domenica 29 dicembre 2019

L'iconografia della Madonna del Latte



La rappresentazione della Virgo Lactis (o Maria lactans), cioè della Madonna che allatta, è una delle più antiche dell’arte sacra cristiana e risale ai primi secoli (alcune raffigurazioni sono state rinvenute nelle catacombe romane, forse con richiami all’antica iconografia egizia della dea Iside in trono che allatta Horus).
Una delle prime testimonianze iconiche del culto mariano, d’altra parte, sarebbero alcune statuette votive rinvenute nella località di Abu Mena, a sud di Alessandria d’Egitto, risalenti al IV o V secolo d.C., che rappresentano Maria con il seno prominente e il ventre gonfio, a testimonianza del fatto che le donne in gravidanza hanno sempre visto nella Madonna la protettrice del parto e della fertilità. In tal senso, il culto mariano si inseriva perfettamente in quel panorama di divinità femminili, legate alla sfera della riproduzione e della fertilità, le cui origini si perdono nelle profondità dei tempi.

venerdì 27 dicembre 2019

Robert Mapplethorpe. Trasgressione e classicità

Robert Mapplethorpe, Derrick Cross, 1985

“L’eros domina il mondo e le fotografie di Robert Mapplethorpe ne glorificano la potenza e la moltiplicazione; solo non lo identificano nel predominio di un unico e univoco sesso, maschile o femminile, ma lo esaltano per la pluralità delle sue espressioni, per il suo muoversi irregolare e diverso, per il disordine che esso crea nell’identità degli individui”.
Così si apre il capitolo che Germano Celant dedica a Mapplethorpe nel suo libro Fotografia maledetta e non e che cerca di mettere in luce come l’opera del fotografo americano, plasmata intorno allo studio del corpo nudo,  si caratterizzi proprio per l’ equilibrio che riesce ad ottenere tra l’espressione di una potente e inarrestabile pulsione erotica da una parte e il rigore e l’armonia di una forma estetica attinti alla scultura classica e rinascimentale dall’altra. Mapplethorpe celebra il corpo umano, l’energia sessuale che lo anima, ma contenendolo nei contorni di linee e volumi ben definiti. Nelle immagini, i modelli cessano di essere individui e si trasformano in statue. Lo stesso artista, d’altra parte, ipotizzava che, se fosse nato in un'epoca precedente, avrebbe potuto essere uno scultore piuttosto che un fotografo. Nella sua produzione, egli tende a sottolineare la potente presenza fisica e le proporzioni perfette dei suoi modelli con un'attenzione ossessiva ai dettagli, alla precisione delle loro pose statuarie, alla raffinatezza tecnica dell'illuminazione. Nella fotografia di Mapplethorpe sono presenti una certa tattilità e un’illusione di fisicità che la rendono scultorea, come se si potesse allungare il braccio e muovere la mano sui corpi ritratti. Anzi, dirà l’artista che la fotografia è solo il modo perfetto di fare una scultura.

martedì 24 dicembre 2019

Corpi da indossare. La figura della donna nelle fotografie di Helmut Newton

Helmuth Newton, Sie kommen, 1981.

Helmut Newton ha costruito la sua carriera come fotografo di moda, ma le sue immagini durano nel tempo ben oltre ogni moda che hanno illustrato. Le sue fotografie, infatti, hanno già dagli anni Settanta valicato il confine delle riviste di settore per trovare posto all’interno di libri fotografici, gallerie ed esposizioni museali (sulla permeabilità tra fotografia artistica e moda cfr. il saggio di Claudio Marra https://zmj.unibo.it/article/view/9460/9502).
Molta parte della sua produzione si fonda sulla dialettica corpo vestito – corpo nudo, e questo potrebbe apparire paradossale, visto che materia prima della moda sono gli indumenti, mentre il nudo è dato dalla loro assenza. Il rapporto tra moda e nudo, tuttavia, parte da lontano, almeno dagli anni Trenta, quando la nudità filtrata dall’occhio del fotografo di moda rappresentava il soggetto da cui partire. Negli anni Sessanta, in alcune riviste come Vogue ed Harper’s Bazaar, il nudo è definitivamente sdoganato; tale fotografia condivide con quella artistica l’interesse verso un corpo che incarna i canoni estetici dell’epoca. Nella produzione di Newton, a partire dalla metà degli anni Settanta, è possibile ammirare una  nudità sempre più esplicita e audace. La critica considera, generalmente, la figura femminile che emerge dalle sue fotografie non più come quella della donna remissiva e sottomessa all’uomo o del manichino da rivestire, ma come amazzone e dominatrice, provocatrice e conscia del suo potenziale di sensualità e seduzione.

mercoledì 18 dicembre 2019

La Madonna con il bastone (e anche con il manganello)



Si sa che la Madonna è persona molto buona e misericordiosa, ma non fatela arrabbiare, perché può anche menare di Santa (è il caso di dirlo) ragione. E infatti, in una certa iconografia, la troviamo mentre brandisce un bastone, con il quale percuote il suo nemico storico, il diavolo, che insidia una bambina (o un bambino).
Questo lato battagliero della Vergine Maria riscatta un po’ l’immagine remissiva della donna che si è sedimentata nei secoli. Ma, come tutte le iconografie, ha i suoi lati contraddittori.
La Madonna che brandisce il bastone è la classica rappresentazione di un appellativo di Maria, quello di Madonna del Soccorso (Succurre Miseris). Il culto ebbe inizio a Palermo nel 1306, fondato da alcuni monaci agostiniani e ben presto si diffuse in Calabria (a Lamezia Terme in particolare) e Sicilia. Il centro di maggior devozione è però San Severo di Puglia, ma qui la Madonna del Soccorso ha un aspetto diverso: è una Madonna nera, fatta di legno e riccamente agghindata, e nelle mani regge un mazzetto di spighe e un rametto d’ulivo. Niente bastoni.
Centri di culto sono presenti anche in Campania e nell’Italia Centrale. Soprattutto da queste zone provengono le rappresentazioni che compongono il collage. Il fatto che i loro autori siano perlopiù personalità minori della storia dell’arte, fa presupporre che questo culto appartenga a una tradizione popolare.

lunedì 16 dicembre 2019

Donne che guardano il futuro con preoccupazione


Nella pittura del Cinque-Seicento, più della metà delle donne viene rappresentata con gli occhi al cielo.
L'altra metà, invece, è raffigurata senza vestiti.
Tra le Madonne, le Sante e le Maddalene che volgono in alto lo sguardo in rapimento mistico o in conturbante estasi, e tra le Cleopatre e le Lucrezie che guardano il cielo con espressione dolorosa mentre si conficcano nel petto stiletti o serpentelli e tra le fanciulle intente a difendersi da qualche violenza, ho scoperto un'altra tipologia di donne con la testa volta in su, ma più sobria e composta, meno pathosformel.
Sono le Sibille (ce ne sono diverse, dalla Cumana, alla Eritrea, alla Delfica e altre sei-sette), dall'abbigliamento esotico, quasi sempre accompagnate da un libro, perché sono donne di sapienza. Alcune di queste sono rappresentate pensierose, in atteggiamento melanconico, mentre altre dirigono lo sguardo al cielo. Le Sibille interrogano l'Oracolo. Vedono il futuro. Ma probabilmente non è molto roseo ciò che scorgono.
D'altra parte, cosa c'è di più spaventoso che conoscere ciò che ci aspetta?

venerdì 13 dicembre 2019

Perché la banana di Cattelan è diversa da operazioni simili del passato



Tutto vero ciò che ho letto in questi giorni a proposito del fatto che il gesto di Cattelan di attaccare la banana al muro ormai non può essere più considerato né provocatorio né trasgressivo, che si è trattato soprattutto di un'operazione pubblicitaria e commerciale, che gesti del genere, innovatori al tempo, li hanno compiuti molti altri in passato, che quindi l'operazione di Cattelan non è altro che un'eco sbiadita e sterile, ecc.
Da una parte sottoscrivo tutto.
Dall'altra, però, non posso fare a meno di rilevare alcune differenze.
Duchamp, Manzoni, Tiravanija, Mario Merz e altri hanno utilizzato cibo, spesso proposto al palato degli spettatori, offrendo un'esperienza di fruizione davvero singolare, un'assimilazione nel vero senso della parola: l'opera d'arte si offriva non solo alla visione, ma diventava corpo nel corpo del pubblico. Per non parlare della rottura con la concezione tradizionale di arte che quei gesti implicavano. Per cui, suonerebbe patetico riproporre oggi la stessa operazione pretendendo di essere trasgressivi e di fare arte.
Lo pensavo anche io, fino a due giorni fa.

mercoledì 11 dicembre 2019

Antoine d'Agata. Fotografie al di là del bene e del male

Antoine d'Agata, Ice.

