domenica 20 dicembre 2020

L'occhio e l'obiettivo

Man Ray (Emmanuel Radnitzky). Still from Emak Bakia. 1926 -


Nelle immagini prodotte negli anni Venti e Trenta è possibile riscontrare il ruolo centrale attribuito all’occhio umano, in particolare a quello intento a fissare lo spettatore. Una ricorrenza, d’altra parte, concettualmente conforme alla filosofia della Nuova Visione, della quale emerge l’idea basilare, cioè una concezione nuova del mezzo fotografico e del suo rapporto con l'occhio e la mano. Il ruolo della mano e del gesto manuale, in quanto responsabile del processo di creazione dell’immagine pittorica, lascia il posto a quello dell’occhio, quello umano e quello macchinico, legati da un legame analogico. Questa analogia tra l’occhio e l'obiettivo risale al XVII secolo, quando venne elaborata in relazione alla camera oscura, il cui meccanismo imita quello della visione umana (la lente della camera è equivalente a quella dell'occhio).

sabato 19 dicembre 2020

Schermi e fantasmagorie

Athanasius Kircher, Ars magna lucis et umbrae, 1646

Per comprendere la natura dell'immagine proiettata sullo schermo occorre ricostruirne la storia, rilevando come le sue origini siano caratterizzate da un aspetto: la connotazione di questo tipo di immagini come 'apparizioni' ("apparizione" è il significato del termine greco φάντασμα, Phàntasma), nonché come illusioni ottiche.

La pratica di proiettare immagini risale alla notte dei tempi. Ma, il dato curioso è che le prime immagini note per essere state proiettate attraverso strumenti come le lampade di proiezione o le camere oscure erano figure rappresentanti la Morte e l'inferno, scheletri, fantasmi, diavoli e mostri, all'interno di cerimonie di negromanzia o di invocazione di spiriti.

mercoledì 2 dicembre 2020

Le grandi occasioni

Katrin Koenning, from Successions

Se solo tutti sapessero
quale ferita esploda nell'universo
ogni volta che si dice "io",
quale strappo perverso sopporti
il firmamento, come si adombri
il luccichio delle stelle
prima che collassi e si rapprenda.

E come si scateni il vento
solare che disperde ogni figura
che fanno i pianeti, quale orrenda
fenditura nell'argento della luna.

venerdì 13 novembre 2020

Refik Anadol. Le nuove frontiere del visibile per un nuovo sentimento del sublime

Refik Anadol, Melting Memories, 2018

 
I data come 'materia' per fare arte

C'è chi fa arte scolpendo il marmo o il legno, chi utilizza colori e pennelli, mentre l'arte del Novecento ci ha abituato all'utilizzo dei materiali più disparati. Ma, siccome l'arte va di pari passo con la tecnologia (si pensi cosa significò, ad esempio, l'invenzione della fotografia e del cinematografo) nessuna meraviglia se oggi c'è chi fa arte utilizzando una materia del tutto immateriale e impalpabile come i database. E come l'invenzione delle immagini meccaniche non determinò la morte dell'arte, ma anzi significò un potenziamento delle possibilità di espressione artistica e di visione, così possiamo essere sufficientemente convinti che anche queste nuove tecnologie stiano andando nella stessa direzione, conducendoci verso linguaggi nuovi, a volte sconvolgenti e lontani dal concetto di opera d’arte intesa in senso tradizionale. Già la fotografia e il cinema, e relative propaggini, ci hanno nel tempo reso avvezzi all'idea di poter fare arte con l'aiuto di tecnologie sempre più sofisticate, che riservano alle macchine un ruolo sempre più consistente. Probabilmente lo scoglio più grande da superare rispetto all'utilizzo dell'intelligenza artificiale è la comune percezione della parte preponderante ed autonoma esercitata dagli algoritmi nella creazione di immagini, mentre il ruolo dell'artista si limiterebbe alla programmazione, cioè alla implementazione di codici astratti e numerici.

