mercoledì 11 dicembre 2019

Antoine d'Agata. Fotografie al di là del bene e del male

Antoine d'Agata, Ice.

Antoine d’Agata, dopo una giovinezza trascorsa tra eccessi e peregrinazioni, nel rifiuto di ogni compromesso, a trent’anni scopre la fotografia. E’ il 1990 ed è a New York, dove segue i corsi di Nan Goldin e Larry Clark. Nel 1998 pubblicherà il suoi primi due libri fotografici, De Mala Muerte, un carnet di viaggio realizzato in America Centrale, e Mala Noche, che raccoglie fotografie scattate alla frontiera con il Messico.
Imbevuto della lettura di Viaggio al termine della notte di Céline, profondamente influenzato dalla pittura di Francis Bacon, formatosi in una cultura anarchica e punk, d’Agata è collocato in una posizione marginale che, tuttavia, non gli consente di concepire il fotografo come un “professionista dello sguardo”, ma lo porta a considerare il medium fotografico un mezzo per prendere posizione nel mondo. La fotografia cessa di essere descrittiva e si scopre essere nient’altro che un modo di fare esperienza, uno strumento di coinvolgimento attivo e personale nella realtà; non un artificio che tiene a distanza ma che permette di penetrare le frontiere delle ossessioni e del dolore, del desiderio e del piacere, del disordine e del rischio che plasmano il suo rapporto con il mondo.


Per d’Agata, la fotografia ridotta a mero discorso, che prende semplicemente atto del mondo, non fa altro che incrementare l’universo di immagini destinate al consumo. Fedele ai principi della retorica situazionista, oppone all’estetizzazione dell’arte la creazione di esperienze autentiche di vita, in un confronto attivo con il reale. L’idea basilare è quella di mettere fine allo spettacolo, di far primeggiare l’azione (praxis), non l’immagine. E il medium fotografico può fare ciò perché contiene in sé i germi dell’azione, ossia è in grado di dare al fotografo la possibilità di collocarsi nella realtà. La fotografia, per d’Agata, non è uno strumento per documentare, ma per prendere posizione.
Dopo De Mala Muerte, pubblica più di trenta libri (senza contare i cataloghi delle mostre). Ognuno di loro ribadisce l'impegno del fotografo per una lettura politica della fotografia e per un'uscita dal ruolo di spettatore: nell’atto fotografico, chi lo compie è chiamato ad assumere una posizione di attore a tutti gli effetti all’interno di ciascuna delle situazioni che documenta, altrimenti è solo un voyeur, conformista e codardo. Indossare uno sguardo sul mondo non significa prelevarne passivamente l’immagine, ma posizionarsi in esso; assumere un punto di vista è già un impegno, non artistico, ma filosofico e politico. Ciò che interessa a d’Agata non è lo sguardo del fotografo sul mondo, ma il suo coinvolgimento e la sua relazione intima con esso, per mostrare gli squilibri che questo rapporto genera. È un modo di intendere la fotografia molto diverso da quello proposto da Susan Sontag, la quale riteneva che la macchina libera il fotografo da ogni responsabilità nei confronti delle persone fotografate e che la chiave sta nel non intervenire nella loro vita. Il punto di vista di D’Agata è vicino al soggetto fotografato e, mira, anzi, a un coinvolgimento totale.


“Né il documentario né la finzione mi interessano. L’unica posizione che mi interessa – dirà – è mettere me stesso nel mondo reale, nella realtà, e provocarla, e decidere se distruggerla, cambiarla. Giocare con la realtà. Quello che mi interessa è la vita, questa posizione in cui tutto è possibile, niente è vietato.”
Pur essendo un fotogiornalista, ne vede con lucidità i limiti. Egli non crede nella possibilità che la fotografia rappresenti un documento obiettivo, una finestra trasparente sul mondo, ma solo un veicolo di autoespressione. Secondo d’Agata, infatti, nello sforzo costante di testimoniare, commuovere e mobilitare, il fotogiornalismo usa i simboli più assimilabili per spiegare fatti complessi. Per questo, considera più coerente descrivere un’esperienza da un punto di vista soggettivo. "Qualsiasi progetto fotografico può essere giudicato come un resoconto autobiografico”, afferma. Anche per tale motivo, spesso nei suoi scatti si sdoppia, assumendo contemporaneamente il ruolo di osservatore e di attore, di fotografo e di modello, collocandosi nella scena. Dietro l’obiettivo c'è Antoine d'Agata (o una persona a cui passa l’apparecchio) e sul campo c'è un personaggio, un ipotetico doppio che può "portare il peso della sua responsabilità, il suo rimorso, la sua colpa" (Delory-Momberger et d’Agata, Le Désir du monde, 2008). È da questa posizione ambivalente, da questo sdoppiamento, da questa presenza nella cornice, che nasce il lavoro fotografico di Antoine d'Agata.

