domenica 10 novembre 2019
Lu tiempu ’nfacce tua aje lassatu
Non so cosa significhi sognare, parlare, scrivere, emozionarsi, tutto in una lingua.
Sono nata in una famiglia contadina in cui si parlava solo ed esclusivamente il dialetto salentino. Che già il nome non significa molto, perché laggiù i dialetti cambiano da paesino a paesino, spesso da un lato all'altro della strada.
In quella lingua ho mosso i primi passi, ho pronunciato le iniziali sillabe, che quando ho detto per la prima volta la parola "papà", mio padre ha vissuto un profondo disagio perché per lui il padre non poteva che essere "tata". "Papà" gli suonava così estraneo. Una parola che non apparteneva al suo mondo. Un mondo che stava cambiando così precipitosamente davanti ai suoi occhi.
L'italiano per me è arrivato alla materna, come necessità scolastica, come seconda lingua. Una lingua di cui studiare la grammatica, la sintassi, in cui strutturare pensierini, discorsi, temi. Ma all'esterno, per farsi capire dalla propria gente, si tornava alla lingua delle radici, quella che non si scriveva mai.
Così sono cresciuta in questa frattura tra dialetto e italiano, tra mondo dell'oralità e mondo della scrittura. Tra una lingua di cui avvertivo l'oscura e sacra potenza sorgiva, immersa nel mondo della natura, dei cicli delle stagioni, dei racconti tramandati dal passato, e una lingua in cui alcuni di quei termini così prossimi alle profondità della terra non potevano essere tradotti.
Ecco, è stato questo il dramma, se vogliamo. La mia lingua nativa mi afferrava trascinandomi nel sottosuolo, in un mondo misterioso e carsico, fatto di sorgenti sotterranee, mentre la lingua che leggevo, nelle mie avide e folli letture notturne, al lume smorzato di una abat jour coperta da uno scialle per non farmi scoprire, mi proiettava verso l'alto, verso la scoperta di mondi nuovi, inondati di una luce sconosciuta e affascinante.
Quelle due parti hanno sempre avuto difficoltà a comunicare. Tante cose non potevano fluire da una metà all'altra e viceversa. Credo di aver passato tutta la vita alternando battaglie e riconciliazioni tra quelle due parti di me, in una tensione continua tra farsi inghiottire dal suolo e sradicarsi definitivamente.
Per questo sento così vicino a me l'albero di ulivo, le cui radici paiono talora volersi spiantare dalla terra e il tronco protendersi verso la fuga. E che tuttavia vive così, in questa eterna tensione, dando buon frutto a ogni ciclo di stagione.
Ancora oggi parlo, ragiono, penso, scrivo in italiano, ma mi emoziono, mi arrabbio e gioisco, piango e danzo in dialetto, in quella lingua originaria che è il fiume sotterraneo in cui galleggia la mia parte più intima e inconscia, quella che può solo generare, ma non può assoggettarsi alle regole del logos.
Ho provato anche a scrivere in quella lingua, e non potevano che essere versi. Non si può scrivere in dialetto altro che in rima, in canto recitato. Ve lo propongo, conscia di come si tratti di un'impossibile scrittura e che alla maggior parte di voi possa arrivare giusto qualche suono, perché queste parole, se tenti di tradurle, fuggono via.
Parla di una donna anziana, rimasta sola, a ricordare il tempo passato e a soffrirne il rimpianto, mentre è seduta all'arcolaio, che gira perennemente su se stesso.
Lu tiempu ’nfacce tua aje lassatu
surchi funni a ddhru nu crisce nenzi.
Te strinci tutta, lu core nnuticatu,
a lli ricordi ca venene te nanzi.
Caruseddhra te ne scivi a lla funtana
cu la quartara l’acqua a carisciare.
Sunava tutte ‘e vespre nna campana.
Su lla porta te piacia lu ssire
beddhra ’nfasciata ’ntra lu sciuppareddhru,
li capiddhri ’nfiettati, la ucca a risu;
quannu ritivi tie cantava u ceddhru,
tuttu se scazzicava ogne carusu.
Mo’ si rimasta sula, tutta mara
e l’anche te le scarfi cu nnu mantu,
coji a lana a lla macinnula ca ’ngira
cu ll’occhi ’nfumicati te lu chiantu.
E mentre penzi ca lu tiempu t’ha ’ngannata
e ca lu fusu ancora secuta cu ffita
te azzi la mantera nn’addhra fiata
e coji e rumasuje te la vita.
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