venerdì 11 ottobre 2019

Diane Arbus, la fotografa dei “monstre”



Abstract:
Gran parte dell'arte e della fotografia moderna si è sforzata di abbassare la 'soglia del terribile', cioè di ciò che era considerato insopportabile allo sguardo, perché troppo doloroso, scandaloso o imbarazzante.
La fotografia di Diane Arbus ha sicuramente contribuito a inserire nell'immaginario collettivo la figura del monstre, emancipandola dalla cornice spettacolare o medico-scientifica dell'Ottocento, abituando il nostro sguardo alla visione della deformità, del corpo fuori dal normale.
Ma le sue fotografie restano sempre su una soglia ambigua: quella dello sguardo di questa fotografa sensibile e nello stesso tempo timida e riservata, che si sforza di stabilire un'empatia e di costruire una familiarità con i suoi soggetti e che tuttavia non riuscirà mai ad entrare veramente nel loro mondo, rimanendone sempre all'esterno, come alla vetrina di un mondo - per usare le sue parole - "pazzesco e incredibile".


Diane Arbus è conosciuta come la fotografa dei freaks, cioè di persone fisicamente abnormi, considerate dei fenomeni da baraccone. Il monstre della tradizione. E tuttavia questa è senza dubbio una formulazione riduttiva, perché la Arbus ha avvicinato altre tematiche e altri soggetti, anche se tutti appartenenti all’universo della marginalità. Nonostante ciò, i freaks occuparono di fatto un posto molto importante nell’opera di questa fotografa; con loro inaugurò l’iconografia per la quale è oggi conosciuta ed è a loro che non cesserà di rivolgere il suo interesse per tutta la vita.
La sua fotografia, da questo punto di vista, segna uno spartiacque in quanto rivoluziona la maniera di rappresentare questi soggetti. Lo sguardo che modella i suoi scatti, infatti, trasforma i freaks da “fenomeni da baraccone” in esseri singolari. Che si tratti di travestiti, di prostitute, di transessuali, di nani o giganti, tutti ci appaiono richiamati da quello sguardo alla propria irriducibile individualità.
Questo invito alla singolarità di ognuno non esclude, certo, la fascinazione sentita dalla fotografa per la loro abnormità: “I “fenomeni” sono qualcosa che ho fotografato a lungo. Sono stati una delle prime cose che ho fotografato e sentivo una specie di terrificante eccitazione. Ero abituata a adorarli. Ancora oggi adoro alcuni di loro. Con ciò non voglio affermare che essi siano i miei migliori amici, ma essi mi fanno sentire un insieme di vergogna e soggezione. In loro c’è come una qualità di leggenda. Come una persona in una fiaba che ti ferma e ti chieda di rispondere ad un indovinello. La maggior parte delle persone attraversa la vita temendo d’avere esperienze traumatiche. I “fenomeni” sono nati con i loro traumi. Essi hanno già superato il loro test nella vita. Essi sono aristocratici”.

Russian midgets friends in a living room on 100th street (1963).

Niente contraddice il fatto che la Arbus amasse davvero i suoi freaks, con tutta la complessità che può rivestire questo sentimento. Stabilisce un rapporto con loro, spesso duraturo. Le sue fotografie sono, sì, la registrazione di un momento preciso, ma anche il risultato di una relazione tra l’autrice e il modello. La celebre fotografia A Jewish giant at home with his parents in the Bronx (1970) è il risultato di una conoscenza lunga dieci anni tra Diane Arbus ed Eddie Carmel, da quando l’aveva fotografato la prima volta nel 1960, all’epoca in cui l’uomo si esibiva nel circo dei Ringling Brothers. Lo stesso accade con Lauro Morales, artista del circo messicano di nani, di cui conosciamo l’altrettanto celebre fotografia realizzata nel 1970 (Mexican dwarf in his hotel room in NYC). Si erano incontrati nel 1960 e, da allora, Morales era divenuto uno dei suoi modelli abituali.
Nella fotografia Russian midgets friends in a living room on 100th street (1963), uno dei tre amici è Andrew Ratoucheff, celebre per le sue imitazioni di Maurice Chevalier, che Diane Arbus aveva fotografato nel 1957 allo Hubert’s Museum.

A Jewish giant at home with his parents in the Bronx (1970).

Negli stessi anni in qui frequentava lo Hubert’s, Arbus visitava regolarmente il Club 82, che presentava una rivista di travestiti. Saranno necessarie numerose visite e attese per farsi accogliere negli alloggi degli artisti e avere il permesso di fotografarli. E’ sempre attraverso questo percorso, fatto di presenze assidue, che la fotografa riesce a guadagnarsi l’accesso all’intimità domestica e personale dei suoi modelli.
Ed è proprio l’intimità dell’ambientazione in cui queste persone vengono riprese a determinare la rottura visuale con i cliché della tradizione. Questi corpi “monstres” vengono, infatti, presentati come persone autonome e perfettamente a loro agio con se stesse, mostrati fuori dalla cornice storica, quella del circo, del museo o dell’istituto sanitario. Per la prima volta, e attraverso lo sguardo della fotografia, escono dallo show o dalla nosologia medica ed entrano nell’immagine di se stessi. L’opera della Arbus ricorda al mondo l’esistenza fisica e reale di questi corpi collocandoli nella pratica sociale del quotidiano: un tè tra amici, una riunione di famiglia. Il linguaggio fotografico adoperato dà vita a una rappresentazione anti-espositiva del corpo-fenomeno, in rottura con il trattamento abituale dell’oggetto. Il dispositivo fotografico, nell’opera della Arbus, introducendosi nello spazio privato e quotidiano del corpo fuori-norma, lo fa uscire definitivamente dallo storico desiderio, nutrito dall’istituzione, di normalizzazione dell’estraneo, dell’anormale, attraverso l’immagine. In questo risiede la grandezza di questa fotografa: la capacità di imporre una rappresentazione dei corpi che ha riformulato le possibilità dello sguardo sul corpo in generale e su quello del monstre in particolare.