Anticorpi, Le Bal, Parigi.

Al centro della sua poetica c'è una figura: quella della prostituta, che agisce sempre nello stesso luogo, una stanza chiusa. Per d’Agata, il dominio di classe, su cui si fonda il sistema capitalistico, si regge su un meccanismo perverso: l'infinita moltiplicazione del desiderio da una parte e la proporzionata impossibilità di soddisfarlo dall’altro. Il bordello, da questo punto di vista, non costituisce solo un'area di oppressione, ma anche di resistenza contro la dittatura puritana del desiderio insoddisfatto. Questa resistenza alla produttività alla fine causerà un caos salutare, una sovversione dell’ordine costituito.
Si tratta, tutto sommato, di una posizione intrisa di sentimento romantico, stigmatizzata anche da sinistra come individualismo inconcludente dal punto di vista strettamente politico, in quanto riduce la prassi rivoluzionaria all’impulso immediato e agli appetiti di una soggettività egoistica, isolata dalla lotta collettiva e organizzata, in quanto crea solo per se stessa delle "situazioni" di liberazione. Un individualismo artistico perfettamente compatibile con la gestione capitalista che vorrebbe combattere e distruggere.


Giudizi politici a parte, l’opera fotografica e cinematografica di d’Agata resta unica, vissuta dal suo autore come un corpo a corpo con se stesso e con il mondo, che lo porta a contatto con la "nuda vita" di un'umanità ai margini, alle prese con brutalità e vulnerabilità, orrore e desiderio. Fa della propria esistenza il materiale dell’atto fotografico, modellando quest’ultimo non come uno sguardo che agisce dall’esterno, ma portandolo oltre una linea di confine, quella che segna il limite tra soggetto e oggetto. In una delle interviste pubblicate nel libro Le Désir du monde (2008), d’Agata rilascia una dichiarazione che spiega bene come la fotografia, per lui, sia una pratica tutt’altro che passiva: «La mia pratica – confessa l’artista – implica un passaggio definitivo al ruolo di attore. Trasgredendo i confini che separano il fotografo dal suo soggetto, sono diventato l’oggetto delle mie immagini, l’attore obbligato di una sceneggiatura che io stesso ho elaborato.»
Molte immagini dell'artista sono incentrate su un corpo nudo (a volte più di uno, tra cui "A", cioè il doppio dell’autore) fluttuante nel nulla, presenza fetale nel tempo, che vive solo nell'immediatezza della vibrazione suggerita dalla sfocatura parziale nell'immagine. I corpi di Antoine d'Agata vengono così catturati in una specie di parentesi disincantata tagliata fuori dallo spettacolo del mondo, in uno spazio vuoto, non contaminato dagli oggetti del mondo civile.

Antoine d'Agata, Situations

Nonostante i contenuti delle sue immagini, che mostrano spesso corpi nudi, il suo non è lo sguardo di un voyeur, ma quello del narratore di un diario intimo. Le immagini erotiche mostrano nient’altro che i suoi incontri sessuali nel corso degli anni.

La notte, e tutto ciò che racchiude, costituisce l’ambientazione preferita delle fotografie di d’Agata. Il desiderio, il piacere e la carne, ma anche il pericolo, il dolore, la violenza e l’autodistruzione sono i temi principali della rappresentazione. Le immagini sono quasi sempre sfocate e violentemente mosse; mostrano, senza divieti, corpi intrecciati di donne e uomini che si drogano e fanno sesso. D’Agata è uno dei protagonisti sulla scena: spesso fa addirittura scattare le fotografie alle ragazze, dimostrando come egli privilegi la sua presenza nello spazio fotografato piuttosto che la resa estetica delle immagini. Il sesso è, per d’Agata, l’ultimo baluardo contro l'oscenità delle relazioni sociali; l’istinto dominato dal principio di piacere è l'ultimo rifugio contro la virtualità delle nostre esistenze, contro l'anestesia dei nostri sensi, contro ideologia di una società che considera i corpi come merci di consumo. È un modo per perdersi, per separarsi dal mondo e per cercare di vedersi dall'esterno. Per esercitare la libertà ormai perduta.