giovedì 5 novembre 2020

Reperti

Ercolano 2007 – Amazzone © Mimmo Jodice


Ho sollevato il telo
dal sito degli scavi
per scoprire il reperto.
Un putto bianco, di gesso
con i cavi nel fianco
ed un dito perduto.
Un deserto il suo occhio
perplesso, non vede 
la mia mano accanto
ed è muto.

mercoledì 4 novembre 2020

Il paradosso dell'arte del Novecento

Yves Klein, Le Vide, 1958

Quando si cerca di fare chiarezza in merito a certe questioni riguardanti la materia dell'arte, è più facile che si approdi a nuovi interrogativi, piuttosto che arrivare a qualche forma di certezza. Se si cerca di comprendere, infatti, uno degli aspetti caratteristici dell'arte del Novecento si rischia di imbattersi nel seguente paradosso: da una parte la tesi, che riprende la profezia di Hegel, della morte dell'arte, dichiarata in base alla presa d'atto della perdita, da parte di quest'ultima, della sua autonomia, in quanto sconfinante nella filosofia; dall'altra parte la dichiarazione dell'autoreferenzialità dell'arte contemporanea, cioè della sua totale distanziazione dal mondo empirico per concentrarsi solo su se stessa, rivendicando la propria autonomia di linguaggio che ha in sé le ragioni del suo essere, che si caratterizza come focalizzazione sul significante anziché sul significato. Da una parte, dunque, l'arte avrebbe perduto la sua autonomia divenendo teoresi - e perciò altro da sè -, dall'altra l'arte avrebbe acquisito totale autonomia confinandosi nella sua dimensione linguistica, divenendo meta-arte.

domenica 1 novembre 2020

Simbolo e Sintomo


In Davanti all'immagine (Mimesis 2016) Didi-Huberman sviluppa il concetto di sintomo riferito alla fruizione e allo studio dell'arte.

Egli afferma che l'immagine occidentale è agitata da un lavoro che oscilla tra due opposte tensioni: la visione da una parte e la lacerazione dall'altra, l'interpretazione dei significati e la scoperta dell'inintelligibile. La lettura e il trauma.

L'immagine contiene insomma, al contempo, simboli e sintomi.

sabato 31 ottobre 2020

L'immagine come rappresentazione. Mimesi ed eccedenza del simbolo

Remedios Varo, La Despedida, 1958.

La domanda primaria, che spesso lasciamo sullo sfondo, è: che cos’è un’immagine? L’interrogativo è tanto semplice quanto difficile è trarne delle risposte. Prima di avventurarci brevemente su questa strada, viene avanti una considerazione:  le immagini sono nate con l’uomo. Il suo modo di rapportarsi con il mondo e di concepirlo passa inevitabilmente attraverso la costruzione di immagini, siano esse materiali o mentali. Le immagini sono al centro delle sue facoltà percettive ed espressive. Il ricordo, la memoria, il pensiero, l’immaginazione, l’espressione e la comunicazione fanno uso di immagini, eppure risulta difficile trovare una definizione che ne fissi il concetto in modo stabile. I tentativi nel corso della storia sono stati e continuano ad essere numerosi. Provando a districarsi nella miriade di teorie proposte inevitabilmente si ha l’impressione di essere su un terreno insidioso o di perdersi all’interno di labirinti in cui l’oggetto che si rincorre resta fuggevole e inarginabile.
Jean-Jacques Wunenburger così apre la sua Filosofia delle immagini (1999): “Possiamo chiamare convenzionalmente immagine una rappresentazione concreta, sensibile (a titolo di riproduzione o copia) di un oggetto (modello referente), materiale (una sedia) o concettuale (un numero astratto), presente o assente dal punto di vista percettivo, e che intrattiene un tale legame col suo referente da poterlo rappresentare a tutti gli effetti e consentirne così il riconoscimento e l’identificazione tramite il pensiero.”

martedì 27 ottobre 2020

Novembre



Novembre si avvicina
col suo ciglio ombroso
e il passo umido e incerto.
Non si sciolse del tutto
la brina dell'inverno passato.
Sarà terreno fecondo
per una coltura all'aperto
di biglie dal manto laccato
sullo sfondo carnoso del mare.

lunedì 26 ottobre 2020

Pillole di teoria dell'immagine. Pictorial Turn

Scuola Italiana del XVII secolo, Allegoria della Pittura


Pictorial TurnIconic Turn, Bildwissenschaft, Visual Culture Studies, sono termini che vediamo e leggiamo spesso. Ma, cosa sono?

