martedì 29 ottobre 2019

La violenza sulle donne nella storia dell’arte


Susanna e i vecchioni

La violenza è presente nell’arte di tutti i secoli. Da Lascaux ai giorni nostri. Violenta è l’arte della Grecia antica, quando gli dei infuriati puniscono la hybris degli uomini, e violenta sarà l’arte cristiana, con le sue crocifissioni, i suoi martiri trafitti dalle frecce, lapidati o decapitati, le sue feroci rappresentazioni dell'inferno e dei dannati per l’eternità. Per non parlare delle scene di guerra e di battaglia.
Ma, sia nel Vecchio Testamento che nella mitologia classica che nella storia di tutti i tempi non mancano le storie di violenza perpetrata contro le donne, insidiate, rapite, stuprate. Le rappresentazioni di questi episodi di rapimento o di violenza sessuale definiscono i contorni di un sistema iconografico tutto al maschile. E’ in particolare con il venir meno dell’ideale umanista del Rinascimento e con l’affermazione dello stile manierista prima, e di quello barocco poi, che l’arte andrà in cerca di effetti emotivi e spettacolari tali da provocare  deformazioni e torsioni dei corpi e l’esasperazione dei gesti e delle espressioni, enfatizzando la violenza della rappresentazione. Le immagini mettono insieme erotismo e sadismo, offrendo la vista di una vittima tremante e completamente alla mercé del potere dell’uomo. Tiziano, Bernini, Rubens e tantissimi altri impiegano tutto il proprio virtuosismo artistico in queste scene: rappresentare un corpo che afferra impetuosamente un altro corpo è una vera sfida artistica.

Si possono citare le iconografie che riprendono i vari miti classici in cui qualche dio dell’Olimpo seduce e possiede, o cerca di farlo, spesso ricorrendo all’inganno, al travestimento o alla violenza, la donna di cui si è invaghito, come accade per Apollo e Dafne, per Pan e Siringa, o per Giove e le sue numerose prede: Europa, Danae, Leda, Io, ecc. Ma ricordiamo, altresì, le iconografie tratte dal Vecchio Testamento, come la storia di Susanna e i Vecchioni, o dal Nuovo Testamento come la lapidazione dell’adultera, o ancora quelle ispirate alla storia romana. Tra queste c’è quella di Lucrezia, narrata da Tito Livio, che violentata da Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo, decide di uccidersi per non vivere nel disonore; oppure la storia della violenza di Marte su Rea Silvia o, ancora, le opere dedicate al ‘Ratto delle Sabine’.
Questo collage è dedicato alla storia di Susanna, narrata nel Libro di Daniele. La giovane donna viene sorpresa da due uomini, due giudici abituali frequentatori della sua casa, mentre sta facendo il bagno nel giardino; questi minacciano di accusarla di averla sorpresa con un giovane amante se non si concede a loro. Susanna decide di non sottostare al ricatto e viene accusata di adulterio. Portata in tribunale verrà riconosciuta colpevole e condannata a morte per lapidazione; sarà, poi, il profeta Daniele a salvarla dalla morte interrogando separatamente i due uomini e facendoli così cadere in contraddizione.
Decine e decine sono i dipinti dedicati alla storia di Susanna e ‘i Vecchioni’, uno dei temi più frequentati dall’arte del Cinquecento e soprattutto del Seicento,  da Tintoretto a Veronese, da Artemisia Gentileschi a Reni, da Rubens a Jusepe de Ribera. Nelle opere si vede quasi sempre una donna nuda, a volte di poco coperta da un sottile drappo, che viene spiata o più spesso avvicinata e insidiata da due uomini anziani. C’è sovente orrore sul volto di Susanna e si nota sempre, attraverso i gesti della donna, anche l’intento di proteggersi da quella che lei percepisce come un’evidente aggressione. Spesso in queste tele tende a prevalere la sensualità di un corpo nudo esposto allo sguardo maschile; altre volte a risaltare è, invece, il volto di una donna chiaramente spaventata, come accade per le versioni realizzate da Artemisia Gentileschi.
Il tema di Susanna e i Vecchioni è una tipica raffigurazione di voyerismo, divenuta particolarmente popolare sia in area protestante che cattolica. Protetta dal giardino della propria casa, Susanna incarna una figura casta e devota che, ingiustamente accusata, offre a Dio il proprio destino dichiarandosi innocente e per questo verrà premiata. Ma resta significativo il fatto che l’iconografia si concentri sempre nell’esibizione del corpo sensuale della giovane donna, spesso circondato, inseguito, sovrastato, lambito o ghermito dalle mani dei due uomini, senza minimamente alludere al seguito della narrazione biblica, né all’esito fatale che ne deriverà per le due lascive canaglie di cui, occorre evidenziarlo, vengono spesso sottolineate le fisionomie semite.


