domenica 29 dicembre 2019

L'iconografia della Madonna del Latte



La rappresentazione della Virgo Lactis (o Maria lactans), cioè della Madonna che allatta, è una delle più antiche dell’arte sacra cristiana e risale ai primi secoli (alcune raffigurazioni sono state rinvenute nelle catacombe romane, forse con richiami all’antica iconografia egizia della dea Iside in trono che allatta Horus).
Una delle prime testimonianze iconiche del culto mariano, d’altra parte, sarebbero alcune statuette votive rinvenute nella località di Abu Mena, a sud di Alessandria d’Egitto, risalenti al IV o V secolo d.C., che rappresentano Maria con il seno prominente e il ventre gonfio, a testimonianza del fatto che le donne in gravidanza hanno sempre visto nella Madonna la protettrice del parto e della fertilità. In tal senso, il culto mariano si inseriva perfettamente in quel panorama di divinità femminili, legate alla sfera della riproduzione e della fertilità, le cui origini si perdono nelle profondità dei tempi.

venerdì 27 dicembre 2019

Robert Mapplethorpe. Trasgressione e classicità

Robert Mapplethorpe, Derrick Cross, 1985

“L’eros domina il mondo e le fotografie di Robert Mapplethorpe ne glorificano la potenza e la moltiplicazione; solo non lo identificano nel predominio di un unico e univoco sesso, maschile o femminile, ma lo esaltano per la pluralità delle sue espressioni, per il suo muoversi irregolare e diverso, per il disordine che esso crea nell’identità degli individui”.
Così si apre il capitolo che Germano Celant dedica a Mapplethorpe nel suo libro Fotografia maledetta e non e che cerca di mettere in luce come l’opera del fotografo americano, plasmata intorno allo studio del corpo nudo,  si caratterizzi proprio per l’ equilibrio che riesce ad ottenere tra l’espressione di una potente e inarrestabile pulsione erotica da una parte e il rigore e l’armonia di una forma estetica attinti alla scultura classica e rinascimentale dall’altra. Mapplethorpe celebra il corpo umano, l’energia sessuale che lo anima, ma contenendolo nei contorni di linee e volumi ben definiti. Nelle immagini, i modelli cessano di essere individui e si trasformano in statue. Lo stesso artista, d’altra parte, ipotizzava che, se fosse nato in un'epoca precedente, avrebbe potuto essere uno scultore piuttosto che un fotografo. Nella sua produzione, egli tende a sottolineare la potente presenza fisica e le proporzioni perfette dei suoi modelli con un'attenzione ossessiva ai dettagli, alla precisione delle loro pose statuarie, alla raffinatezza tecnica dell'illuminazione. Nella fotografia di Mapplethorpe sono presenti una certa tattilità e un’illusione di fisicità che la rendono scultorea, come se si potesse allungare il braccio e muovere la mano sui corpi ritratti. Anzi, dirà l’artista che la fotografia è solo il modo perfetto di fare una scultura.

martedì 24 dicembre 2019

Corpi da indossare. La figura della donna nelle fotografie di Helmut Newton

Helmuth Newton, Sie kommen, 1981.

Helmut Newton ha costruito la sua carriera come fotografo di moda, ma le sue immagini durano nel tempo ben oltre ogni moda che hanno illustrato. Le sue fotografie, infatti, hanno già dagli anni Settanta valicato il confine delle riviste di settore per trovare posto all’interno di libri fotografici, gallerie ed esposizioni museali (sulla permeabilità tra fotografia artistica e moda cfr. il saggio di Claudio Marra https://zmj.unibo.it/article/view/9460/9502).
Molta parte della sua produzione si fonda sulla dialettica corpo vestito – corpo nudo, e questo potrebbe apparire paradossale, visto che materia prima della moda sono gli indumenti, mentre il nudo è dato dalla loro assenza. Il rapporto tra moda e nudo, tuttavia, parte da lontano, almeno dagli anni Trenta, quando la nudità filtrata dall’occhio del fotografo di moda rappresentava il soggetto da cui partire. Negli anni Sessanta, in alcune riviste come Vogue ed Harper’s Bazaar, il nudo è definitivamente sdoganato; tale fotografia condivide con quella artistica l’interesse verso un corpo che incarna i canoni estetici dell’epoca. Nella produzione di Newton, a partire dalla metà degli anni Settanta, è possibile ammirare una  nudità sempre più esplicita e audace. La critica considera, generalmente, la figura femminile che emerge dalle sue fotografie non più come quella della donna remissiva e sottomessa all’uomo o del manichino da rivestire, ma come amazzone e dominatrice, provocatrice e conscia del suo potenziale di sensualità e seduzione.

mercoledì 18 dicembre 2019

La Madonna con il bastone (e anche con il manganello)