Antoine d’Agata, dopo una giovinezza trascorsa tra eccessi e peregrinazioni, nel rifiuto di ogni compromesso, a trent’anni scopre la fotografia. E’ il 1990 ed è a New York, dove segue i corsi di Nan Goldin e Larry Clark. Nel 1998 pubblicherà il suoi primi due libri fotografici, De Mala Muerte, un carnet di viaggio realizzato in America Centrale, e Mala Noche, che raccoglie fotografie scattate alla frontiera con il Messico.
Imbevuto della lettura di Viaggio al termine della notte di Céline, profondamente influenzato dalla pittura di Francis Bacon, formatosi in una cultura anarchica e punk, d’Agata è collocato in una posizione marginale che, tuttavia, non gli consente di concepire il fotografo come un “professionista dello sguardo”, ma lo porta a considerare il medium fotografico un mezzo per prendere posizione nel mondo. La fotografia cessa di essere descrittiva e si scopre essere nient’altro che un modo di fare esperienza, uno strumento di coinvolgimento attivo e personale nella realtà; non un artificio che tiene a distanza ma che permette di penetrare le frontiere delle ossessioni e del dolore, del desiderio e del piacere, del disordine e del rischio che plasmano il suo rapporto con il mondo.

sabato 7 dicembre 2019

Se l'arte vuole essere effimera (Riflessione a margine di una banana attaccata al muro)

Daniel Spoerri, Tableau-piège

Si sa che Leonardo fosse un artista geniale, ma poco pratico nella tecnica degli affreschi. La sua fissazione ad usare l’antico procedimento ad encausto, infatti, determinò la cattiva riuscita de La battaglia di Anghiari a Palazzo Vecchio, che dopo qualche anno venne ricoperta dal Vasari, mentre il Cenacolo è stato recuperato da un lungo e laborioso restauro, pur mostrando comunque un importante stato di deperimento. Ma tali esiti non erano certo nelle intenzioni del genio vinciano, che anzi subì alquanto la frustrazione per questi insuccessi.
La questione riguardo alla durabilità delle opere non sembra, invece, appartenere alle preoccupazioni degli artisti del nostro tempo. Si ritiene che entro pochi decenni, un’altissima percentuale di opere d’arte contemporanea sarà perduta. I materiali usati, infatti, non sono più il marmo, il bronzo o i pigmenti ad olio e la tela, ma sono materiali poco stabili, benché alcuni di recente invenzione, alterabili e deperibili, soggetti a reazioni chimiche difficilmente controllabili: carte industriali, colori acrilici, colle e resine, varietà di plastiche, materiali naturali, fragili e friabili. L’arte contemporanea si presenta come la più fragile, la più effimera, la più “impermanente” di tutte le arti dei secoli precedenti e, per questo, sembra volersi esaurire nel presente e negare il futuro. E’ dunque possibile che tra qualche secolo, gli abitanti del pianeta potranno ancora ammirare le sculture degli antichi greci e gli affreschi della Sistina, mentre le opere di Spoerri, Beuys, Kounellis, Pistoletto saranno già da tempo perdute per sempre.

giovedì 5 dicembre 2019

George Tooker. Corpi soli e alienati nella città moderna

George Tooker, The Subway (1950), Whitney Museum of American Art, New York.

A lungo i critici hanno tentato di inquadrare l’opera dell’artista americano George Tooker, cercandone le affiliazioni estetiche nel realismo magico o nel realismo socialista o nel surrealismo. Nelle interviste, Tooker rifiuta tutte queste associazioni, sottolineando invece le sue influenze più personali: quelle degli amici Paul Cadmus, Jared e Margaret French, del compagno William Christopher da un lato e, dall'altro, dei temi del simbolismo e dei maestri pittori del primo Rinascimento, attratto in particolar modo dalla solidità e monumentalità delle figure di Piero della Francesca e dalla semplicità espressiva delle sue composizioni, di cui assimila molti elementi, sia iconografici che cromatici e compositivi, oltre alla tecnica del colore a tempera d’uovo. Tuttavia, i temi della sua pittura rimandano alle idee degli esistenzialisti, come Jean-Paul Sartre, e a quelle di scrittori come Franz Kafka: isolamento umano, alienazione urbana, impersonalità della burocrazia e rituali spiritualmente vuoti.

domenica 1 dicembre 2019

La fotografia è una relazione

Lee Friedlander, New York City, 1966.

Ebbene sì, ho un debole per questo tipo di fotografie, quelle dove compaiono specchi, ombre, pezzi di corpo del fotografo, soggetti che guardano in macchina.
Insomma, tutte quelle fotografie che mettono in scena qualcosa che fa parte della natura stessa di questo medium: il suo essere, cioè, prima di tutto non un oggetto, ma una 'relazione'.
Pittura, scultura, letteratura possono nascere nel chiuso di una stanza. Parole, pennellate e colpi di scalpello scaturiscono dalle mani dell'autore, che segue il flusso dei suoi pensieri, della sua ispirazione, del suo tempo interiore.
La fotografia no.
La fotografia non è come Atena, che viene fuori tutta intera dalla testa del padre Giove.
Il fotografo sa bene che deve, per agire in quanto tale, costruire un rapporto. Con la macchina, prima di tutto, con la quale condivide l'atto creativo e che possiede un suo sapere e una sua 'personalità'. Con il mondo, poi, perché prima di fotografare idee, ciò che si inquadra, ciò di cui si preleva il riverbero luminoso, sono le cose che esistono intorno a noi. Ed esistono indipendentemente da noi che le guardiamo.

giovedì 28 novembre 2019

Nobuyoshi Araki. Corpi costretti ed esibiti



Nobuyoshi Araki è uno dei fotografi giapponesi più prolifico e nello stesso tempo contestato degli ultimi decenni, dalla produzione poliedrica e ricca di contraddizioni, proprio come la cultura di cui fa parte. La sua opera propone una nuova interpretazione fotografica della realtà che invita alla contestazione radicale dei limiti imposti da barriere sociali e culturali. La propensione ad esplorare soprattutto la sfera intima e in particolar modo quella sessuale, nelle diverse sfaccettature di amore, erotismo, voyeurismo e perversione, va inserita in un instabile confine tra privato e pubblico, che va oltre la personale ossessione dell’autore spingendosi più a largo, dentro le trame relazionali ed espressive della cultura giapponese.
Tentare, pertanto, di incasellare la fotografia di Araki all’interno di uno schema interpretativo, riconducendola a mera pornografia, o legandola alla tradizione iconografica dell’erotismo orientale o interpretandola come spinta trasgressiva nei confronti di una cultura repressiva significherebbe limitarne la ricchezza e la contraddittorietà.

