mercoledì 16 ottobre 2019

"L’amore ai tempi del colera" di Gabriel Garcia Marquez



Diciamo subito una cosa: questo libro parla di amore, ma non è un libro di amore. Non si tratta di una storia romantica, ma di un pretesto narrativo per raccontare dei vari modi di concepire e vivere l’amore ai tempi del colera, cioè in quel periodo, a cavallo tra XIX e XX secolo, che anche in Europa è considerato il periodo della Decadenza, del disfacimento etico, sociale oltre che epistemologico, dei valori e dei sistemi elaborati in precedenza. Nel libro il senso di dissoluzione è reso soprattutto dalle descrizioni dello stato di sporcizia delle strade e dei quartieri malsani della città, del degrado del porto, del fiume e delle sue sponde. Tutto ciò fa da cornice a una storia che ha dell’incredibile: la decisione da parte di un uomo, Florentino Ariza, di aspettare per tutta la vita la donna amata fin dall’adolescenza, sposatasi nel frattempo con un uomo di un ceto sociale superiore. Già dalle prime pagine sappiamo che ciò accade effettivamente. Dopo più di cinquanta anni di attesa, troviamo Florentino in casa della donna amata, rimasta da poco vedova, a rinnovarle il suo sentimento e la sua fedeltà. E finalmente, dopo tanta attesa, riuscirà a realizzare il suo sogno, vivendo in vecchiaia, su un battello che percorre su e giù il grande fiume, l’amore con Fermina Daza, un amore senza nessun tipo di vincolo, slegato dalle convenzioni del matrimonio o dalla rigidità delle regole sociali, un amore ridotto alla sua essenza:


“Era come se avessero saltato l’arduo calvario della vita coniugale e fossero andati senza altre circonvoluzioni all’essenza dell’amore. Passavano il tempo in silenzio come due vecchi sposi scottati dalla vita, oltre le trappole della passione, oltre gli scherzi brutali delle illusioni e i miraggi delle disillusioni: oltre l’amore. Perché avevano vissuto insieme quanto bastava per accorgersi che l’amore era l’amore in qualsiasi tempo e in qualsiasi parte, ma tanto più intenso quanto più era vicino alla morte.”

La consapevolezza dell’esiguità del tempo rimasto da vivere e dell’imminenza della morte ha la capacità di spogliare di qualsiasi valore le sovrastrutture sociali e i pesi dei vincoli istituzionali e morali, oltre che le urgenze illusorie delle passioni, e di condurre all’essenza, al cuore di un rapporto d’amore: la semplice e pura bellezza di stare insieme e di godere della compagnia reciproca. Al cospetto della morte, la verità getta il velo di ipocrisia che la ricopre.

Lo stile di questo romanzo è diverso dal lirismo melanconico di Cent’anni di solitudine, in quanto più incline all’ironia e all’umorismo sottile. Ciò che affascina è la capacità dello scrittore di raccontare la vita dei suoi personaggi senza nessuna ombra di giudizio morale, con il distacco di chi guarda con disincanto e senza illusioni alla storia e al cuore degli uomini e delle donne, ai loro vizi, alle loro miserie. In questo romanzo non ci sono eroi: il ritratto di nessun personaggio emerge privo di ombre e di ambiguità. Il protagonista, soprattutto, è una figura scialba, malinconica, emotivamente fragile e fisicamente poco attraente, che scala la piramide sociale non per i suoi meriti e che come unica virtù annovera quella di perseguire con tenacia e ostinazione il suo proposito di vivere con Fermina dopo la morte del marito. Anche lui, come tutti gli altri personaggi del libro, hanno una doppia vita: quella pubblica, esibita, socialmente riconosciuta e accettata, e quella privata, fatta di tradimenti, piccole e grandi debolezze. Ma non c’è nessun accenno di disagio morale. Ogni miseria è vissuta dal personaggio e presentata dall’autore senza alcun senso di colpa da parte del primo e senza ombra di giudizio da parte del secondo. L’ipocrisia sociale è accettata dallo scrittore e dalla variegata umanità del romanzo come un elemento naturale, costitutivo di ogni comunità, che conserva il proprio lato ombroso anche sotto il sole cocente del Caribe. E le regole di ogni società e di ogni istituzione non si pongono l’obiettivo della felicità del singolo. L’espressione del dottor Juvenal Urbino, marito di Fermina Daza, sono illuminanti da questo punto di vista:

«Ricordati sempre che la cosa più importante di un buon matrimonio non è la felicità ma la stabilità».

Personalmente giudico i momenti migliori di questo romanzo l’incipit e il finale, dove l’amore che non ha tempo è fatto vivere proprio nell’età meno propizia, la più infelice e nello stesso tempo la più sincera, perchè più libera dalle convenzioni: la vecchiaia, con la sua decadenza fisica e le sue disillusioni, ma adoperando una delicatezza e una partecipazione che lasciano il segno.

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