lunedì 23 settembre 2019

Autoritratti allo specchio. Uno strano rapporto a tre


L'autoritratto allo specchio è un'azione che si sviluppa dalla relazione fra tre soggetti: l'uomo, la macchina fotografica e lo specchio.

Gli autoritratti fotografici allo specchio si possono dividere in tre gruppi.
Il primo comprende quelle fotografie in cui è visibile il soggetto con la macchina, ma non la cornice dello specchio. Si tratta, pertanto, di immagini un po' ambigue. E' lo spettatore che deduce la presenza dello specchio, sebbene la sua superficie costituisca il contenuto dell'immagine. In questo tipo di fotografie, nonostante la presenza della fotocamera che svela l'atto di produzione, predomina l'espressione identitaria del soggetto. L'inquadratura è troppo ristretta, per cui non si percepisce alcuna frattura spaziale.


Diane Arbus, Self-portrait, 1945

Il secondo gruppo comprende le fotografie in cui, oltre al soggetto-fotografo (ed eventualmente altri personaggi) e alla macchina, è ben visibile anche lo specchio con la sua cornice. La visuale si allarga, lo scenario di produzione è ben riconoscibile e il tutto acquista una valenza scenografica, di vera e propria messa in scena. Oltre all'indagine sull'identità del soggetto all'interno di un contesto, qui è l'atto di produzione della fotografia che diviene ben presente allo sguardo del fruitore. Lo specchio dilata la scena, mettendo insieme campo e fuori campo ed evidenziando la frattura tra lo spazio riflesso nello specchio (che mostra la quarta parete) e quello che circonda la cornice.

Édouard Boubat

Vivian Maier
Il terzo gruppo raccoglie quelle fotografie la cui finalità non è propriamente l'autorappresentazione e l'autoritratto è, per così dire, accidentale, cioè è frutto della capacità dello specchio di dilatare lo spazio della scena inquadrata.
Normalmente, nell’atto di inquadrare, il fotografo ritaglia un frammento di un infinito spazio-temporale che lo avvolge tutt’intorno. Procede quindi per esclusione, nel momento stesso in cui include nell’inquadratura il suo soggetto. Il “ritaglio” nello spazio operato da una foto separa due realtà: un “campo” (ciò che sta dentro) e un “fuori campo” (ciò che rimane fuori). Ma questo non è sempre vero. Ad esempio basta utilizzare uno specchio perché quel confine si faccia alquanto ambiguo, in quanto lo specchio può includere nello spazio fotografico (ma anche in quello pittorico) elementi fuori campo. Nel caso dell'autoritratto, lo specchio include il fuori campo rivelando l'atto di produzione dell'immagine. Nelle fotografie dove il fotografo si allontana dallo specchio, inquadrando una porzione più grande di spazio, accade che l'autoritratto costituisca solo una componente dell'immagine, occupata prevalentemente dal contesto, come nella fotografia qui accanto, di Vivian Maier, o in quella sotto, di Jacques Henri Lartigue, che sfrutta le proprietà spaziali dello specchio convesso.

Jacques Henri Lartigue,  Solange David, Paris, 1929
















In tutti i casi questi scatti sono anche esempi di metafotografia, cioè hanno una valenza autoriflessiva che esplica il costituirsi del dispositivo e il suo funzionamento.


La foto in alto è di Elliott Erwitt, qualla in basso al centro è di Lee Friedlander.

In senso orario: Ilse Bing, Sally Mann, Imogen Cunningham, Vivian Maier, Eva Besnyo.

Per la donna, l'autoritratto allo specchio è uno strumento per indagare non solo se stessa, ma anche le possibilità del medium.
L'autoritratto di Ilse Bing possiede una stimolante complessità, perché lo specchio cattura sì il suo riflesso, ma non si tratta di un autoritratto comune, perché qui si realizza una mise en ebyme. Lo specchio raddoppia il soggetto della fotografia, mostrandolo da un altro punto di vista.
Ma la cosa più interessante è l'ambiguità generata dall'immagine. Lo specchio interno annulla la percezione di quello più grande. Sembra quasi che Ilse Bing non stia fotografando se stessa, ma che rivolga il suo obiettivo verso di noi.
L'autoritratto di Sally Mann invece non ha cornice. La nostra percezione deduce la presenza dello specchio da una serie di elementi e dalla familiarità con lo schema consueto dell'autoritratto.

In senso orario: Ed van der Elsken, Helmut Newton, Elliott Erwitt, Helmut Newton, Stanley Kubrick, Frank Horvat, Ed van der Elsken.

Nelle immagini di questo collage, lo sguardo del fotografo espone e cattura la donna e nel frattempo include se stesso nell'immagine.
L'uomo è alle sue spalle e sembra ghermirla con la macchina, come per imprigionarne l'essenza.
Questi autoritratti allo specchio mettono in evidenza l'aspetto predatorio dell'atto fotografico, come in quegli scatti in cui il cacciatore esibisce il suo trofeo.

In senso orario: Avedon, Strömholm, Tucker, dal web, Armet.