Intorno alla natura dell'immagine e della visione dibattono da sempre numerose discipline.
La filosofia, fin dalle sue origini, e negli ultimi decenni con vari approcci (da quello trascendentale a quello fenomenologico a quello ermeneutico). Ma, soprattutto nel secolo scorso, tanti sono gli ambiti del sapere che hanno cominciato a riflettere sullo statuto di questi oggetti problematici: la semiotica, la psicologia e le neuroscienze, le scienze cognitive. Anche perché, nel frattempo, e soprattutto dagli anni Novanta, la quantità di immagini aveva cominciato ad incrementarsi a livello esponenziale, grazie alla diffusione di nuove tecnologie e di nuovi strumenti di produzione, di riproduzione e di diffusione di oggetti visuali, i quali sono andati acquisendo una centralità storicamente inedita.
Ed è proprio negli anni Novanta che avviene quella che è conosciuta come svolta iconica (ikonische Wendung, in area tedesca e pictorial turn, in area anglo-americana). Questa espressione fa riferimento a un modo diverso di intendere le rappresentazioni visuali, che in un certo senso ribalta il linguistic turn, cioè la tendenza, da parte delle teorie afferenti o derivanti dal poststrutturalismo, a considerare ogni produzione segnica come un testo, e cioè riconducibile a un discorso (Logos). 
Il pictorial turn ribadisce piuttosto la peculiarità degli studi visuali e richiede un cambiamento epistemologico che pone lo studio delle immagini sullo stesso piano di quello del linguaggio. Si parla di svolta iconica per sottolineare, in particolar modo, il grande effetto che oggi le immagini determinano sulla stessa antropologia dell'Homo sapiens, una constatazione che impone l'impianto di studi appropriati del visuale, di una 'scienza delle immagini' non riducibile alle discipline che si occupano delle analisi linguistiche e testuali.

venerdì 23 ottobre 2020

Diario delle distanze

Vilhelm Hammershøi, Interior from the Home of the Artist


E così ritornò la paura
di respirare il nemico 
che non si vede.
Di guardarci misurando le distanze
del pericolo e della cura,
dell'aria che non cede.
Gli occhi reclamano il primato
in questi tempi in cui vietato
è il tocco 
e ogni abbreviatura.

sabato 17 ottobre 2020

Contributo per orientarsi nello studio della fotografia

Elina Brotherus, Artist and Model Reflected in a Mirror 1, 2007

È difficile orientarsi nell'ambito degli studi sulla fotografia. Proverò ora un'ardita semplificazione, con funzione di fornire una schema di orientamento tra le varie e innumerevoli teorie.

La pratica fotografica coinvolge sostanzialmente tre elementi: l'autore (lo chiamiamo Soggetto), la macchina (cioè il dispositivo fotografico) e ciò che viene fotografato (lo chiamiamo Oggetto).

A questi tre elementi ne aggiungiamo un quarto, il Ricevente, cioè il fruitore della fotografia.

Ora, dal punto di vista delle trattazioni teoriche, le posizioni sono sempre molto complesse e variamente articolate. Tentando tuttavia la semplificazione annunciata, possiamo suddividerle in quattro gruppi:

- teorie che privilegiano il ruolo del Soggetto.

- teorie che privilegiano il ruolo dell'Oggetto.

- teorie che privilegiano il ruolo del Dispositivo Fotografico.