Rapite e stuprate

Possiamo notare le prime rappresentazioni di scene di violenza sessuale in alcune pitture vascolari risalenti all’Antica Grecia, che raffigurano il forte Aiace, spesso con la corazza, l’elmo e la spada sguainata, mentre afferra i capelli della profetessa Cassandra, figlia di Priamo, aggrappata alla statua della dea Atena. Quello che più colpisce in queste scene è l’opposizione fra la nudità di Cassandra (che evidenzia la sua condizione di fragilità) e la corazza di Aiace. Per vendicare l’oltraggio nei suoi confronti e la violenza su Cassandra, Atena – definita anche come colei che protegge da nozze violente – provocherà il naufragio dell’intera flotta greca al ritorno da Troia.
Nell’arte classica lo stupro è rappresentato, tramite un processo di sostituzione metaforica, dall’attacco inferto con la spada. La stessa arma sguainata e puntata contro la donna, e la stessa traslazione simbolica, la troveremo nell’iconografia che rappresenta un altro episodio di stupro (narrato da Tito Livio nel suo Ab Urbe condita libri), quello inferto da Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo, ai danni di Lucrezia, moglie del nobile Collatino. Secondo il racconto narrato da Tito Livio, questo episodio porterà alla cacciata da Roma della famiglia dei Superbi e all’avvento della Repubblica. Quest’aura di storia e leggenda ha permesso a Lucrezia di diventare una delle figure femminili più famose della cultura occidentale, passando attraverso i secoli, dall'antichità ad oggi, trasmessa in tutte le forme di tradizione scritta: prima usata come modello di comportamento nelle scuole di retorica, poi nei trattati di pedagogia e nei sermoni predicatori; ha poi ispirato poeti e drammaturghi, nonché molti pittori e scultori, soprattutto in epoca barocca quando il suo successo è al culmine.


Questo episodio e la rappresentazione che ne è stata data, sia a livello iconografico che letterario, hanno contribuito a plasmare un certo tipo di atteggiamento pubblico nei confronti delle donne violentate. Perché la matrona romana, dopo la violenza, prima racconta al marito e ai parenti l’oltraggio subito facendosi promettere da loro una sanguinosa vendetta, e poi si suicida, per provare la sua innocenza. La storia del personaggio si rivela essere quella di uno stereotipo polisemico, che è stato arricchito dalle sue numerose riscritture. Se, infatti, generalmente Lucrezia è celebrata come un personaggio eroico, tuttavia Sant'Agostino, nel De civitate dei, ridisegna in bianco e nero questo racconto, contestando tale modello pagano di virtù, sostenendo che la donna non avrebbe dovuto suicidarsi se la sua anima era innocente e arriva a ipotizzare che si sia suicidata per espiare il piacere provato al momento dello stupro. In un caso o nell’altro, la figura della donna ne esce vittima due volte: o moralisticamente celebrata perché giunge al sacrificio estremo del suicido pur di dimostrare la sua innocenza e preservare la sua virtù o colpevolizzata perché forse condiscendente all’atto carnale. Ma come sempre in questo tipo di storie, la rappresentazione dell’episodio diventa occasione per raffigurare scene di erotismo e di violenza contro una donna, mascherati da sentimenti di eroismo e di insegnamento morale.
La maggior parte dei dipinti si concentrano sulla scena in cui Sisto Tarquinio sorprende Lucrezia: la violenza sessuale che seguirà è suggerita dal pugnale sguainato e puntato contro la giovane. Troviamo il pugnale anche in un’altra tipologia di dipinti legati alla storia di Lucrezia, in cui la donna è raffigurata mentre si suicida, trafiggendosi il petto nudo - una chiara allusione allo stupro subito - e la cui espressione di godimento evoca un piacere di natura estatica.
Il collage in alto è dedicato a queste storie di violenza, consumata fino in fondo o tentata, che comprendono l’episodio di Aiace e Cassandra, quello di Pan e Siringa, di Apollo e Dafne, quello biblico di Tamar violentata dal fratello Amnon e, nelle ultime due file, la storia di Lucrezia e Tarquinio.


In quest'altro collage viene trattato un altro dei temi ricorrenti nella mitologia, come nelle fonti della storia romana, cioè quello del rapimento, ovvero l’azione violenta di sottrazione della donna dal suo contesto quotidiano per mano di un dio o di un uomo. Si parte dalla mitologia greca, in cui si narra la storia del rapimento, ad opera di Borea, della principessa ateniese Orizia, che si era rifiutata di concederglisi e che il dio cattura mentre balla sulle rive dell'Ilisos. Nelle Metamorfosi di Ovidio sono narrati numerosi rapimenti, molti dei quali ad opera di Giove. Quest’ultimo, ad esempio, rapisce Europa travestito da candido toro. Ovidio narra altresì il ratto di Proserpina, giovane figlia di Cerere, che viene rapita da Plutone, re degli Inferi. Dalla mitologia greca proviene inoltre la storia del rapimento di Elena da parte di Paride e dalla storia romana è tratta quella nota come il Ratto delle Sabine. Fra le opere più celebri su quest’ultimo tema c’è quella dell’artista francese Nicolas Poussin, in cui viene efficacemente rappresentata la brutalità dell’evento. La forza dei romani è messa in evidenza dalla loro prestanza fisica e dalle loro armature. Il dolore delle donne che subiscono l’aggressione è invece richiamato dal gesto delle braccia aperte, gesto tradizionale di dolore già nell’iconografia antica.


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