venerdì 8 dicembre 2017

Le cose non sono ciò che sembrano

Duane Michals, Things are queer, 1973.

«Il riflesso in uno specchio è illusione, così come ogni altra cosa è illusione, semplicemente frutto dei giochi della mente. Ogni cosa non è reale. Ma allora cos'è reale?».
Queste parole sono del fotografo e artista statunitense Duane Michals, un innovatore che negli anni Sessanta e Settanta fu in grado di rompere decisamente con i canoni fotografici dell’epoca, che oscillavano dalla perfezione contemplativa del paesaggio di Ansel Adams all’attimo decisivo di Henri Cartier-Bresson.

Traendo spunto dalle opere di artisti come William Blake, Magritte, De Chirico e Balthus, Michals apre la strada alla concettualizzazione e alla connessione interdisciplinare tra le arti, affrontando temi importanti come il sesso, la morte e l'identità attraverso atmosfere surreali e visionarie.
Negli anni '60 nasce il concettualismo, un movimento artistico che usa ampiamente la fotografia come strumento di rappresentazione e che cerca di analizzarne il linguaggio, studiando il rapporto tra immagine fotografica e realtà. Anche Duane Michals, soprattutto attraverso le sue sequenze, sperimenta continuamente le potenzialità e i limiti della fotografia, dimostrando l'incapacità di questo mezzo di rappresentazione di attingere la realtà.
In una delle sequenze più famose (Things are Queer, ovvero Gli oggetti sono bizzarri) il
gioco consiste in un continuo spostamento concettuale, dove ogni immagine contraddice la precedente. La serie inizia in un bagno dove tutte le relazioni sono corrette e la fotografia sembra pertanto credibile. La seconda immagine, invece, produce disorientamento a causa della presenza di un'enorme gamba che sconvolge i rapporti dimensionali all'interno della scena. Solo nella terza immagine, grazie all'indietreggiare del punto di ripresa della macchina, ci rendiamo conto che quello che sembrava un normale bagno, in realtà è un modello in miniatura presente in una vetrina. La terza fotografia opera il salto in un diverso livello di realtà: il nuovo contesto rimette in ordine le relazioni tra gli elementi, almeno fino all'immagine successiva, nella quale l'osservatore viene ancora disorientato dall'irrompere di un nuovo livello (l'immagine non è che un'illustrazione presente in un libro), che lo costringe a rimodellare la propria percezione del tutto. La macchina indietreggia ancora e vediamo un uomo in piedi in una sorta di passaggio mentre regge il libro, fino a quando ci rendiamo conto che anche questa scena non è che una fotografia incorniciata e appesa sopra un lavandino. Il gioco culmina nel colpo di scena finale, che ci riporta al punto di partenza: l'ultima fotografia coincide con la prima della sequenza, eppure è impossibile che ritragga il medesimo contesto, perché non può essere che il contenitore coincida con un dettaglio in esso contenuto.
La serie "Things are queer" si presenta come una sorta di mise en abyme di matrice surrealista. Essa pone l’accento sulla diversa percezione che si sviluppa nell'osservatore a seconda della porzione di elementi che entrano a far parte dell’inquadratura, e su come, contestualizzando sempre più tali elementi e allargando lo spazio osservato, lo sguardo possa aprirsi a differenti interpretazioni e significati. Ogni fotografia della sequenza "falsifica" quella precedente in quanto, ogni volta, il cambio di prospettiva contraddice ciò che si era pensato prima. Se ne deduce che un'immagine non può mostrare la realtà perché taglia un frammento da un contesto più ampio: basta, infatti, che la macchina arretri la prospettiva perché l'immagine racconti improvvisamente una storia completamente diversa.
Con questa sequenza Michals ci dimostra che la fotografia non riproduce la realtà. Il mondo è strano perché possiamo conoscerlo solo attraverso delle rappresentazioni, che sono frammentarie e di per sé stravaganti. Da una sequenza di immagini apparentementi banali emerge l'irrazionale e il paradosso. Per questo le sequenze di Michals non sono altro che dei dispositivi della visione: accompagnano l’osservatore in modo progressivo e frammentario al contempo, stimolandone e interrogandone la percezione.

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