- teorie che privilegiano il ruolo del Ricevente.

sabato 3 ottobre 2020

Elina Brotherus. Autoritratti nel paesaggio

Elina Brotherus, Annonciation 30, Last one in my line, 2012


V. IL CORPO POST-UMANO

VI. AUTORIFLESSIONE
- Elina Brotherus. Autoritratti nel paesaggio
- Francesca Catastini
- Petra Collins e il selfie

L’indagine fotografica di Elina Brotherus, artista di origini finlandesi, si muove tra due poli: autoritratti altamente autobiografici da una parte e studi storico-artistici dall'altra. E di questa continua oscillazione tra arte e vita è testimone il fatto che utilizzi quasi sempre se stessa come modella. In alcune serie (Suites Françaises, 12 ans après, Annonciation, Carpe Fucking Diem), consistenti in autoritratti, fotografie di paesaggi e di interni con lei protagonista, esegue delle esplorazioni autobiografiche, attraverso motivi legati alla sua vita personale: un matrimonio fallito, un divorzio e il senso di abbandono, l'integrazione in un paese straniero, il suo desiderio insoddisfatto di maternità (Annonciation). Mette in scena eventi che ha vissuto, rendendo le fotografie estremamente personali, rivelatrici e coraggiose. Ma c'è anche il desiderio di parlare della condizione umana e di fornire agli spettatori uno schermo vuoto, una superficie su cui proiettare i propri sentimenti e desideri. 

venerdì 2 ottobre 2020

Autoritratti allo specchio o in ombra. Vivian Maier


CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

IV. IL CORPO POST-UMANO


Vivian Maier scattò molti autoritratti, ma lei non li condivise mai con nessuno. La sua ricerca personale, per le strade d’America e del mondo, fu del tutto solitaria. Non stampò la maggior parte dei suoi rullini, ritrovati in modo fortuito da un agente immobiliare e collezionista di Chicago, John Maloof, poco prima che lei morisse in solitudine, sconosciuta al mondo (nel 2009).

Per scattare i suoi autoritratti si serviva spesso di superfici riflettenti: specchi presenti per strada, nei bagni pubblici, nelle vetture di un tram; specchi fortuiti, posti tra le cianfrusaglie ammassate sul carretto di un rigattiere; e poi vetrine, finestre, perfino cerchioni di ruote cromate: insomma tutte le superfici, che le capitassero a tiro, in grado di restituirle la sua immagine riflessa.

Autoritratto di donna velata. Shirin Neshat

Shirin Neshat, “Rebellious Silence”, from the series The Women of Allah (1994). © Shirin Neshat.

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

Shirin Neshat è una videoartista, regista e fotografa di origine iraniana, le cui opere esplorano il ruolo delle donne nelle società islamiche contemporanee, soprattutto in Iran. Ancora giovanissima, lascia l’Iran e nel 1974 si trasferisce in California per studiare arte. Nel 1989, un viaggio in Iran, dove non era più tornata dalla sua partenza, le provoca un grande shock. All'improvviso scopre l'immenso divario tra i suoi ricordi e la realtà iraniana contemporanea, in cui la rivoluzione islamica di Khomeyni aveva cambiato radicalmente la condizione femminile. Dopo un secolo di leggi e cultura improntate a un certo laicismo (nel 1935, Rezã Chãh Pahlavi, desiderando svolgere una grande azione di modernizzazione e occidentalizzazione del Paese, aveva proibito alle iraniane di indossare il chador), l’avvento della rivoluzione teocratica aveva costretto nuovamente le donne a indossare il velo in pubblico.

mercoledì 30 settembre 2020

Autoritratti in relazione. Anna di Prospero

Anna Di Prospero, Self-portrait with Eleonora, 2011

 

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 


Anna di Prospero indaga soprattutto il rapporto tra sé e lo spazio, sia quello urbano che domestico, ma anche quello tra sé e gli altri. Self-portrait at home (2007/2009) è il suo primo progetto fotografico, dove esplora la sua relazione con lo spazio della casa in cui abita, creando delle corrispondenze tra le geometrie del suo corpo e quelle degli ambienti.

