sabato 31 agosto 2019

Francis Bacon. La carne messa a nudo

Francis Bacon, Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion, 1944, Londra, Tate Gallery

Difficile parlare dell’opera di Francis Bacon. Prima di poterlo fare, occorre innanzitutto lasciarsene toccare nel profondo; mettere il proprio corpo di fronte a quei corpi sfigurati eppure vitali e abbandonarlo alle sue reazioni irriflesse, dargli la libertà di vacillare e com-muoversi, di far risuonare i propri muscoli e nervi all’unisono con quelli che si straziano sulla tela, sentire la pelle assottigliarsi mentre sotto la carne preme, permettere che la bocca si disponga a un grido muto di fronte a quella, terribile e vuota, di quell’Innocenzo X che Bacon trae da Velázquez e che sarà la sua ossessione.
In un’intervista, l’artista parla dell’origine del suo amore per la pittura. Da giovane era stato molto colpito da un quadro di Poussin (La strage degli innocenti); a Parigi aveva coltivato un’ammirazione sconfinata per Picasso e aveva cominciato a maturare la decisione di diventare pittore. Ma ciò che lo spinse davvero a cominciare a dipingere fu una macelleria. “Mi è scattato qualcosa davanti al banco della macelleria dei magazzini Harrod’s”, afferma l’artista, e aggiunge "… noi siamo carne, siamo potenziali carcasse. Ogni volta che mi reco dal macellaio mi stupisco di non essere lì io al posto dell'animale".

domenica 25 agosto 2019

L’uomo moderno tra l’Essere e il Nulla. Le statue in cammino di Giacometti.

Alberto Giacometti, L'homme qui marche I, 1960.

Avrà vissuto un’esperienza davvero unica lo spettatore che nel 2014 ha potuto visitare la mostra allestita alla Galleria Borghese, dedicata a uno dei più grandi scultori del Novecento, Alberto Giacometti, con opere dell’artista pervenute da vari musei e collezioni. Chi si è aggirato tra quelle magnifiche sale, quotidianamente adornate dalle statue più rappresentative della concezione classica e barocca della magnificenza del corpo umano, poste in dialogo con le figure dello scultore svizzero, esili come le ombre della sera, avrà potuto drammaticamente constatare la dissoluzione della forma e la smaterializzazione che ha subito la figura umana nell’arte dopo la frattura operata dalle avanguardie dei primi decenni del secolo.

venerdì 16 agosto 2019

Il selfie come atto performativo corporeo



E’ il 2002 quando la fotocamera viene stabilmente inserita nei telefoni cellulari. Qualche anno dopo, con l’arrivo del wifi e dei social network, si completa il percorso evolutivo che porta la fotografia ad essere un medium protagonista nella definizione del linguaggio della rete.
Contemporaneamente ha luogo un’altra evoluzione:  non più unicamente cassetto dei ricordi, supporto stabile della nostra memoria, la fotografia istantaneamente prodotta e condivisa diventa strumento non solo per conservare degli istanti di vita, ma per esperirli, attraverso la loro trasformazione in immagini. Da materializzazione di memorie e ricordi che si desidera conservare nel tempo, la fotografia diventa esperienza quotidiana immediata, che mette insieme automatismo e rappresentazione iconica.

domenica 11 agosto 2019

La fotografia è un corpo a corpo

Vivian Maier, Autoritratto, 1954.

Chi di noi è andato abbastanza vicino a un quadro di un artista come Van Gogh, ha sicuramente avuto modo di rendersi conto della veemenza e della rapidità del gesto con cui il pittore stendeva il colore sulla tela: le pennellate larghe, vigorose, materiche, ci fanno intuire il movimento del braccio e la tensione frenetica delle sue membra al lavoro. Nel campo dell'arte, infatti, il corpo non costituisce unicamente un oggetto di rappresentazione; esso entra all’interno della scena non solo come contenuto di figurazione, ma anche come traccia dello stesso gesto artistico. E quest’ultimo è in primo luogo un movimento corporeo. Proprio il corpo dell’artista è lo strumento attraverso cui si esplica l’azione del dipingere e, nel far ciò, esso imprime dei segni sulla superficie, che vengono definiti “marcature” dell’autore. Si tratta delle tracce che rivelano il movimento e i gesti dell’artista, ad esempio le sue pennellate o incisioni o schizzi di colore. Un caso limite è rappresentato dall’action painting di Pollock, le cui tele sono costituite non da rappresentazioni di oggetti, ma esclusivamente da marcature soggettive, dove il segno diventa fisicità, movimento ritmato del corpo. L’artista entra nella tela e diviene tutt’uno con il dipinto, prendendone possesso con una sequenza di gesti: pennellate energiche, spazzolate di vernice, spruzzi o gocciolature del colore direttamente sulla superficie del quadro.

mercoledì 7 agosto 2019

Mario Giacomelli. I segni del corpo, il corpo come segno

Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1966 - 1968

Non c’è solo il corpo tragico delle guerre, delle pestilenze e delle carestie.
E’ insito nella nostra stessa materia biologica il cammino verso la decadenza, il lento logorio della carne, l’inaridirsi della pelle che si prosciuga e s’increspa, l’inarrestabile accasciarsi delle forme.
Con questo spirito, Mario Giacomelli realizza, tra il 1955 e il 1957 (ma ci ritornerà molte altre volte fino ai primi anni ottanta), una serie di fotografie agli anziani ricoverati nella casa di riposo di Senigallia, sua città natale. Un progetto che dapprima si chiamerà Vita d'ospizio e che poi prenderà come titolo il verso di Cesare Pavese Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
In questi scatti, lontani da ogni finalità documentaria, è proprio lei, l’ospite evocata dal poeta, che fa aleggiare la sua presenza invisibile tra il bianco delle lenzuola e le sbarre di ferro dei letti. Per Giacomelli questi corpi esposti e fragili, che mostrano impietosamente lo scempio del tempo, spesso colti nella nudità della carne e della solitudine, hanno la forza terribile e struggente di una metafora che s’incarna, in senso letterale, facendosi carne: la vita è questo, un corpo a corpo, e queste fotografie ne mostrano l’ultima ripresa.

domenica 4 agosto 2019

Il corpo dei bambini tra storia e censura

Nick Ut, Napalm girl, 1972, con la censura applicata per protesta da Espen Egil Hansen.

Una delle immagini passate in rassegna da Susan Sontag, nel suo Davanti al dolore degli altri, dimostrare l’importanza assunta da queste nella storia del Novecento, è la fotografia conosciuta come “Napalm girl”, un’icona di quel secolo e del conflitto in Vietnam in particolare, la prima guerra veramente mediatizzata. Ad essa, Sontag riconosce il ruolo di aver contribuito a rovesciare l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti delle ragioni del conflitto, in quanto metteva in drammatica evidenza come questo non risparmiasse affatto le popolazioni civili. Nella fotografia ripresa da Nick Ut, Premio Pulitzer e World Press Photo 1973, il piccolo corpo nudo della bambina Phan Thi Kim Phuc, che avanza verso di noi col suo urlo disperato, è l’oscenità assoluta fatta figura, l’incarnazione straziante e insopportabile di tutto l’orrore della guerra, “e insieme – aggiunge E. Grazioli -, paradossalmente, l’affermazione stessa della vita, del corpo, che non rinuncia, che fugge” (“Corpo e figura umana nella fotografia, p. 194).