lunedì 18 novembre 2019

Corpi tra Eros e Thanatos. La fotografia ‘maledetta’ di Joel-Peter Witkin

Joel-Peter Witkin, Still Life – Marseille, 1992

Non apparirà poi del tutto provocatoria l’affermazione secondo cui la fotografia ha una vocazione necrofila, cioè a bloccare, a congelare, come si dice, la vita, impedendo al tempo di scorrere, al movimento di compiersi, fermando il respiro di coloro che sono catturati nella cornice, restituendone corpi inanimati e spesso frammentati. «Ogni fotografia è un memento mori”, scriveva d’altra parte Susan Sontag; fotografare una persona è una maniera di partecipare alla sua mortalità.
E’ questa terribile vocazione, portata all’eccesso, che si avverte accostandosi alle opere del fotografo statunitense Joel-Peter Witkin, che costringe lo spettatore a confrontarsi con gli aspetti più terribili dell’esistenza, impedendogli una fruizione passiva e sfidandolo a fare i conti con le sue repulsioni e i suoi tabù.

domenica 17 novembre 2019

Lettere dal sottosuolo (work in progress)


Quando guardiamo un albero, ne ammiriamo il tronco possente, la chioma rigogliosa che si protende verso il cielo. Se pensiamo al modo in cui quella meravigliosa creatura attinge la vita, ecco che il nostro pensiero scende verso profondità sotterranee, seguendo il corso delle radici. Da una parte il mondo alla luce del sole, dall’altra quello che si inabissa nell’oscurità del sottosuolo.
Qualche volta, tuttavia, quell’universo sotterraneo preme per uscire, cercando di rompere la membrana di confine. 
Le radici, lentamente e senza rumore, non cessano mai di allungarsi nel terreno. Pazientemente sondano, si insinuano, senza che alcun ostacolo le possa fermare. Succede a volte che risalgano verso la superficie, senza curarsi di provocare fratture. Rompono asfalti e selciati, sollevano pietre e mattoni, creano solchi e increspature, trasformando la strada in una pelle rugosa. Con la stessa forza distruttiva dei ricordi rimossi che, piano piano ma inesorabilmente, emergono dall'oscurità dell'inconscio fino alla superficie della coscienza.

sabato 16 novembre 2019

Fibrillazioni


Semplicemente dovrei cessare
la ricerca della forma
di un me sofferente
nell'epifania di questa scordatura
che giunge improvvisa
nella notte silenziosa
con lo squasso martellante
di colpi mancati.

Perché bussi così forte
alla mia porta, cuore mio,
perché reclami così imperiosa udienza?
Quale messaggio in questo affanno?
Non sono io, questo vuoi dirmi,
il centro dei miei giorni,
la torre di controllo del mio fare?
Vuoi forse riprenderti
lo scettro che è tuo e che io
ho creduto mia cura?

venerdì 15 novembre 2019

L’ossessione dello sguardo è la mia pena


L’ossessione dello sguardo è la mia pena
e l’ansia che il tatto non tradisca le speranze.
Poi nella notte diventa batticuore,
per la folle certezza che incombe.
I miei sguardi ansiosi, le mie carezze,
i suoni che sento e i profumi che respiro
non sono anche i tuoi, né quelli di alcuno,
e se te li racconto, le mie parole saranno
uno zefiro ai tuoi orecchi, non il Grecale
che ferisce lo sguardo.

           Se anche ti contassi
i pori della pelle o se potessi a quattro zampe
fare come i gatti che da lontano accorrono
quando l’odore del cibo li ha colpiti
o come le lumache, che ritirano le antenne
se un tocco leggero le sfiora,
non sarei più in pace di adesso.
Come prima abiterei quest’antro lindo
di mura incerate, poiché temo il rumore
dei passi e le porte che s’aprono quiete.

domenica 10 novembre 2019

Lu tiempu ’nfacce tua aje lassatu


Non so cosa significhi sognare, parlare, scrivere, emozionarsi, tutto in una lingua.
Sono nata in una famiglia contadina in cui si parlava solo ed esclusivamente il dialetto salentino. Che già il nome non significa molto, perché laggiù i dialetti cambiano da paesino a paesino, spesso da un lato all'altro della strada.
In quella lingua ho mosso i primi passi, ho pronunciato le iniziali sillabe, che quando ho detto per la prima volta la parola "papà", mio padre ha vissuto un profondo disagio perché per lui il padre non poteva che essere "tata". "Papà" gli suonava così estraneo. Una parola che non apparteneva al suo mondo. Un mondo che stava cambiando così precipitosamente davanti ai suoi occhi.
L'italiano per me è arrivato alla materna, come necessità scolastica, come seconda lingua. Una lingua di cui studiare la grammatica, la sintassi, in cui strutturare pensierini, discorsi, temi. Ma all'esterno, per farsi capire dalla propria gente, si tornava alla lingua delle radici, quella che non si scriveva mai.
Così sono cresciuta in questa frattura tra dialetto e italiano, tra mondo dell'oralità e mondo della scrittura. Tra una lingua di cui avvertivo l'oscura e sacra potenza sorgiva, immersa nel mondo della natura, dei cicli delle stagioni, dei racconti tramandati dal passato, e una lingua in cui alcuni di quei termini così prossimi alle profondità della terra non potevano essere tradotti.

venerdì 8 novembre 2019

Prodigio



Se mai accadesse, talvolta,
per imprevisto sbadiglio di natura,
che le pieghe del tempo, di breve,
s’aprissero all’occhio indiscreto.
Se la vita di una farfalla
misurar si potesse da dentro
per sentir quanto dura.
Se tramutarsi si potesse in roccia
e con il monte aspettar che si scerpi,
porgendo ascolto ad ogni rantolo
di pietra che dirupa.

Se mai accadesse, talvolta,
che il bisogno nostro inquieto di varcare
si esaudisca per capriccio o distrazione,
quale uomo potrà dire l’impensabile prodigio?
Se mai accadesse,
meglio morire sarebbe da farfalla
in un sol giorno,
o lentamente consumarsi come roccia
e finire, ritornare verme o terra,
che far seccare l’impossibile messaggio
in bocca viluppata che si ragna.

mercoledì 6 novembre 2019

Radici di pietra



E' ormai il terzo anno che una coppia di rondini si ostina a scegliere la plafoniera, appesa su una parete del cortile interno, come base per il proprio nido. Per più di una settimana si affannano avanti e indietro, recando nel becco terra, fango e ramoscelli per cementare le pareti di quel piccolo ma solido rifugio. Mi ricordo la meraviglia che provai due anni fa, quando mi accorsi di questa presenza discreta, laboriosa e tenace.  Lo stupore fu ancora più grande l'anno successivo, quando un giorno di aprile vidi che erano ritornate ed esattamente come l'anno prima avevano ripreso a costruire il loro nido. Mi commuove il fatto che abbiano scelto il nostro palazzo come loro casa; mi emoziona il loro ostinato e svelto andirivieni. In barba a tutte le mie pretese di razionalità, vedo in questo qualcosa di più di una semplice legge di natura e mi glorio del fatto che quei piccoli esseri ci abbiano scelto.
Anche questa primavera, le piccole nomadi sono arrivate e hanno costruito la loro dimora. Hanno covato tre minuscole uova e, quando i piccoli hanno imparato a volare e sono stati abbastanza forti, sono andati via tutti insieme. Il nido è rimasto vuoto per qualche giorno, poi la signora delle pulizie ha tolto via tutto e ha smacchiato la plafoniera. Così quell'oggetto, che fino a poco tempo fa era il testimone inerte e privilegiato del rinnovarsi incessante della vita, ora è tornato ad essere una insignificante plafoniera appesa a un muro grigio e vuoto. La guardo, chiedendomi se tutto questo ha un senso: partire, tornare, migrare.