Lavora sull’autorappresentazione in diverse serie, ad esempio in Self-portrait at hometown (2009) e in Urban Self – portrait (2010-2012) dove l’artista usa il proprio corpo come strumento di indagine, ma soprattutto di esperienza attiva dello spazio, ricercando le proporzioni tra le sue forme e quelle degli edifici e costruendo in tal modo un dialogo performativo con l’ambiente urbano.

In Self-portrait with my family, Self portrait with my friends e Self-portrait with strangers, sono invece le relazioni personali ad essere esplorate tramite l’auto-collocamento nella scena insieme a parenti, amici e sconosciuti. In tutti questi casi, il soggetto delle fotografie non è l’autrice, ma la sua relazione con lo spazio, le architetture, le persone.

martedì 29 settembre 2020

Le fotografie di Moira Ricci e la memoria falsificata

Moira Ricci, dalla serie 20.12.53-10.08.04, 2004-2009


Chi ha fatto l’esperienza di perdere una persona molto cara, avrà quasi sicuramente desiderato poterla avere ancora accanto a sé, in alcuni momenti della sua vita. Moira Ricci, invece, percorre un’altra strada. Desidera sì essere vicina a sua madre, prematuramente scomparsa, ma andando indietro nel tempo, trovando un posto accanto a lei in quello che era il suo presente, nei momenti da lei vissuti nel corso della sua vita e che la fotografia ha fermato in immagini.

Ed è così, partendo dall’elaborazione del lutto e della perdita, che dà vita a 20.12.1953 - 10.08.2004 (le date di nascita e di morte della madre), un'opera che segnerà definitivamente il percorso artistico di Moira Ricci.

La serie nasce dopo un lungo processo di recupero, dagli album di famiglia, di tutte le fotografie della madre, dall'infanzia all'età adulta, ed è costruita grazie ad un minuzioso lavoro di fotomontaggio e manipolazione digitale mediante il quale l'artista, superando la distanza spazio-temporale, inserisce se stessa all'interno di queste fotografie, diventando così una protagonista in più della scena. Si veste e si pettina secondo la moda del tempo e assume una posa in perfetta armonia con il resto della composizione, riuscendo a mimetizzarsi perfettamente nello spazio, affinché l’immagine risulti ai nostri occhi come la fotografia di un normale album di famiglia. Nella verosimiglianza dell'immagine istantanea l’artista ricrea un ponte per il suo desiderio e una relazione perduta.

lunedì 28 settembre 2020

Hannah Wilke, Jo Spence. Il corpo malato

Hannah Wilke, Intra-Venus, 1992

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

"La malattia è il lato notturno della vita" ha scritto Susan Sontag in Illness as Metaphor. La malattia aggiunge un altro strato di "alterità" allo status di outsider della femminilità. Eppure non sono poche le donne artiste che hanno raccontato la malattia attraverso il loro corpo.

Diverse sono le opere in cui Frida Kahlo, ad esempio, rappresenta il suo corpo devastato. Nei due autoritratti La colonna spezzata (1944) e Il cervo ferito (1946) si rappresenta come vittima sacrificale. La sua pittura può essere anche (non solo) interpretata come pratica riparativa, come un modo non soltanto per alleviare il dolore, ma anche per visualizzarlo, per trasformarlo, da destino individuale, in tema universale.