Mexican dwarf in his hotel room in NYC, 1970.

L’iconografia prodotta costituisce un ibrido: le fotografie della Arbus hanno la forma del fotoreportage e lo spirito del ritratto, proprio a causa della temporalità che rivelano, quella dell’incontro tra persone che si conoscono, quella dell’approccio ai modelli come individui. Quella della curiosità per la persona, non per il fenomeno, frutto di un’ostinazione ossessiva da parte della Arbus, mista a un temperamento timido e malinconico.
La composizione delle immagini si esplica su un principio di frontalità che, tuttavia, riesce a conseguire esiti paradossali. Da una parte, infatti, riesce a mostrare il monstrum nel suo aspetto quotidiano, dall’altra ha la capacità di mostrare l’aspetto mostruoso o anormale dei corpi più comuni e abituali, come nella fotografia Child with a toy hand grenade in Central Park (New York, 1962) o ancora nei ritratti che realizza durante i balli mascherati della borghesia di New York. E’ un luogo comune affermare che la fotografia della Arbus fosse capace di rendere normali i corpi mostruosi e mostruosi i corpi normali. In effetti, le sue immagini vengono a sconvolgere, profondamente, la tassonomia della normalità del corpo, mostrando quella deformità celata dietro la maschera perbene della società borghese.

Child with a toy hand grenade in Central Park (New York, 1962).

La Arbus partiva dalla constatazione che noi tendiamo ad idealizzare la nostra immagine secondo determinati parametri estetici che l’obiettività della macchina azzera per riconsegnarci la nostra “diversità”. A questo proposito la fotografa affermava che “c’è sempre una differenza tra quel che vogliamo si sappia di noi e quello che non possiamo evitare si sappia di noi”, per cui, anche quando ha fotografato i cittadini normali, quella frontalità dello sguardo è riuscita a trasmettere la sgradevole sensazione di un qualcosa di fuori posto, di fuori dalla norma.
La tecnica utilizzata contribuisce a conferire ai suoi ritratti un carattere straniante. Impiega, infatti, il negativo di formato quadrato e l’uso costante del flash anche di giorno. Cerca di mettere il soggetto a suo agio, lasciando che si atteggi appositamente nella posa voluta in modo da indicare con chiarezza la maniera in cui vuole essere visto dagli altri. E tuttavia, non rinuncia ad inquadrarli sempre precisamente al centro, soli davanti all’obiettivo, il che crea una strana condizione, innaturale e vera insieme. Anche per questo queste fotografie si attirarono le critiche davvero spietate di Susan Sontag, che evidenziava il lato antiumanistico e la mancanza di compassione della Arbus.



Nel suo articolo Freak Show (1973, ripubblicato in una versione modificata dal titolo L’America vista nello specchio scuro della fotografia, in Sulla Fotografia, Einaudi, 2004), stigmatizzava l’insistenza con cui Diane Arbus aveva fotografato “mostri e casi ai limiti della normalità … la maggior parte brutti, in abiti grotteschi o sgraziati … patetici, penosi e orribili, repulsivi“. Ciò che la Sontag rimprovera alla fotografa è soprattutto il suo sguardo distante e impassibile, aggressivo e predatorio, privo dell’empatia che un tale progetto richiedeva. Oltre alla Sontag, altri critici rimproverano alla Arbus di utilizzare l’intimità che riusciva a creare con i soggetti, evidente nella cooperazione dimostrata da questi nella realizzazione delle fotografie, per poi esporli alla curiosità e al voyeurismo suoi e del pubblico.


Tali giudizi appaiono oggi davvero ingenerosi, alla luce della considerazione del grande contributo apportato dalle due fotografie nel processo di rottura con l’iconografia positivista che aveva riguardato l’indagine dei monstre fin dall’Ottocento. Le sue immagini fanno uscire il corpo fuori norma dalla cornice medico-scientifica in cui era stato classificato e da quella spettacolare in cui veniva esibito (e allontanato dal mondo “normale) per farlo approdare nel contesto quotidiano, in quello cioè che è il medesimo dello spettatore.
Beninteso, la Arbus non è mossa da alcun intento critico verso quelle teorie; le sue immagini sono più che altro dettate da una forza istintiva e passionale, ma lo sguardo nuovo portato dalla fotografia sul corpo mostruoso segna la fine della sua rappresentazione di matrice nosografica. L’immagine fotografica non propone più allo sguardo una dimostrazione bensì un incontro, aprendo a questo mezzo nuove possibilità di porsi nei confronti della realtà. Per la prima volta, e in modo radicale, la fotografia di fronte al monstre si libera del suo statuto di documento, di semplice supporto di registrazione e di conferma di teorie scientifiche, e si afferma come espressione autonoma, divenendo il suo proprio discorso, non la semplice conferma visiva di discorsi altrui.

A young man with curlers at home on West 20th Street, N.Y.C. 1966.

Two Girls in Matching  Bathing Suits, Coney Island, N.Y., 1967.

King and Queen of a Senior Citizen Dance, N.Y.C., 1970.

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