Si sa che la Madonna è persona molto buona e misericordiosa, ma non fatela arrabbiare, perché può anche menare di Santa (è il caso di dirlo) ragione. E infatti, in una certa iconografia, la troviamo mentre brandisce un bastone, con il quale percuote il suo nemico storico, il diavolo, che insidia una bambina (o un bambino).
Questo lato battagliero della Vergine Maria riscatta un po’ l’immagine remissiva della donna che si è sedimentata nei secoli. Ma, come tutte le iconografie, ha i suoi lati contraddittori.
La Madonna che brandisce il bastone è la classica rappresentazione di un appellativo di Maria, quello di Madonna del Soccorso (Succurre Miseris). Il culto ebbe inizio a Palermo nel 1306, fondato da alcuni monaci agostiniani e ben presto si diffuse in Calabria (a Lamezia Terme in particolare) e Sicilia. Il centro di maggior devozione è però San Severo di Puglia, ma qui la Madonna del Soccorso ha un aspetto diverso: è una Madonna nera, fatta di legno e riccamente agghindata, e nelle mani regge un mazzetto di spighe e un rametto d’ulivo. Niente bastoni.
Centri di culto sono presenti anche in Campania e nell’Italia Centrale. Soprattutto da queste zone provengono le rappresentazioni che compongono il collage. Il fatto che i loro autori siano perlopiù personalità minori della storia dell’arte, fa presupporre che questo culto appartenga a una tradizione popolare.

lunedì 16 dicembre 2019

Donne che guardano il futuro con preoccupazione


Nella pittura del Cinque-Seicento, più della metà delle donne viene rappresentata con gli occhi al cielo.
L'altra metà, invece, è raffigurata senza vestiti.
Tra le Madonne, le Sante e le Maddalene che volgono in alto lo sguardo in rapimento mistico o in conturbante estasi, e tra le Cleopatre e le Lucrezie che guardano il cielo con espressione dolorosa mentre si conficcano nel petto stiletti o serpentelli e tra le fanciulle intente a difendersi da qualche violenza, ho scoperto un'altra tipologia di donne con la testa volta in su, ma più sobria e composta, meno pathosformel.
Sono le Sibille (ce ne sono diverse, dalla Cumana, alla Eritrea, alla Delfica e altre sei-sette), dall'abbigliamento esotico, quasi sempre accompagnate da un libro, perché sono donne di sapienza. Alcune di queste sono rappresentate pensierose, in atteggiamento melanconico, mentre altre dirigono lo sguardo al cielo. Le Sibille interrogano l'Oracolo. Vedono il futuro. Ma probabilmente non è molto roseo ciò che scorgono.
D'altra parte, cosa c'è di più spaventoso che conoscere ciò che ci aspetta?

venerdì 13 dicembre 2019

Perché la banana di Cattelan è diversa da operazioni simili del passato



Tutto vero ciò che ho letto in questi giorni a proposito del fatto che il gesto di Cattelan di attaccare la banana al muro ormai non può essere più considerato né provocatorio né trasgressivo, che si è trattato soprattutto di un'operazione pubblicitaria e commerciale, che gesti del genere, innovatori al tempo, li hanno compiuti molti altri in passato, che quindi l'operazione di Cattelan non è altro che un'eco sbiadita e sterile, ecc.
Da una parte sottoscrivo tutto.
Dall'altra, però, non posso fare a meno di rilevare alcune differenze.
Duchamp, Manzoni, Tiravanija, Mario Merz e altri hanno utilizzato cibo, spesso proposto al palato degli spettatori, offrendo un'esperienza di fruizione davvero singolare, un'assimilazione nel vero senso della parola: l'opera d'arte si offriva non solo alla visione, ma diventava corpo nel corpo del pubblico. Per non parlare della rottura con la concezione tradizionale di arte che quei gesti implicavano. Per cui, suonerebbe patetico riproporre oggi la stessa operazione pretendendo di essere trasgressivi e di fare arte.
Lo pensavo anche io, fino a due giorni fa.

mercoledì 11 dicembre 2019

Antoine d'Agata. Fotografie al di là del bene e del male

Antoine d'Agata, Ice.

Antoine d’Agata, dopo una giovinezza trascorsa tra eccessi e peregrinazioni, nel rifiuto di ogni compromesso, a trent’anni scopre la fotografia. E’ il 1990 ed è a New York, dove segue i corsi di Nan Goldin e Larry Clark. Nel 1998 pubblicherà il suoi primi due libri fotografici, De Mala Muerte, un carnet di viaggio realizzato in America Centrale, e Mala Noche, che raccoglie fotografie scattate alla frontiera con il Messico.
Imbevuto della lettura di Viaggio al termine della notte di Céline, profondamente influenzato dalla pittura di Francis Bacon, formatosi in una cultura anarchica e punk, d’Agata è collocato in una posizione marginale che, tuttavia, non gli consente di concepire il fotografo come un “professionista dello sguardo”, ma lo porta a considerare il medium fotografico un mezzo per prendere posizione nel mondo. La fotografia cessa di essere descrittiva e si scopre essere nient’altro che un modo di fare esperienza, uno strumento di coinvolgimento attivo e personale nella realtà; non un artificio che tiene a distanza ma che permette di penetrare le frontiere delle ossessioni e del dolore, del desiderio e del piacere, del disordine e del rischio che plasmano il suo rapporto con il mondo.