Il corpo ferito dalla malattia ritorna nelle opere fotografiche di due artiste che operano negli stessi anni: Hannah Wilke e Jo Spence. 

domenica 27 settembre 2020

Nan Goldin. Autorappresentazione come diario visivo

Nan one month after being battered 1984

 

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

Icona degli anni '80, Nan Goldin ha rivoluzionato la fotografia, trasformando la sua esistenza in arte. Per più di quarant'anni ha fotografato il suo mondo, i suoi amici, i molti momenti di vita quotidiana condivisi e anche quelli privati e intimi: feste, sesso, droga, violenza, gioia, amore, malattia, morte. Il suo lavoro, che ha presentato come un "diario visivo", è diventato la storia di un'intera generazione. I soggetti della Goldin sono il mondo bohemien metropolitano, le drag queen e i transgender, la cultura punk, gli amori etero e omosessuali, la violenza e la droga, l'AIDS, le feste e la solitudine, ma non è l’indagine di fenomeni sociali l’obiettivo della sua fotografia.
Nelle sue opere, e in particolare in The Ballad of Sexual Dependency (1986), ha anche inserito molti autoritratti, che hanno contribuito in maniera determinante a costruire un nuovo modo di rappresentare il sé. Questo dipende dal fatto che tali fotografie di auto-rappresentazione non sono delle messe in scena, delle dichiarazioni identitarie o le tappe di una ricerca intima, ma si presentano come momenti di vita colti nella loro cruda verità. Ciò determina, nello spettatore, un turbamento dato dall’identificazione con il soggetto delle fotografie; è come se questi fosse costretto, attraverso le immagini, a riconoscere le ferite che possiede dentro di sé. 

sabato 26 settembre 2020

Hannah Villiger e il corpo frammentato

Ich fotografiere mich selbst.
Ich bin mein nächster Partner und der mir naheliegendste Gegenstand.
Ich horche in meiner Polaroidkamera an meinem nackten, kahlen Körper entlang, um ihn herum, in ihn hinein, durch ihn hindurch. 

(Io fotografo me stessa. Sono il mio partner più stretto e il mio soggetto più ovvio. Con la mia macchina fotografica Polaroid ascolto il mio corpo nudo e glabro, intorno, dentro, attraverso di esso.)

Hannah Villiger 

L’artista svizzera Hannah Villiger, nonostante si definisse una scultrice (chiamava le sue mostre “sculture”), è riconosciuta a livello internazionale per il suo lavoro fotografico. Dall’inizio degli anni Ottanta fino al termine della sua breve vita (muore nel 1997), abbandona la tridimensionalità della materia plasmabile preferendo la superficie bidimensionale della pellicola impressa. Utilizza la Polaroid per esplorare il proprio corpo, in un dialogo solitario, appassionato e tormentato, con se stessa, anche perché stava già affrontando l'isolamento causato dalla tubercolosi, che aveva contratto a 29 anni.

Un ombrello sulla testa. Happy Days di Samuel Beckett



Nel dramma a due atti Happy Days (1961) di Samuel Beckett, la protagonista Winnie è una donna sepolta in un tumulo di terra fin sopra la vita. Con sé ha solo una borsa, piena di oggetti vari tra cui uno specchio e una pistola, unici legami fisici con il mondo reale che ormai esiste solo nella memoria. 

L'altro oggetto, che svolge un importante ruolo scenico e simbolico, è un ombrello, che finirà incenerito dalla luce del sole.

In questo collage, realizzato con le fotografie di varie rappresentazioni teatrali di Happy Days, la protagonista lo tiene sollevato sulla sua testa, quasi una patetica difesa contro l'assenza di ogni speranza e significato della vita.

Sophie Calle e la narrazione di sé

Copertina del catalogo della mostra M’as-tu vue (Parigi, 2003-2004)


Alcuni artisti si servono dell’autoritratto per realizzare delle “narrazioni”, componendo vere e proprie storie in cui giocano il ruolo di protagonisti.

Sophie Calle è un'artista francese, epigono della Narrative Art, che utilizza gli strumenti dell'arte narrativa: principalmente fotografia e testo, ma anche video, performance, installazioni.

