mercoledì 16 ottobre 2019

"Pastorale americana" di Philip Roth



Questo libro è al tempo stesso spietato e pregno di pietà e di umana comprensione. E’ la storia di un uomo che, gradatamente e drammaticamente, acquista la consapevolezza di come tutto intorno a lui sia solo ipocrita finzione, dissimulazione, date dalla volontà di “normalizzare” il caos, di dare ordine al disordine; di come l’umana civiltà sia solo una maschera che malcela la violenza e l’animalità latenti ad ogni livello, dall’animo umano alla struttura di una comunità e di uno Stato. E’ la presa di coscienza di un uomo, ma al tempo stesso l’acquisizione di un giudizio storico su un’intera nazione, che ha fatto dell’aggressività imperialista il suo tratto distintivo. Le regole e le istituzioni della civiltà, dalla famiglia all’impresa, non sono altro che imperfette dissimulazioni della violenza e dell’aggressività originarie e, di fronte allo scoppio di quella violenza, l’individuo che ha passato la vita ad allevare il “sogno americano” di felicità, benessere e armonico progresso, si ritrova impreparato e impotente.

Ecco cos’è questo libro: è la dichiarazione della fine di ogni illusione, lo svelamento di ogni finzione. Ci sono molti libri che hanno avuto il medesimo obiettivo, e cioè mostrare come l’uomo che cerca di vivere un sogno, rifuggendo dalla realtà e dalla storia, alla fine dalla realtà e dalla storia è drammaticamente riagguantato, ma Pastorale americana ha in più un afflato di comprensione umana che non sfocia mai nel patetismo e nel pietismo consolatorio e che usa l’ironia non per stigmatizzare la fragilità dei personaggi, ma come atto liberatorio per esorcizzare la loro inadeguatezza.
Il personaggio principale di questa storia (che sembra benedetto dal destino per le sue doti di bellezza, talento sportivo, fiuto negli affari e grande bontà d’animo) cerca di inseguire il suo sogno di felicità isolandosi in un luogo remoto degli Stati Uniti, dal nome significativo di Arcady Hill, per sfuggire alla violenza e al grigiore delle città, costruendosi un suo personale paradiso a contatto con la natura, nel quale viverci rintanato con la sua famiglia. In un luogo che era stato teatro di importanti avvenimenti storici per la gloria di quel grande Paese, in una casa costruita con le pietre originarie di quella terra, lo “Svedese” (figlio di terza generazione di ebrei immigrati che in quel paese avevano edificato la loro fortuna di imprenditori) costruisce il suo nido: un luogo perfetto per proteggere da ogni insidia la sua famiglia perfetta. Ma non si può tenere la storia fuori da quattro mura di pietra e quando questa irromperà lo farà con inaudita violenza. Di fronte alla tragica caduta del sogno, il protagonista vanamente cercherà di trovare delle spiegazioni e delle responsabilità. Immerso nel caos generale, si arrenderà a prendere consapevolezza di come tutto intorno a lui è solo violenza mascherata. Da antologia il dialogo telefonico con il fratello che, al contrario di lui, ha sempre avuto una visione della vità disincantata e spietatamente lucida.

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