del Paese, aveva proibito alle iraniane di indossare il chador), l’avvento della rivoluzione teocratica aveva costretto nuovamente le donne a indossare il velo in pubblico.

Shirin Neshat, “Unveiling” from the series The Women of Allah, 1993 © Shirin Neshat.


Neshat è impressionata da ciò che ha visto e lo vuole esprimere. Ma, alla base della sua arte, c’è anche un’istanza autobiografica. In un’intervista dichiara:

“La mia ossessione per il mio paese, l'Iran, dipende da un fatto personale: ho un rapporto irrisolto con la mia patria. Ho vissuto lontano dalla famiglia e dal mio paese senza scegliere. E da quando avevo diciassette anni mi sono sentita abbandonata in Occidente senza alcun contatto con la mia famiglia. Perciò provo un certo qual risentimento, una rabbia nei confronti dei sistemi politici e dei governi che hanno determinato il corso della mia vita. La mia arte è divenuta in certo qual modo uno strumento, un modo per affrontare il mio personale dilemma”.

Dal ritorno negli Stati Uniti, dopo questo primo dei viaggi che farà in Iran, l'immagine della donna velata è al centro del lavoro di Neshat. Realizza così una serie di autoritratti e ritratti di donne iraniane con il velo, le cui stampe sono ricoperte da trascrizioni manoscritte di antiche poesie in lingua Farsi. L'uso del velo o hijab varia ampiamente nel mondo islamico, spesso determinato da una combinazione di fattori politici e religiosi. Nel lavoro di Neshat, le donne indossano il chador, un quadrato di stoffa - spesso nero - che è consuetudine in Iran e tra le donne sciite in Libano e che viene tenuto stretto sotto il mento. 


Shirin Neshat, Faceless, from Women of Allah Series, 1994 © Shirin Neshat.


Durante la rivoluzione islamica, il chador era diventato non solo un simbolo religioso, ma anche politico, in quanto l’abbigliamento occidentale veniva visto come una delle trappole dell'imperialismo dell’Occidente, portatore di una mercificazione del corpo femminile. L'appello fondamentalista per il ritorno del velo si riposiziona così come strategia di emancipazione femminista e, in questi termini, persuade centinaia di migliaia di donne, soprattutto giovani, che indossarlo è un atto politico rivoluzionario: il velo protegge la donna dal rischio di divenire oggetto.

Nel 1993, Neshat inizia una serie di fotografie chiamate Unveiling (1993-1994). Per questi autoritratti, l'artista - a volte da sola e a volte con altre donne - indossa il chador ed esibisce solo le parti anatomiche (occhi, mani, piedi) che le donne sono autorizzate a mostrare al pubblico secondo la legge islamica.

Neshat scrive sulle superfici delle foto, coprendo le parti esposte del corpo delle donne con scritte in lingua Farsi che non hanno una funzione solamente decorativa, ma sono estratti di poesie o racconti di scrittrici iraniane contemporanee che avevano rivoluzionato la poesia iraniana, come Forugh Farrokzhad, che raccontano di femminilità, identità, sensualità e che mettono in discussione gli stereotipi associati alle donne musulmane; altri testi provengono da scrittori filo-islamisti come Tahreh Saffarzadeh. L’intento della Neshat è quello di evitare la rappresentazione monolitica e semplificata del fenomeno del velo per sondarne, invece, la complessità.


Shirin Neshat, Seeking Martyrdom, n°1, 1995

Nella sua serie, Women of Allah (1993-1997), Neshat ha fotografato se stessa (e altre donne) con in mano una pistola o un fucile. Alcuni, soprattutto in Occidente, le interpretano come ritratti di propaganda rivoluzionaria e fondamentalista, altri come espressione della solidarietà dell’artista alle donne iraniane che hanno aderito al crescente movimento di resistenza armata contro l'attuale regime. Il governo iraniano condanna perciò il suo lavoro come anti-rivoluzionario, bollandola come un nemico dello Stato. Nonostante le critiche le provengano da una parte e dall’altra, l’artista rifiuta di prendere posizione a favore di uno schieramento ideologico, preferendo parlare di entrambi i mondi, denunciandone e svelandone i limiti vicendevoli.

Lo sguardo che la fotografa rivolge al mondo arabo è contemporaneamente curioso, nostalgico e critico. L’artista utilizza la sua sensibilità per studiare a distanza un mondo a cui si sente naturalmente legata e che le è nel contempo ignoto; per farlo si mette in gioco in prima persona. Il suo intento è capire come un pezzo di stoffa (che costituisce una limitazione) condizioni sia il rapporto della donna con il mondo esterno, sia l’espressione di sé. Sceglie di utilizzare il proprio corpo e quello di altre donne per rappresentare la cultura islamica in quanto, nell'Islam, il corpo della donna è stato storicamente utilizzato come campo di battaglia retorico, politico e ideologico. Le immagini a cui dà vita vogliono essere soprattutto contraddittorie: da un lato, presentano caratteristiche femminili tradizionali come l'ingenuità e la bellezza; dall'altra troviamo la combattività e la violenza. Se per noi occidentali le donne velate sono simbolo di oppressione, tuttavia i ritratti e gli autoritratti di Neshat mostrano delle donne per nulla sottomesse, ma anzi con sguardi determinati e forti, fissi verso lo spettatore. In queste rappresentazioni il velo, più che indumento di coercizione, appare una sorta di divisa, coordinata semanticamente alla presenza della pistola, simbolo del potere maschile, ma che queste donne impugnano con estrema naturalezza.


Shirin Neshat, Untitled, dalla serie “Women of Allah”, 1995

Neshat spiega così la sua scelta: 

“L'interesse per il velo nasce per me proprio dalla sua natura ambigua nella società Islamica: il velo protegge le donne dall'essere considerate un oggetto, dotandole di rispetto, e contemporaneamente nasce dalla consapevolezza degli uomini dell'incapacità di controllare la propria sessualità, costringendo le donne a coprirsi. Il velo è anche un atto politico: le donne che vestono il velo mostrano la loro solidarietà alla lotta contro l'occidentalizzazione della loro società, e così il velo diviene anche un simbolo della battaglia contro l'imperialismo. Quello che cerco di fare è di uscire dalle ovvietà di discorsi su culture di cui si conosce, in fondo, ben poco. Come vedi le interpretazioni del velo sono molteplici, è un segno dei tempi iniziare a parlarne, è un argomento che continuerà a generare controversie.”

Neshat definisce Women of Allah non come una denuncia esplicita ma come un discorso visivo sulla condizione della donna in Iran, di cui l'artista si sente un’appassionata investigatrice. “Non voglio fare propaganda o attivismo femminista, solo fare domande, chiedermi come funziona una cultura”, afferma l’artista. Per questo resiste attivamente alle rappresentazioni stereotipate dell'Islam per esplorare le complesse forze intellettuali e religiose che plasmano l'identità delle donne musulmane in tutto il mondo.

Shirin Neshat, Untitled, dalla serie “Women of Allah”, 1995


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