Si sa che il cinema è figlio diretto della fotografia. La pellicola di un film, infatti, è costituita da una successione di fotogrammi, riprodotti ad una velocità sufficientemente alta (24 fotogrammi o più al secondo) da fornire all'occhio umano l'illusione del movimento.
Il cinema è perciò caratterizzato da un qualcosa che la fotografia, in quanto immagine fissa, non avrà mai: la durata. Bazin affermava che il tempo in una fotografia è congelato, anzi “mummificato”, mentre il cinema, al contrario, è tempo allo stato puro in quanto, per breve che sia l’inquadratura, essa avrà sempre una durata. La fotografia immobilizza il tempo, mentre il cinema inserisce il singolo fotogramma in un flusso temporale.
L' immagine fissa imprigiona il tempo, cogliendo e fissando un istante, traendolo fuori dal flusso cui appartiene, oppure, secondo una visione che si allontana dal realismo, la fotografia coglie in realtà la negazione della temporalità, il varco dal quale il tempo è fuggito, perché la fotografia non cattura l’oggetto, ma ne mette in rappresentazione l’apparenza, la pura sembianza, che è segno di una perdita, come il fumo è segno di una sigaretta che si consuma o l’impronta sulla sabbia è la traccia di qualcuno che è passato e non si scorge più.
Se la fotografia ha tutta la malinconia di una cosa passata, il cinema tende invece al futuro, proteso verso un avvenire di cui si attende il compimento. Nel suo "Capire una fotografia", John Berger scrive:
"Se esiste una forma narrativa peculiare della fotografia, non somiglierà a quella del cinema? incredibilmente, le fotografie sono l'opposto dei film. Le fotografie sono retrospettive e vengono recepite come tali; i film anticipano. Davanti a una fotografia, si cerca quel che c'è stato. Al cinema, si aspetta quel che verrà dopo. Tutti i film narrativi sono, in questo senso, delle avventure: avanzano, arrivano. Il termine flashback è un'ammissione dell'inesorabile impazienza del cinema di andare avanti.
Al contrario, se esiste una forma narrativa intrinseca all'immagine fissa, essa ricercherà quel che è accaduto, come fanno i ricordi o i ragionamenti. Neppure la memoria è fatta di flashback che si muovono inesorabilmente in avanti. La memoria è un campo in cui coesistono tempi diversi. Il campo è ininterrotto per quanto riguarda la soggettività che lo crea e lo estende, ma dal punto di vista del tempo è discontinuo."
La fotografia è, pertanto, memoria e si protende nel passato; il cinema è racconto nel presente ma orientato verso un futuro, in cui troveranno soluzione tutti i nodi messi in campo dalla trama narrativa.
Cosa succede se mettiamo insieme cinema e fotografia? Cioè se togliamo al cinema il movimento e cerchiamo di rendere la durata temporale non attraverso la veloce proiezione di fotogrammi, in grado di dare l’illusione di un tempo che scorre, ma con l’impiego di immagini fisse e discontinue?
E’ quello che ha fatto, negli anni Sessanta, il francese Chris Marker, regista, scrittore, sceneggiatore, montatore, video-artista, fotografo, produttore, ma soprattutto pensatore e artista geniale, fuori da ogni classificazione e sempre in anticipo sui tempi, inventore tra l’altro dei cosiddetti 'film-saggio' o 'film lettera', vere e proprie riflessioni sul cinema, sull'esistenza, sulla memoria.
Proprio la memoria costituisce il tema centrale di tutta la sua opera, in particolar modo del suo cortometraggio più conosciuto, il 'photo-roman' visionario "La Jetée"(1962), un film che in 28 minuti concentra un intreccio di fantascienza, una storia d' amore, una potente riflessione sulla memoria, l’incubo del pericolo nucleare e dei campi di concentramento, una serie di omaggi all’arte cinematografica e che ha ispirato "L'esercito delle 12 scimmie" di Terry Gilliam.
Il vero tema del film è la memoria. Di essa Marker scriveva: “… ho trascorso la vita ad interrogarmi sulla funzione del ricordo, che non è il contrario dell’oblio, quanto piuttosto il suo rovescio. In realtà non si ricorda mai, ma si riscrive la memoria così come si riscrive la storia…”.
Il film La jetée è costituito da una sequenza di più di quattrocento immagini fisse, che si susseguono nella concatenazione dello spazio filmico, con l'impiego determinante del commento della voce fuori campo.
Il prologo rivela fin da subito che questa è la storia di un uomo segnato da un’immagine della sua infanzia, un’immagine che lo aveva turbato per la sua violenza e della quale avrebbe compreso il significato solo molti anni più tardi.
L’episodio, il cui ricordo lo avrebbe assillato per tutta la vita, ha luogo sulla grande piattaforma (la jetée del titolo) dell’aeroporto di Orly. Un bambino è lì con i suoi genitori, per ammirare gli aerei che decollano. Il suo sguardo è catturato dal viso di una giovane donna vicina al parapetto. La sua espressione è dolce e meravigliosa. Improvvisamente un uomo, di cui non vediamo il volto, viene colpito a morte e cade. Tutti corrono verso la vittima a terra mentre lo sguardo del bambino continua ad essere irrimediabilmente attratto dall’espressione della donna, questa volta alterata da una smorfia di sgomento e di dolore.