Nel 1981 il Centre Pompidou le commissiona un’opera per una mostra dedicata all’autoritratto. Nasce così La Filature (in francese l'espressione 'prendre en filature' significa 'pedinare'), che porta avanti quella spiccata attitudine voyeuristica che caratterizzava già alcuni progetti precedenti, come Les dormeurs (1979), le Filatures parisiennes, Suite vénitienne (il racconto per testo e immagini del pedinamento di uno sconosciuto da Parigi a Venezia, 1980), L'Hôtel (1981).

giovedì 24 settembre 2020

Carrie Mae Weems, Lorna Simpson, Renée Cox. La decostruzione dello stereotipo razziale

Renée Cox, Liberation of Aunt Jemima and Uncle B, 1998

 

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

L’autorappresentazione fotografica femminile ha spesso intrecciato le questioni dell’identità di genere con quelle dell’identità culturale e razziale. La fotografia ha, fin dalle sue origini, giocato un ruolo cruciale, ad esempio, nel processo di autoconsapevolezza e autorappresentazione degli afroamericani, divenendo anche un campo di rivendicazione e di lotta per strappare ai bianchi il monopolio di quella rappresentazione, infarcita di stereotipi razzisti.

Già nel 1926, nel suo saggio Criteria of Negro Art, il sociologo e pioniere della teoria della critical race Web Du Bois aveva lanciato un appello agli artisti afroamericani per la creazione di produzioni che ne testimoniassero l’identità, mettendo radicalmente in discussione la visione caricaturale e stereotipata del ‘nero’ che i bianchi avevano prodotto per secoli. 

Raccogliere questa eredità finalizzata alla rappresentazione della propria identità etno-razziale è diventata una priorità per i fotografi afroamericani. Negli anni '70 questo approccio ha subito notevoli cambiamenti, fondendosi con l’istanza concettualista e la performance.

martedì 22 settembre 2020

Suzy Lake e l'invenzione del Sé

Suzy Lake, Miss Chatelaine, 1973-1978

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

L’artista americana-canadese Suzy Lake indaga il difficile rapporto tra immagine e identità, concentrandosi su alcuni aspetti del femminile in quanto costrutti sociali, mettendo in discussione le aspettative comuni in riferimento all’immagine della donna.

Nella serie Suzy Lake as Gary William Smith (1973-1974), ad esempio, vediamo l'artista trasformarsi gradualmente in un uomo, mentre in Are You Talking to Me? (1979), che cita la famosa scena di De Niro allo specchio nel film Taxi Driver di Martin Scorsese, ci offre numerose espressioni emotive che vanno dalla disperazione e dallo sconforto al panico e alla rabbia.

Le immagini di On Stage sono girate in uno stile diretto, in bianco e nero, simulando lo stile dell’istantanea. In ogni immagine, l’artista impersona un ruolo diverso: la studentessa alla moda, la casalinga alle prese con il trucco, la donna di classe e raffinata, quella sexy ed elegante.

lunedì 21 settembre 2020

Nicole Gravier e i cliché del fotoromanzo

 

Nicole Gravier, Mythes et Clichés. Fotoromanzi (1978)

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

L’opera di Nicole Gravier, artista francese attiva stabilmente a Milano dal 1971, si concentra in particolar modo sulla decostruzione degli stereotipi di genere insiti nel linguaggio e nella comunicazione mediatica, demistificando la rappresentazione del femminile all’interno dei fotoromanzi. Nella serie Mythes et Clichés. Fotoromanzi (1978) l’artista mette a nudo gli stereotipi di questo genere popolare di racconto per immagini, nato in Italia nell’immediato dopoguerra e molto diffuso negli anni Settanta. Nel 1978, in occasione della mostra al Laboratorio in via Maroncelli a Milano, l’artista espone fotografie a colori in cui impersona e mima le protagoniste di questo medium, accanto alle immagini in bianco e nero dei fotoromanzi originali. Il confronto richiama così l’attenzione dello spettatore sui meccanismi di formazione del significato all’interno delle immagini del femminile diffuse nella cultura visiva occidentale, dove il corpo della donna è abitualmente sottoposto a un processo di reificazione. 

Già nel decennio precedente, artiste come Ketty La Rocca e Lucia Marcucci avevano lavorato con le immagini pubblicitarie, sottolineando le disparità di genere da esse veicolate e spacciate come ‘naturali’.