I diversi volti di Salomè


La Salomè del Rinascimento distoglie lo sguardo dallo spettacolo raccapricciante della testa del Battista, posata sul vassoio, e lo volge altrove, verso un fuori campo indefinito.
A partire dall'ottocento, lo sguardo di Salomè si trasforma radicalmente, diviene torbido, sensuale, perverso. Vuole incantare e sedurre, trascinare l'uomo in un abisso di perdizione.
La donna del mito diventa l'incarnazione della Femme fatale.


Personaggio citato sia nei Vangeli sinottici che in quelli apocrifi, Salomè è stata protagonista di un’abbondante produzione iconografica.
Nel Medioevo è sottolineato, in particolar modo, l’episodio della danza. Salomè viene raffigurata come una figura diabolica, danzatrice contorsionista e seduttrice. La Salomè dei pittori del primo Rinascimento, invece, è una giovane ragazza dai lunghi capelli biondi o castani, carnagione chiara e viso angelico. Scompare ogni traccia di eccentricità e demonizzazione. E’ probabile che all’origine di questo cambiamento iconografico ci sia La Legenda Aurea, una storia delle vite dei santi scritta nel XIII secolo dall'Arcivescovo di Genova Jacopo da Varagine. Nel capitolo dedicato al martirio di Giovanni Battista, la figlia di Erodiade viene presentata come lo strumento di uno schema diabolico di Erode per sbarazzarsi del profeta.

lunedì 4 novembre 2019

Nan Goldin. The ballad of Sexual Dependency



Chi si volesse accostare alla fotografia di Nan Goldin per trovare testimonianze documentarie sul mondo underground degli anni ottanta e sulle sub-culture urbane non può che rendersi conto di aver scelto un accesso quantomeno parziale. I soggetti della Goldin sono il mondo bohemien metropolitano, le drag queen e i transgender, la cultura punk, gli amori etero e omosessuali, la violenza e la droga, l'AIDS, le feste e la solitudine, ma non è l’indagine di fenomeni sociali l’obiettivo della sua fotografia.
“My work is about letting life be what it is [...] What I’m interested in is capturing life as it’s being lived, and the flavor and the smell of it, and maintaining that in the pictures. It really is about acceptance. I am a participant and a witness at the same time.” (“Il mio lavoro vuole mostrare la vita così com’è […] Ciò che mi interessa è catturare la vita per come è vissuta, e il sapore e l’odore di essa, e mantenere tutto ciò in un’immagine. Sta tutto nell’accettazione. Sono partecipe e testimone allo stesso tempo.” in Nan Goldin: couples and loneliness, 1998). Queste sue parole sembrano riassumere la poetica del suo lavoro: rendere il sapore e l’odore della vita reale impressi in un’immagine.

venerdì 1 novembre 2019

Monologhi in penombra



Un palcoscenico vuoto, spoglio, semibuio. Un uomo (Lui) in calzamaglia nera, girato di spalle rispetto alla platea, osserva la sua ombra proiettata sul muro. Un personaggio femminile (Io), invece, si muove e danza. Gli è tipico un movimento delle mani, che si protendono in varie direzioni. Indossa vesti colorate.


Lui: Queste che udite non sono parole. Da tempo ho sepolto le inutili menzogne.
Lo strano soffio che vi solletica l’udito è solo un flusso tremulo di istanti. TIC TAC TIC TAC. Vorrei poterli scandire con la mano, ma la terra impedisce ogni mio movimento. La terra racchiude il mio corpo, lo protegge dalle insidie dell’inganno. Non la luce, né il buio, non il respiro, né lo sguardo appartengono al mio mondo. Scivolano gli istanti senza suono. Neanche il silenzio trova spazio sotto la terra.

Io: Io sono quello che sono. Ognuno di voi può dire il mio nome e chiamare se stesso. Ma, poiché ogni cosa ha un nome che le appartiene, io pronuncerò il mio e ognuno di voi, nel proprio cuore, dirà il proprio.

martedì 29 ottobre 2019

La violenza sulle donne nella storia dell’arte


Susanna e i vecchioni

La violenza è presente nell’arte di tutti i secoli. Da Lascaux ai giorni nostri. Violenta è l’arte della Grecia antica, quando gli dei infuriati puniscono la hybris degli uomini, e violenta sarà l’arte cristiana, con le sue crocifissioni, i suoi martiri trafitti dalle frecce, lapidati o decapitati, le sue feroci rappresentazioni dell'inferno e dei dannati per l’eternità. Per non parlare delle scene di guerra e di battaglia.
Ma, sia nel Vecchio Testamento che nella mitologia classica che nella storia di tutti i tempi non mancano le storie di violenza perpetrata contro le donne, insidiate, rapite, stuprate. Le rappresentazioni di questi episodi di rapimento o di violenza sessuale definiscono i contorni di un sistema iconografico tutto al maschile. E’ in particolare con il venir meno dell’ideale umanista del Rinascimento e con l’affermazione dello stile manierista prima, e di quello barocco poi, che l’arte andrà in cerca di effetti emotivi e spettacolari tali da provocare  deformazioni e torsioni dei corpi e l’esasperazione dei gesti e delle espressioni, enfatizzando la violenza della rappresentazione. Le immagini mettono insieme erotismo e sadismo, offrendo la vista di una vittima tremante e completamente alla mercé del potere dell’uomo. Tiziano, Bernini, Rubens e tantissimi altri impiegano tutto il proprio virtuosismo artistico in queste scene: rappresentare un corpo che afferra impetuosamente un altro corpo è una vera sfida artistica.

lunedì 28 ottobre 2019

Dal punto di vista di Dio

Un progetto molto bello quello di Claudio Beorchia, voluto e curato da Matteo Luigi Balduzzi e dal Museo Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo e che ha coinvolto centinaia di residenti nella regione Lombardia.
Qui il progetto: http://tracieloeterra.mufoco.org/progetto/
L'obiettivo: osservare e fotografare il paesaggio dal punto di vista dei santi che da secoli guardano il mondo all'interno delle edicole votive disseminate nel territorio.
Venerdì prossimo, 1 novembre 2019, la Festa di inaugurazione presso il Museo di Cinisello.

Francesca Woodman. Il corpo oltre i confini del corpo



La fotografia di Francesca Woodman è un viaggio all’interno del corpo femminile, che l’artista trae fuori dagli stereotipi rappresentativi della tradizione per usarlo come strumento, estetico e insieme vitale, non solo per interrogare la propria identità, ma per farne opera d’arte in sé. E per far questo, ne travalica i limiti anatomici, lo sottopone a metamorfosi, lo maschera, lo dissolve, lo trasforma in spazio. Lo colloca in una tensione continua tra la carne e lo spirito, tra presenza e assenza, tra visibile e invisibile, rendendolo abitante di una dimensione sfuggente e transitoria. Ma soprattutto lo rende attivo sulla scena, protagonista di uno scambio simbolico con lo spazio esterno, liberandolo da quei cliché di passività che da sempre avevano caratterizzato la rappresentazione del corpo femminile.

sabato 26 ottobre 2019

Belle addormentate


La donna immersa nel sonno è un topos iconografico della storia dell'arte. Dalle scene del mito agli interni borghesi, questo tipo di rappresentazione modella nello spettatore un tipo di fruizione particolare, quella di chi osserva, non visto, qualcuno che si trova in una condizione di estrema inerzia e inconsapevolezza. La rappresentazione della dormiente si configura come uno stereotipo di passività, in cui la donna diventa puro oggetto di una brama che si esprime nello sguardo.