Anni dopo, vediamo una Parigi devastata dall’olocausto nucleare della terza guerra mondiale. A causa delle radiazioni, i pochi sopravvissuti vivono nelle gallerie sotterranee, in un’atmosfera allucinata e in condizioni di assoluto degrado sociale e culturale. I vincitori sperimentano su alcuni prigionieri di guerra dei dolorosi sistemi al fine di compiere viaggi nel tempo. L’unica speranza di sopravvivenza per i superstiti, infatti, è rappresentata dalla possibilità di creare un varco nel flusso temporale attraverso cui ottenere una fonte di energia. Gli esperimenti, pertanto, mirano a far viaggiare nel tempo alcuni emissari, inviandoli nel passato e nel futuro. Il protagonista, cioè il bambino divenuto uomo, è uno di questi prigionieri sottoposto agli esperimenti, prescelto proprio a causa dell’immagine proveniente dal suo passato dalla quale continua ad essere ossessionato.
I precedenti tentativi, condotti su altre cavie umane, erano miseramente falliti portando alla pazzia chi ne era stato sottoposto. Ancorandosi all’immagine della sua infanzia, ancora forte e viva nella sua memoria, il protagonista riesce a trovare un saldo punto di riferimento che gli permette di non impazzire e di viaggiare nel passato, fino a una Parigi prebellica. Qui incontra proprio la donna vista da piccolo sulla piattaforma dell’aeroporto. I due si innamorano, ma il giovane ha difficoltà ad adattarsi a quel tempo, che lui ha già vissuto, ma che adesso gli risulta nuovo ed estraneo. L’ultimo incontro tra i due avviene in un museo di storia naturale, circondati da animali imbalsamati.
Il successo dei suoi viaggi nel passato spingono gli scienziati ad inviarlo nel futuro. Qui trova aiuto: gli uomini dell’avvenire gli offrono una fonte di energia che egli porta via con sé. Divenuto ormai inutile sta per essere liquidato dai suoi aguzzini; ma gli esseri del futuro (possono viaggiare anch’essi nel tempo) gli propongono di unirsi a loro. Lui rifiuta e chiede di essere riportato nel passato, dalla donna che ama.
Nella scena finale si ritrova proprio nell’aeroporto di Orly, dove vede la donna amata, ma uno dei suoi carcerieri l’ha seguito dal futuro fin lì, gli spara e lo uccide. Solo in quel momento capisce che l'uomo che moriva nella scena del suo ricordo d’infanzia altri non era che lui stesso. Riesce così finalmente a ricostruire e a dare significato all'immagine che lo ossessionava da sempre: l'immagine della propria morte vista dagli occhi di quella donna.
Il narratore a questo punto dichiara che fuggire al tempo è impossibile, dopo di che lo schermo diventa tutto nero.
L'immagine della morte del protagonista, che percorre il film in tutti i sensi, è quella che riconduce la fine verso il suo inizio.
A questo link, il film per intero:
La jetée è un film che affronta numerosi argomenti, ma è in primo luogo un film sulla memoria. Secondo Marker, alla base di essa, sono le immagini. In un altro film del regista, “Sans Soleil”, uno dei personaggi pronuncia la seguente frase: «Mi chiedo come facciano a ricordare quelli che non filmano, non fotografano, non videoregistrano, come facesse l’umanità a ricordare…».
C’è, come abbiamo visto, una differenza sostanziale tra l’immagine fotografica e l’immagine cinematografica, perché la prima, come scrive Barthes, è senza avvenire. Mentre il film è “proteso” verso un futuro, la fotografia, sotto le apparenze di una presenza, nasconde in realtà un’assenza, una perdita, un vuoto.
Il cinema è finzione (nel senso che “finge” una storia con una sua pretesa di realtà), mentre la fotografia possiede una dimensione documentaria ineluttabile. Come scrive R. Bellour, la fotografia “non duplica il tempo, come fa il film; lo sospende, lo frattura, lo raggela e così lo ‘documenta’ […] il cinema nasconde ciò che la foto mostra: ogni immagine per se stessa, nella sua nuda verità, che soccombe allo scorrimento”. La natura di un fotogramma è quella di non avere consistenza in se stesso, ma solo come parte di una sequenza; nel flusso continuo di un film l’immagine singola viene fagocitata e annullata dalla successiva. Non così nel film di Marker, costituito non da fotogrammi, ma da fotografie vere e proprie, cioè da “istanti raggelati”, nonostante il montaggio, la musica e il commento ne facciano un racconto che ha una sua unità e una sua durata. Ne La jetée le immagini fisse diventano flusso narrativo. La trama del film si basa sulla narrazione di salti temporali e, a ben considerare, l'uso di immagini fisse e discontinue, più del movimento fluido della pellicola, si presta meglio a rendere questo tempo che procede senza una continuità lineare, oscillando tra passato e futuro.
In questa foto, che mostra la caduta del protagonista colpito a morte, vi è l'omaggio alla famosa foto del miliziano di Capa |
Essendo il film montato per fermo-immagini, il montaggio, anziché conferire alle immagini movimento, è ciò che ne sottolinea il loro arresto, il loro carattere immobile e discontinuo, il loro essere separate l’una dall’altra. E, tuttavia, proprio il montaggio, creando delle mirabili connessioni visive tra un’immagine e la seguente, rende questo film un’esperienza visiva vertiginosa, stupefacente tenendo conto della scarsità dei mezzi utilizzati.
Si può pertanto concludere che proprio la commistione tra due linguaggi visivi diversi, il cinema e la fotografia, fa sì che l’immagine fotografica, inserita in una sequenza che ha una durata, oltre ad acquisire un nuovo significato, perda il suo riferimento a un evento del passato, concluso e circoscritto e assuma la valenza di presente, offrendo la sensazione di un eterno divenire.
Nessun commento:
Posta un commento