 

La sfocatura e il mosso deformano i corpi; gli esseri umani assumono la forma di animali selvatici o persino di scheletri antropomorfi. Oppure perdono la forma, esaurendosi in un groviglio indistinto, in un'incerta metamorfosi, agita dal connubio di sesso e morte. Il dualismo di Eros e Thanatos è stato uno dei grandi temi del XX secolo, fin dal testo di Freud del 1920, Al di là del principio di piacere. Bataille (i cui scritti d’Agata conosce fin da giovane) lo rielaborerà affermando l’impossibilità di separare il piacere dal dolore, l’impulso sessuale dall’istinto di morte, ritenendo che sia nella morte che nell'atto sessuale si ritorni all’unità dell'essere, superando la discontinuità della vita individuale. In molte delle fotografie di d’Agata il dolore e il piacere si fondono insieme. Scene di corpi prostrati, vulnerabili e abbattuti mostrano, nella carne, l’unione indissolubile dell’eros con l'idea di finitudine.
Questa dimensione sacrificale del lavoro di d'Agata è più evidente in lavori come Ice, Stigma o Agonie. Man mano che il lavoro si evolve, il linguaggio diventa più astratto, confuso e violento. L’artista cerca di penetrare nella materia che fotografa ma è consapevole della distanza, della barriera invalicabile che i corpi stessi presuppongono. In ogni immagine, cerca di annullare quell'abisso e approfondire il dolore e la frustrazione causati dall'unione e dalla separazione.


Nell’opera di d’Agata, l'esplorazione delle pulsioni e l'inconciliabile e permanente lotta tra ragione e istinto diventano una storia narrabile. Il corpo è il luogo in cui d’Agata incarna lo spirito di Dioniso, l’eterno conflitto di vita e morte. Questo tema è esplicitamente dichiarato nel titolo di una sua opera, Anticorpi (2013), un progetto che mette insieme e organizza il suo lavoro precedente, facendone una sorta di autobiografia. Le prime pagine mostrano provini a contatto in cui è possibile vedere numerose immagini bordate di oscurità in cui il corpo nudo si manifesta pesantemente, ma non come figura, bensì come mera presenza, rivendicando il proprio semplice esserci. E’ il “corpo senza organi” descritto da Deleuze e Guattari in Mille plateaux.

Antoine d'Agata, Situations

Significativo il fatto che, oltre alle fotografie di corpi e di atti sessuali, nel progetto compaiano altre immagini, che mostrano facciate di edifici danneggiati dalla guerra, ritratti di persone anonime, campi di rifugiati o migranti clandestini.
D'altra parte, la violenza e l'orrore che possono essere percepiti nelle immagini degli incontri sessuali si manifestano anche attraverso altri meccanismi. Il corpo non è solo mostrato nudo, ma anche ferito, malato o drogato. D’Agata cerca di accedere alla propria interiorità attraverso il corpo, oltrepassandone i confini, sottoponendolo a tutti i rischi possibili, in una costante ricerca di situazioni estreme, in cui l’appropriazione del proprio sé coincide con l’autodistruzione.

Antoine d'Agata, Anticorpi.

L’artista si autoinduce degli stati di alterazione di coscienza attraverso l’assunzione di droghe e alcool, per esplorare le proprie zone d’ombra, per raggiungere la posizione limite ai margini dell'abisso. Ciò fa sì che l'atto fotografico si verifichi in uno stato di semi-incoscienza e, di tale perdita di controllo, le fotografie mostrano il segno. La congiunzione di droga e fotografia diventa uno strumento di autoriflessione che abbatte le barriere che lo separano dalla realtà. Attraverso una ricerca auto-distruttiva e contorta del piacere, l’artista costruisce la sua iscrizione nel mondo.
Alla fotografia, negli ultimi anni d’Agata ha affiancato il cinema, realizzando anche due lungometraggi, Aka Ana (2008) e Atlas (2011). Protagonista rimane sempre la carne, il corpo e la sua dissoluzione.

  

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