Spiate nel sonno

La donna dormiente è un topos dell’arte di tutti i tempi. Dall’antichità ci sono pervenute statue di figure mitologiche scolpite mentre sono avvolte nel sonno. Un esempio classico è quello di Arianna, addormentata sull’isola di Nasso mentre Teseo sta fuggendo via. Dall’antichità ci sono pervenute anche statue di personaggi maschili dormienti, come Endimione o il Satiro ubriaco. Nel Rinascimento esplodono le figure di Veneri, ninfe e fanciulle addormentate nei boschi, qualche volta da sole, molto spesso spiate da Satiri o da Dei. Molte di queste tele riprendono il mito che narra la storia di Antiope, giovane e bellissima figlia del re di Tebe, Nitteo, re di Tebe. Dopo una cavalcata sul monte Citerone, sorpresa da un temporale, Antiope si rifugia in una grotta; qui, mentre dorme, le si avvicina Zeus, sotto le spoglie di un satiro, che la possiede amorosamente e la lascia incinta.

domenica 20 ottobre 2019

La rugginina



Sempre m’incantò la rugginina
che poggia il suo breve rizoma
nell’arida pietra e sprilla di steli
svettando regina sull’atro castello
e sui vecchi palazzi adombrata
dall’alte cimase incurante
dei fregi barocchi impazziti
di volute, di pietra delirante.

Fosse la natura un vangelo
di cui sbrogliare l’oscura allegoria
piccola felce ti farei segno
di amor disperato e tenace
di una pur scarna esistenza.

Ma la foresta di simboli
fugge la cornice che squadra la follia
dei lezi barocchi. La semenza
porta il vento negli angoli
crepati dall’inutile entropia.
Semmai potrei accordarti
un tenue cenno di sopravvivenza.

venerdì 18 ottobre 2019

Naufragio



Sono lontane da qui le siepi di bosso
e i viali solenni di cipressi.
Non s’ode, da questo tacere scipito,
battere sul marmo la verrina.

Qui giunge a volte un alito di vento
foràneo, che passa quasi inavvertito
sul falbo strame accanto alla pietraia.

Nella notte il marinaio attese a lungo
che il faro gl’indicasse la sua rotta,
nell’onda che mugghia e s’affolta.

Sparsi stamane, tra i ciottoli e la rena,
un po’ di legno, due pale del timone
e una catena tra le valve screpolate.

Sotto questo cielo che s’incaglia
in frastornate quieti, come inebetito
d’azzurro che si volge a sera,
non scorgo riverberi di luce sulla costa.

Solo un volo ferito sulla faglia
prigioniera.

giovedì 17 ottobre 2019

Donne davanti a uno specchio



Esistono centinaia, probabilmente migliaia, di rappresentazioni in cui l'immagine della donna viene sdoppiata in due da uno specchio. Al confronto, il numero di analoghe rappresentazioni maschili è insignificante. L'immaginario figurativo, dunque, ha configurato nei secoli l'identità femminile come doppio, come territorio interpretativo problematico e sfuggente.

Il rapporto della donna con lo specchio si perde nella notte dei tempi. Forse non tutti sanno che il simbolo del femminile, cioè ♀, è la rappresentazione stilizzata della mano della dea Venere che sorregge uno specchio (mentre quello maschile, convenzionalmente rappresentato con il simbolo ♂, è la raffigurazione stilizzata dello scudo e della lancia del dio Marte).
Lo specchio è un oggetto estremamente ambivalente, che si è storicamente prestato ad essere associato a varie attività e situazioni umane, le più disparate: la conoscenza, la magia, il vizio, l’eros, l’introspezione (l’identità e il rapporto con se stessi),  ecc.
I dipinti raffiguranti donne davanti a uno specchio sono migliaia. E’ lecito affermare che si tratti di uno stereotipo iconografico di genere, dato che il numero di  rappresentazioni di soggetti maschili ritratti in relazione con uno specchio è davvero insignificante se paragonato a quello che caratterizza le rappresentazioni femminili.
In genere il soggetto femminile viene mostrato in un interno, di schiena o di profilo, seduto o in piedi.
Queste raffigurazioni abbracciano le epoche e gli stili più vari, e dunque veicolano anche messaggi estetici, culturali e sociali diversi.

mercoledì 16 ottobre 2019

Haruki Murakami



Leggere i romanzi di Murakami è davvero una singolare esperienza dello spirito. Le sue pagine oscillano tra una quotidianità quasi minimalista e una dimensione onirica dal profondo spessore simbolico.

Pochi libri riescono a coinvolgere non solo la mente del lettore, ma anche la sua sfera sensoriale. Questi sono tra quelli. In tutti i romanzi che ho letto c’è prima di tutto una colonna sonora che li attraversa, fatta soprattutto di musica jazz, molto efficace, con la sua raffinata innocenza, nel creare l’atmosfera di straniamento allucinatorio dei personaggi.

"Non lasciarmi" di Kazuo Ishiguro



Ho apprezzato alcuni elementi del libro: lo sforzo dell’ambientazione, che cerca di darci sempre l’impressione di uno spazio costretto, separato, racchiuso, invalicabile oltre che desolato, facendo spesso ricorso a immagini di siepi, reticolati, steccati, paludi, campi incolti e fangosi di contro un cielo grigio ma immenso. L’autore si lascia però sfuggire l’occasione di far decollare la metafora spaziale, per esempio perdendosi in dialoghi di un minimalismo snervante in occasione della visita alla barca arenata nella palude, che invece era suscettibile di uno sviluppo meraviglioso. Va a segno invece il progressivo scadere e farsi sempre più desolato del paesaggio in cui è ambientata via via la storia, a mano a mano che si fa luce nei protagonisti e nel lettore la consapevolezza della verità: dal ridente e verdeggiante (seppure con i suoi angoli ambigui e i boschi lontani e inquietanti) di Hailsham, alla fredda e fangosa campagna che circonda i cadenti Cottages, fino alla desolazione di Kingsfield.

"Pastorale americana" di Philip Roth



Questo libro è al tempo stesso spietato e pregno di pietà e di umana comprensione. E’ la storia di un uomo che, gradatamente e drammaticamente, acquista la consapevolezza di come tutto intorno a lui sia solo ipocrita finzione, dissimulazione, date dalla volontà di “normalizzare” il caos, di dare ordine al disordine; di come l’umana civiltà sia solo una maschera che malcela la violenza e l’animalità latenti ad ogni livello, dall’animo umano alla struttura di una comunità e di uno Stato. E’ la presa di coscienza di un uomo, ma al tempo stesso l’acquisizione di un giudizio storico su un’intera nazione, che ha fatto dell’aggressività imperialista il suo tratto distintivo. Le regole e le istituzioni della civiltà, dalla famiglia all’impresa, non sono altro che imperfette dissimulazioni della violenza e dell’aggressività originarie e, di fronte allo scoppio di quella violenza, l’individuo che ha passato la vita ad allevare il “sogno americano” di felicità, benessere e armonico progresso, si ritrova impreparato e impotente.

"L’amore ai tempi del colera" di Gabriel Garcia Marquez



Diciamo subito una cosa: questo libro parla di amore, ma non è un libro di amore. Non si tratta di una storia romantica, ma di un pretesto narrativo per raccontare dei vari modi di concepire e vivere l’amore ai tempi del colera, cioè in quel periodo, a cavallo tra XIX e XX secolo, che anche in Europa è considerato il periodo della Decadenza, del disfacimento etico, sociale oltre che epistemologico, dei valori e dei sistemi elaborati in precedenza. Nel libro il senso di dissoluzione è reso soprattutto dalle descrizioni dello stato di sporcizia delle strade e dei quartieri malsani della città, del degrado del porto, del fiume e delle sue sponde. Tutto ciò fa da cornice a una storia che ha dell’incredibile: la decisione da parte di un uomo, Florentino Ariza, di aspettare per tutta la vita la donna amata fin dall’adolescenza, sposatasi nel frattempo con un uomo di un ceto sociale superiore. Già dalle prime pagine sappiamo che ciò accade effettivamente. Dopo più di cinquanta anni di attesa, troviamo Florentino in casa della donna amata, rimasta da poco vedova, a rinnovarle il suo sentimento e la sua fedeltà. E finalmente, dopo tanta attesa, riuscirà a realizzare il suo sogno, vivendo in vecchiaia, su un battello che percorre su e giù il grande fiume, l’amore con Fermina Daza, un amore senza nessun tipo di vincolo, slegato dalle convenzioni del matrimonio o dalla rigidità delle regole sociali, un amore ridotto alla sua essenza:

Eugenio Montale, "Portami il girasole"



Se è vero che la dimensione che domina gli Ossi di seppia è quella della negatività, dell’inutilità (e il titolo stesso richiama a cose morte, inaridite), della constatazione dell’impotenza dell’uomo, della sua angoscia esistenziale, bisogna aggiungere che si tratta di una negatività dialettica: che, cioè, non esclude l’esistenza della positività verso la quale, in un susseguirsi di sforzi, votati però allo scacco e alla sconfitta, il poeta tende, senza abbandonarsi tuttavia a facili sentimenti consolatori, ma sempre con stoica dignità e rigorosa consapevolezza. Questo è visibile tutte le volte che il poeta parla dell’ansioso tentativo di trovare un varco, una via di salvezza.
Il girasole è simbolo di questa tensione dinamica verso l’altrove, verso una trascendenza evanescente. Tutta la poesia rende il senso di un movimento dal basso all’alto, dal concreto corporeo all’etereo impalpabile dell’aria e della musica, dall’aridità del “terreno bruciato dal salino” alle “trasparenze del cielo”.

È strano come spesso, nell’ore estreme del giorno

Minor White

È strano come spesso, nell’ore estreme del giorno,
le cose avanzino mutate:
nella penombra assorta della sera,
quando acquetate son le voci nelle strade,
o nel chiarore incerto dell’aurora,
prima che s’apra trionfante il mattino.

Pare, a volte, nel silenzio, che il mondo sia vicino
a penetrarti il cuore, che un gesto del ramo o la sortita
improvvisa del rapido rondone dal suo muro
sia segno che addita spazi nuovi dietro l’atmosfera.

Poi una radio s’accende, un clacson lontano…
una mosca si dibatte nella calda plafoniera.

La cattiva sirena



Per tutta la notte il mare aveva continuato a muggire e a scagliare le onde torbide di alghe e di schiuma sulla spiaggia sconfinata. Sebbene l’estate fosse alle porte, il sole stentava a riscaldare l’aria impregnata di salsedine e di quegli odori che il mare aveva liberato dalle sue viscere. Il cielo, grigio e livido, era così basso da confondersi con la cupa distesa liquida. Il forte vento faceva svolazzare le bandierine dei chioschi e degli stabilimenti balneari che si susseguivano ordinati, con le lunghe file di ombrelloni chiusi come tristi soldatini in rivista mattutina. Sulla battigia, qualche medusa spiaggiata si scioglieva in rosea gelatina. Un gabbiano sorvolava la piccola insenatura prospiciente alla “Bussola d’oro”, il primo della lunga fila di stabilimenti in località Torre del Saraceno. Con le ali spiegate e immobili, secondava le correnti ascensionali, trovando la propria rotta grazie a piccoli movimenti della coda.

lunedì 14 ottobre 2019

Il velo delle donne


Il velo, usato in passato per coprire la testa delle donne, nel Novecento aveva esaurito ogni valenza simbolica, che rimaneva riservata solo ad alcune occasioni o ad alcune tipologie (il velo in occasione del matrimonio, il velo delle suore, ecc.).
Era diventato semplicemente un foulard, un accessorio di abbigliamento sottoposto alla volubilità della moda.
Ora, di colpo, è tornato a ricaricarsi di simbologie in grado di innescare pericolose contrapposizioni culturali e religiose.
Forse, andare un po' a ritroso nella storia iconografica dell'Occidente e indagare questo fenomeno culturale e di costume che ha caratterizzato anche il nostro passato, può servire a recuperare uno sguardo più disteso su questo oggetto diventato così controverso.


Oggi fa gran discutere ed è oggetto di aspre polemiche, riferite in particolare al velo indossato dalle donne islamiche. Leggiamo continuamente opinioni e dichiarazioni in cui appare palese come questo accessorio, spesso niente di più che un innocuo e leggero foulard, crei accese dispute, susciti timori, opposizioni e reazioni persino scomposte.
Ma questo capo di abbigliamento non appartiene unicamente alla religione musulmana. Esso ricopre la testa delle donne da millenni, nelle più diverse aree geografiche e culturali.
Prima affermazione da fare intorno a questo oggetto: il velo non ha un’unica connotazione, ma costituisce un oggetto polivalente, il cui significato e la cui funzione dipendono dal contesto in cui viene usato. Il velo sulla testa delle antiche vestali, infatti, non ha lo stesso significato di quello che oggi indossano le suore o le spose sull’altare.

sabato 12 ottobre 2019

Progetto Monades



Stava calando la nebbia sul pomeriggio di quella grigia giornata di fine ottobre. I raggi di un sole malato proiettavano stanche ombre sul freddo marmo delle guglie, degli archi e delle statue del Duomo, che si innalzava nella piazza simile a un gigantesco ologramma tridimensionale, proiettato lì per far convivere nello stesso spazio due diversi mondi temporali. Tutt’intorno si ergevano, come imponenti sentinelle, enormi edifici in vetro oscurato e acciaio, che sembravano inghiottire anche la luce.
Escher, in cima alla terrazza più alta del Duomo, girò lo sguardo a centottanta gradi. Aveva voluto salire fin lì per guardare dall’alto la città, per cercare di placare la continua ansia che lo attanagliava, con la visione delle mura e dei bastioni che circondavano la metropoli. La foschia però gli impediva di avere un’immagine nitida; volse lo sguardo a sud, dove s’intravedeva il profilo malfermo di una delle quattro torri più alte, quelle che controllavano i punti cardinali. Quella visione non riusciva ad attenuare minimamente la sua inquietudine e, quando un improvviso alito di vento lo fece rabbrividire, provò una specie di vertigine e si sentì come un animale braccato che sta per essere ghermito da un predatore alato. “Loro” erano là, oltre quelle mura e prima o poi avrebbero sferrato l’assalto. Era solo questione di tempo. La città si preparava all’assedio. Un nuovo brivido gli acuì il senso di minaccia. Per un attimo gli si appannò la vista e vacillò. Tutt’intorno era una danza ondeggiante di guglie, statue e archi rampanti. Trattenendo la nausea, si avviò verso l’ascensore, deciso a ridiscendere giù.

Il destino




Jean Michel gettò un altro pezzo di legna nel fuoco morente e si fregò le mani, cercando di scaldarsele col fiato. Un lieve soffio di vapore uscì dalla sua bocca.
«Dannazione, che freddo! Sembra la notte del Giudizio».
Fuori imperversava una bufera di neve, la prima nevicata della stagione. Il bosco era una massa informe e dolorante sotto le sferzate del vento, una nebulosa scura e palpitante, come se rifiutasse di indossare il mantello bianco e gelido che la neve gli stava posando addosso. Ad un tratto un ululato acuto, vicino, echeggiò nell’aria. Era stato il vento o un vero lupo? Il vecchio pastore Bastian non lo aveva forse avvertito della presenza di lupi in quella zona?
Come se non bastasse una violenta folata di vento spalancò la finestra. Fortunatamente la scrivania era proprio lì accanto e fece in tempo a posare un pesante fermacarte a forma di testa di civetta sui fogli dattiloscritti, accanto alla macchina da scrivere. Poi richiuse la finestra.
«Prima o poi devo far riparare questa serratura logora».