sabato 7 dicembre 2019

Se l'arte vuole essere effimera (Riflessione a margine di una banana attaccata al muro)

Daniel Spoerri, Tableau-piège

Si sa che Leonardo fosse un artista geniale, ma poco pratico nella tecnica degli affreschi. La sua fissazione ad usare l’antico procedimento ad encausto, infatti, determinò la cattiva riuscita de La battaglia di Anghiari a Palazzo Vecchio, che dopo qualche anno venne ricoperta dal Vasari, mentre il Cenacolo è stato recuperato da un lungo e laborioso restauro, pur mostrando comunque un importante stato di deperimento. Ma tali esiti non erano certo nelle intenzioni del genio vinciano, che anzi subì alquanto la frustrazione per questi insuccessi.
La questione riguardo alla durabilità delle opere non sembra, invece, appartenere alle preoccupazioni degli artisti del nostro tempo. Si ritiene che entro pochi decenni, un’altissima percentuale di opere d’arte contemporanea sarà perduta. I materiali usati, infatti, non sono più il marmo, il bronzo o i pigmenti ad olio e la tela, ma sono materiali poco stabili, benché alcuni di recente invenzione, alterabili e deperibili, soggetti a reazioni chimiche difficilmente controllabili: carte industriali, colori acrilici, colle e resine, varietà di plastiche, materiali naturali, fragili e friabili. L’arte contemporanea si presenta come la più fragile, la più effimera, la più “impermanente” di tutte le arti dei secoli precedenti e, per questo, sembra volersi esaurire nel presente e negare il futuro. E’ dunque possibile che tra qualche secolo, gli abitanti del pianeta potranno ancora ammirare le sculture degli antichi greci e gli affreschi della Sistina, mentre le opere di Spoerri, Beuys, Kounellis, Pistoletto saranno già da tempo perdute per sempre.

giovedì 5 dicembre 2019

George Tooker. Corpi soli e alienati nella città moderna

George Tooker, The Subway (1950), Whitney Museum of American Art, New York.

A lungo i critici hanno tentato di inquadrare l’opera dell’artista americano George Tooker, cercandone le affiliazioni estetiche nel realismo magico o nel realismo socialista o nel surrealismo. Nelle interviste, Tooker rifiuta tutte queste associazioni, sottolineando invece le sue influenze più personali: quelle degli amici Paul Cadmus, Jared e Margaret French, del compagno William Christopher da un lato e, dall'altro, dei temi del simbolismo e dei maestri pittori del primo Rinascimento, attratto in particolar modo dalla solidità e monumentalità delle figure di Piero della Francesca e dalla semplicità espressiva delle sue composizioni, di cui assimila molti elementi, sia iconografici che cromatici e compositivi, oltre alla tecnica del colore a tempera d’uovo. Tuttavia, i temi della sua pittura rimandano alle idee degli esistenzialisti, come Jean-Paul Sartre, e a quelle di scrittori come Franz Kafka: isolamento umano, alienazione urbana, impersonalità della burocrazia e rituali spiritualmente vuoti.

domenica 1 dicembre 2019

La fotografia è una relazione

Lee Friedlander, New York City, 1966.

Ebbene sì, ho un debole per questo tipo di fotografie, quelle dove compaiono specchi, ombre, pezzi di corpo del fotografo, soggetti che guardano in macchina.
Insomma, tutte quelle fotografie che mettono in scena qualcosa che fa parte della natura stessa di questo medium: il suo essere, cioè, prima di tutto non un oggetto, ma una 'relazione'.
Pittura, scultura, letteratura possono nascere nel chiuso di una stanza. Parole, pennellate e colpi di scalpello scaturiscono dalle mani dell'autore, che segue il flusso dei suoi pensieri, della sua ispirazione, del suo tempo interiore.
La fotografia no.
La fotografia non è come Atena, che viene fuori tutta intera dalla testa del padre Giove.
Il fotografo sa bene che deve, per agire in quanto tale, costruire un rapporto. Con la macchina, prima di tutto, con la quale condivide l'atto creativo e che possiede un suo sapere e una sua 'personalità'. Con il mondo, poi, perché prima di fotografare idee, ciò che si inquadra, ciò di cui si preleva il riverbero luminoso, sono le cose che esistono intorno a noi. Ed esistono indipendentemente da noi che le guardiamo.