Nelle fotografie che compongono quest'altro collage, l'aspetto predatorio si attenua fino a scomparire. Il fotografo è in primo piano. La donna compare come sua complice; in ogni caso non subisce esposizione, ma anzi resta in secondo piano.


E non potevano mancare gli autoritratti allo specchio con mise en abyme (si ottiene collocando la macchina fotografica tra due specchi).
Vuoi mettere un ritratto che duplica semplicemente la tua immagine con uno che ti moltiplica e ti scompone senza fine, proiettandoti all'infinito? Che ti ricorda il tuo destino di essere uno, nessuno, centomila?


Grande indagatrice di questa forma di autorappresentazione è stata Vivian Maier, che dell'autoritratto come riflesso negli specchi o nei vetri o come proiezione della propria ombra ne ha fatto quasi un'ossessione. Forse indagava le forme in cui il proprio corpo, e il proprio sé, acquistano forma visibile e lasciano la propria impronta nel mondo.
Dopotutto, ognuno si percepisce solo dall'interno. Lo specchio, l'ombra e la fotografia, in quanto catturano l'immagine visibile, permettono di vedersi dall'esterno, come se fossero un terzo occhio separato dal corpo.


Avrete sicuramente riconosciuto molti dei protagonisti degli  autoritratti di quest'ultimo collage, da Steichen a Avedon, da Weston a Friedlander, da Ata Kando a Doisneau a Lisette Model.
Cosa hanno in comune?
Nessuno di loro guarda nel mirino della macchina. Per realizzare il proprio autoritratto, tutti rivolgono lo sguardo allo specchio, che funge da sostituto del dispositivo di puntamento.
Normalmente la macchina nasconde il viso del fotografo, lo occulta con la sua fredda invadenza da apparato tecnologico. Per mostrarsi come volto, il fotografo deve allontanare questa presenza dal suo occhio. Il dispositivo che media tra il suo sguardo e la realtà diventa ora lo specchio, che instaura un diverso rapporto con il corpo del soggetto: quest'ultimo non deve posizionarsi dietro di lui, come succede con l'apparecchio fotografico, ma di fronte. Lo specchio ti invita a stare davanti, la macchina ti costringe a una posizione di retroguardia.
Il rapporto uomo-macchina, quel connubio inscindibile che forma il soggetto fotografo, configura indubbiamente anche un conflitto in cui ognuno cerca di non essere annichilito dall'altro.
Generalmente, quando si fotografa, lo sguardo dell'uomo e della macchina si allineano a cercare una direzione unica, una visione integrata, formando un soggetto unitario. In questi autoritratti il soggetto si è scisso in due e sembra quasi di assistere al tentativo di affermare una certa autonomia dello sguardo oculare rispetto alla visione macchinica. L'agente umano realizza la fotografia guardando ciò che vedono i suoi occhi (tramite il riflesso nello specchio), non ciò che inquadra l'obiettivo. La macchina è una presenza che si affianca a lui, ma non lo oscura e l'uomo si presenta come il vero soggetto dell'atto fotografico.
E tuttavia l'immagine che è sotto i nostri occhi è proprio ciò che ha inquadrato la lente dell'obiettivo.


Può accadere invece che il fotografo occulti ugualmente il viso, ma non dietro la macchina. Negli autoritratti di questo collage, il soggetto si gira volontariamente di profilo, negando l'incontro prima di tutto con se stesso (riflesso nello specchio) e poi con l'osservatore: l'atto di autorappresentazione si configura come un'azione che è di esposizione e insieme di occultamento.


Numerosi sono gli autoritratti allo specchio casuali, scattati per strada o in altri luoghi pubblici, che inseriscono il soggetto fotografante all'interno del paesaggio urbano. L'autoritratto, così, non costituisce l'unico oggetto dell'immagine, ma solo una sua componente. Viene meno l'aspetto intimo della situazione domestica e il tutto acquista quella nota di fuggevolezza e leggerezza tipica della cosiddetta street photography. Anche in questo caso, grande sperimentatrice è stata la Maier, che ci ha lasciato tantissimi autoritratti realizzati per strada.

Vivian Maier



Frequentatissimo è il filone degli autoritratti in specchi convessi, che può vantare una lunga tradizione anche pittorica. La superficie curva deforma la realtà ed espande lo spazio che entra nella scena. Man Ray è stato indubbiamente l'artista che più di tutti ha praticato questo genere di autoritratto, sull'esempio di alcune litografie di Escher.

In alto al centro: Willy Ronis; sotto di lui l'autoritratto di Jeanloup Sieff. Nella terza colonna la fotografia centrale è di Imre Kinszki.

E per finire una serie di autoritratti allo specchio bizzarri e inusuali, che chiudono questa lunga sequenza in cui il soggetto umano, la macchina fotografica e lo specchio hanno dato vita a un fruttuoso e complesso sodalizio, che continua anche oggi, nonostante la funzione-specchio sia stata inserita nei nostri cellulari. Ma trovarsi di fronte a una superficie che ci raddoppia con uno strumento che può catturare per sempre quel riflesso non smetterà mai di esercitare il suo fascino.

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