Le foto di Iole



Iolanda è una vecchina di 89 anni, e tutti là dentro la chiamano Iole. Ha un visetto magro, sotto una specie di caschetto bianco.
Esco dall’ascensore, al primo piano della residenza Villa Serena, e me la trovo davanti. Anche se mi dà le spalle, la riconosco subito per via dei pantaloni di velluto rosa e della giacca di lana bordeaux. Cammina lentamente, con le braccia che le scendono indolenti sui fianchi. Ma le mani no, quelle non stanno mai ferme. Le dita sottili, anche se un po’ deformate dall’artrosi, seguono movimenti simmetrici, in perfetta sincronia. Non vedo il suo volto, ma sono sicura che sta parlando a bassa voce. Accelero il passo e le sono davanti. Sulla soglia della camera di mia zia, mi giro e la guardo. Eccolo il suo visetto roseo, come il velluto dei pantaloni. Parla e sorride. Come sempre.

venerdì 11 ottobre 2019

Diane Arbus, la fotografa dei “monstre”



Abstract:
Gran parte dell'arte e della fotografia moderna si è sforzata di abbassare la 'soglia del terribile', cioè di ciò che era considerato insopportabile allo sguardo, perché troppo doloroso, scandaloso o imbarazzante.
La fotografia di Diane Arbus ha sicuramente contribuito a inserire nell'immaginario collettivo la figura del monstre, emancipandola dalla cornice spettacolare o medico-scientifica dell'Ottocento, abituando il nostro sguardo alla visione della deformità, del corpo fuori dal normale.
Ma le sue fotografie restano sempre su una soglia ambigua: quella dello sguardo di questa fotografa sensibile e nello stesso tempo timida e riservata, che si sforza di stabilire un'empatia e di costruire una familiarità con i suoi soggetti e che tuttavia non riuscirà mai ad entrare veramente nel loro mondo, rimanendone sempre all'esterno, come alla vetrina di un mondo - per usare le sue parole - "pazzesco e incredibile".


Diane Arbus è conosciuta come la fotografa dei freaks, cioè di persone fisicamente abnormi, considerate dei fenomeni da baraccone. Il monstre della tradizione. E tuttavia questa è senza dubbio una formulazione riduttiva, perché la Arbus ha avvicinato altre tematiche e altri soggetti, anche se tutti appartenenti all’universo della marginalità. Nonostante ciò, i freaks occuparono di fatto un posto molto importante nell’opera di questa fotografa; con loro inaugurò l’iconografia per la quale è oggi conosciuta ed è a loro che non cesserà di rivolgere il suo interesse per tutta la vita.
La sua fotografia, da questo punto di vista, segna uno spartiacque in quanto rivoluziona la maniera di rappresentare questi soggetti. Lo sguardo che modella i suoi scatti, infatti, trasforma i freaks da “fenomeni da baraccone” in esseri singolari. Che si tratti di travestiti, di prostitute, di transessuali, di nani o giganti, tutti ci appaiono richiamati da quello sguardo alla propria irriducibile individualità.
Questo invito alla singolarità di ognuno non esclude, certo, la fascinazione sentita dalla fotografa per la loro abnormità: “I “fenomeni” sono qualcosa che ho fotografato a lungo. Sono stati una delle prime cose che ho fotografato e sentivo una specie di terrificante eccitazione. Ero abituata a adorarli. Ancora oggi adoro alcuni di loro. Con ciò non voglio affermare che essi siano i miei migliori amici, ma essi mi fanno sentire un insieme di vergogna e soggezione. In loro c’è come una qualità di leggenda. Come una persona in una fiaba che ti ferma e ti chieda di rispondere ad un indovinello. La maggior parte delle persone attraversa la vita temendo d’avere esperienze traumatiche. I “fenomeni” sono nati con i loro traumi. Essi hanno già superato il loro test nella vita. Essi sono aristocratici”.

La nuca delle donne



Questo è un collage anomalo, in quanto prende in considerazione, quasi per la totalità, le opere di soli tre autori, realizzate nei primi anni del Novecento. Si tratta dei pittori Vilhelm Hammershøi, Carl Vilhelm Holsøe e Peter Ilsted, considerati i massimi esponenti dell’arte d’interni danese.
Mentre in tutta l’Europa le prime avanguardie sconvolgono totalmente il modo di concepire e fare pittura, scomponendo e frantumando colore, prospettiva e soggetti rappresentati, Hammershøi e gli altri non fanno che dipingere i loro soggetti preferiti, in particolare le stube, le stanze silenziose della propria casa, all’interno delle quali sostano personaggi femminili, che sembrano sospesi in una sorta di incantesimo.
Gli interni di Hammershøi sono per lo più spogli, disadorni e immacolati, caratterizzati da un minimalismo e da una severità impregnati di rigore protestante: pochi mobili, pochissimi quadri alle pareti, porte rigorosamente bianche. Il soggetto ricorrente dei suoi dipinti è la moglie Ida, una donna vestita in austeri abiti neri, rappresentata quasi sempre di spalle.

domenica 6 ottobre 2019

Madri e figlie



Nel Seicento, mentre in Italia e in altri regioni europee impazza lo stile barocco, spettacolare e teatrale, in terra fiamminga, dove la riforma protestante aveva abolito le immagini di culto, si diffondono al contrario sobrie scene di interni borghesi. L’interno della casa è il mondo abitato soprattutto dalle donne ed è il luogo della pace e della serenità domestica.
Molto spesso nella scena sono presenti una mamma, in genere seduta, e la sua bambina. Il dato caratteristico è appunto questo: si tratta per lo più di figlie femmine.
Questa iconografia si afferma e arriva fino al secolo scorso, con diverse varianti. Nella scena, ad esempio, compare spesso una culla, all’interno della quale dorme placidamente un bambino neonato, mentre madre e figlia vegliano accanto. In altre rappresentazioni, il bambino è in braccio alla madre, la quale sembra voler coinvolgere la figlia nell’accudimento. In altre ancora, la madre è seduta a cucire e ricamare e la figlia siede su una piccola seggiola accanto a lei, oppure (nelle rappresentazioni più recenti) sono una accanto all’altra e giocano o leggono insieme.
Insomma, la casa borghese è il luogo delle donne, delle madri e delle figlie. Il luogo in cui le bambine sono educate ad essere future mogli e madri. Questa cornice di segregazione caratterizzerà la rappresentazione prevalente del binomio madre-figlia per lungo tempo.

venerdì 4 ottobre 2019

La Maddalena e il teschio



L’iconografia prevalente della Maddalena (qui) ce la presenta come la penitente dai lunghi capelli, ritratta in preghiera, accompagnata in genere dal vasetto di unguento profumato e dall’oggetto simbolo di memento mori per eccellenza, il teschio, legato al tema della vanitas.
Il teschio è qualche volta semplicemente accanto alla donna, ma il più delle volte è in una posizione più intima. La Maddalena, spesso, posa il palmo di una mano su di esso, oppure lo regge con entrambe le mani di fronte al proprio viso. Altre volte il macabro oggetto è appoggiato sulle sue ginocchia, mentre la donna posa le mani serenamente intrecciate sopra di esso, in un atteggiamento di quieta familiarità, oppure se lo stringe in grembo o al seno, che è per lo più scoperto, in un atteggiamento di grande drammaticità, ma anche di notevole sensualità.
Questo collage ha focalizzato l’attenzione proprio su queste ultime varianti dell’iconografia, che si impone a partire dal Cinquecento e ha la sua apoteosi nell'età barocca. Come si può notare, la Maddalena penitente è esplicitamente caratterizzata nei suoi elementi sessuali. È raffigurata quasi sempre a seno nudo, con lunghi e sensuali capelli e giovane e luminosa carnagione, un’immagine che sembra destinata più al godimento degli occhi che al fervore devozionale.

lunedì 30 settembre 2019

La schiena nuda delle donne



Un altro stereotipo che ho riscontrato nella rappresentazione pittorica (e fotografica) della donna: il soggetto femminile viene mostrato in un interno, generalmente una camera da letto, seduto di schiena (ci sono anche le versioni "distesa" e "in piedi") e con il corpo nudo o appena ricoperto da un lenzuolo dalla vita in giù.
I quadri composti in questo collage sono solo alcuni delle centinaia di esempi realizzati nel corso soprattutto degli ultimi due secoli, selezionati per la loro omogeneità figurativa. Molte altre varianti, che non sono state incluse in questo collage, mostrano il corpo della donna ruotato a destra o sinistra o inclinato.

Vale la pena elencare alcune osservazioni:

- non esiste un corrispettivo iconografico maschile (o comunque è molto limitato, del tutto irrilevante rispetto alla mole spropositata di rappresentazioni di soggetti femminili). Può, pertanto, concludersi che questo stereotipo si caratterizzi per una connotazione di genere.

sabato 28 settembre 2019

Gli specchi di Duane Michals

Duane Michals, Alice's Mirror , 1974.

Questa sequenza si intitola Alice's mirror ed è di Duane Michals. Come già in Things are queer, anche qui l'obiettivo di Michals è di dimostrare un assunto di base della sua posizione filosofica: la fotografia non riesce a cogliere la realtà. Per assolvere l'obiettivo è consapevole che non basta una sola immagine; occorre una serie ordinata. E anche in questa sequenza, come nell'altra citata, il racconto esprime non un accadere lineare ma uno sguardo che si distanzia, e man mano che si allontana rivela la fallacia della percezione dell'immagine precedente.
Così si sviluppano entrambi questi lavori di Michals: ogni frame della serie nega e riconfigura quello precedente. L'immagine si definisce in quanto rigetta se stessa, abolendo i propri confini e trasformandosi in pensiero.

martedì 24 settembre 2019

Sguardi senza uscita


Se la donna, ripresa di schiena presso una finestra, veniva proiettata dallo sguardo del pittore verso un altrove, sospinta oltre l'ambiente chiuso della casa in direzione dell'infinito, sebbene solo un poco intravisto, guardata da lontano come incarnazione del desiderio di essere "oltre", le donne bloccate presso queste finestre racchiudono e generano emozioni ben diverse.
L'inquadratura, quasi sempre laterale, le inchioda di profilo, o al massimo di tre quarti. Sono sedute, ma non svolgono alcuna attività; il loro corpo trasmette una sorta di apatia e passiva rassegnazione. Il loro sguardo qualche volta cerca l'esterno, ma il più delle volte è assente, rivolto verso un punto indefinito o perso in un vuoto interiore. La loro è una pura presenza fisica, in quanto il loro mondo interiore rimane del tutto inaccessibile.
Sono circondate da un silenzio estremo, quasi metafisico, che rivela un malessere latente.
Il più delle volte hanno un volto inespressivo; la loro postura emana un senso di malinconia e di solitudine, spesso anche di alienazione, intesa come condizione di estraneità e di disinteresse per la realtà circostante.

lunedì 23 settembre 2019

Autoritratti allo specchio. Uno strano rapporto a tre


L'autoritratto allo specchio è un'azione che si sviluppa dalla relazione fra tre soggetti: l'uomo, la macchina fotografica e lo specchio.

Gli autoritratti fotografici allo specchio si possono dividere in tre gruppi.
Il primo comprende quelle fotografie in cui è visibile il soggetto con la macchina, ma non la cornice dello specchio. Si tratta, pertanto, di immagini un po' ambigue. E' lo spettatore che deduce la presenza dello specchio, sebbene la sua superficie costituisca il contenuto dell'immagine. In questo tipo di fotografie, nonostante la presenza della fotocamera che svela l'atto di produzione, predomina l'espressione identitaria del soggetto. L'inquadratura è troppo ristretta, per cui non si percepisce alcuna frattura spaziale.

Maschere senza volto. I ritratti in serie di Andy Warhol

Andy Warhol. Untitled from Marilyn Monroe. 1967

Con Duchamp si realizza il pieno rifiuto dell’arte come rappresentazione: artistico non è il gesto che riproduce l’oggetto sulla tela, ma quello che preleva l’oggetto dal contesto quotidiano e lo riposiziona. Tuttavia, ciò che per Rosalind Krauss segna il transito dal moderno al post-moderno, è un passaggio ulteriore: la moltiplicazione dell’oggetto in più copie. Nella ripetizione in serie si consuma definitivamente il superamento della concezione di originalità dell’opera d’arte che ancora pervadeva le avanguardie storiche, compreso il Dadaismo (Duchamp, infatti, nell’atto di ricollocarlo, firma e titola l’oggetto, distinguendolo dagli altri simili). Ed è ciò che accade con la Pop Art.
L’arte della Pop Art, e quella di Andy Warhol in particolare, abolisce definitivamente la distinzione tra arte e vita e crea l’iconografia della moderna civiltà dei consumi di massa, trasformando in icone vere e proprie gli idoli della società americana, sia quelli commerciali che quelli mediatici, in quanto entrambi oggetti di desiderio e di consumo.

domenica 22 settembre 2019

Di spalle, guardando oltre i vetri



L'iconografia della donna alla finestra è molto varia e complessa.
A partire dal Romanticismo diventa frequente la rappresentazione delle figure di schiena (Rückenfigur), il cui sguardo cerca l'infinito. Nella pittura romantica la finestra diviene una soglia protesa verso l'altrove.
Parole ricorrenti sono “nostalgia” ed “esilio”. L’artista sente in modo drammatico il distacco dalla realtà quotidiana e la tensione nostalgica verso la natura come luogo di unione con l’assoluto. Nei dipinti la finestra è la soglia verso un altrove misterioso, l’infinito cui il romantico anela; è una soglia “immaginifica” alla quale si affacciano figure solitarie che guardano a un mondo esterno affascinante e terrificante, agognato e temuto al tempo stesso. La donna alla finestra di Friedrich  è di spalle, indifferente alla nostra presenza, totalmente immersa nella contemplazione di ciò che è fuori. Proprio questa posizione accentua la tensione visiva tra interno e mondo esterno, dandoci la sensazione di un personaggio che vuole immergersi e fondersi con il mondo infinito oltre la finestra. Ignoriamo il suo viso, il suo mondo interiore si concentra nella sua figura di schiena. Il nostro sguardo non può scrutarla, può solo immedesimarsi in lei e fare propria la stessa malinconica tensione verso l'assoluto.

martedì 17 settembre 2019

L’impronta blu. Yves Klein e il corpo come “pennello vivente”

Yves Klein, ANT 82, Anthropométrie de l'époque bleue, 1960

Negli anni Cinquanta del secolo scorso il corpo è materia espressiva di alcune esperienze artistiche, ma non come oggetto di rappresentazione, bensì come soggetto in azione; non all’interno della tela, ma al di fuori di essa. Ne sono esempi l’action panting di Pollock, le performance di Saburo Murakami (At One Moment Opening Six Holes), che si esibisce perforando di corsa con il proprio corpo una fila ordinata di schermi di carta fissati ad un’intelaiatura di legno, i rotolamenti nel fango di Kazuo Shiraga (altro artista del Gruppo Gutai50) in una lotta del corpo contro la materia.
L’artista francese Yves Klein utilizza il corpo come un pennello umano mentre Piero Manzoni, realizzando le Sculture Viventi, eliminerà completamente la superficie pittorica e trasformerà il corpo della modella in un’opera d’arte vera e propria, firmandolo e facendone una sorta di ready-made umano (firmerà anche personaggi famosi, come Umberto Eco). Il ruolo della modella, in queste esperienze, cambia in modo rilevante: il suo corpo non viene fatto oggetto di rappresentazione, più o meno realistica, ma diviene parte attiva. E il corpo in genere non viene più considerato come mero contenuto dell’opera, ma come mezzo espressivo.