mercoledì 6 novembre 2019

Radici di pietra



E' ormai il terzo anno che una coppia di rondini si ostina a scegliere la plafoniera, appesa su una parete del cortile interno, come base per il proprio nido. Per più di una settimana si affannano avanti e indietro, recando nel becco terra, fango e ramoscelli per cementare le pareti di quel piccolo ma solido rifugio. Mi ricordo la meraviglia che provai due anni fa, quando mi accorsi di questa presenza discreta, laboriosa e tenace.  Lo stupore fu ancora più grande l'anno successivo, quando un giorno di aprile vidi che erano ritornate ed esattamente come l'anno prima avevano ripreso a costruire il loro nido. Mi commuove il fatto che abbiano scelto il nostro palazzo come loro casa; mi emoziona il loro ostinato e svelto andirivieni. In barba a tutte le mie pretese di razionalità, vedo in questo qualcosa di più di una semplice legge di natura e mi glorio del fatto che quei piccoli esseri ci abbiano scelto.
Anche questa primavera, le piccole nomadi sono arrivate e hanno costruito la loro dimora. Hanno covato tre minuscole uova e, quando i piccoli hanno imparato a volare e sono stati abbastanza forti, sono andati via tutti insieme. Il nido è rimasto vuoto per qualche giorno, poi la signora delle pulizie ha tolto via tutto e ha smacchiato la plafoniera. Così quell'oggetto, che fino a poco tempo fa era il testimone inerte e privilegiato del rinnovarsi incessante della vita, ora è tornato ad essere una insignificante plafoniera appesa a un muro grigio e vuoto. La guardo, chiedendomi se tutto questo ha un senso: partire, tornare, migrare.

Anch'io un giorno di dodici anni fa ho preso la mia valigia e sono salita su un treno che mi ha portato qui, in terra padana. Ho lasciato la mia terra, nel basso Salento e, con la prospettiva di un futuro migliore, sono venuta a lavorare in quest’altra pianura, dove ho messo su casa e famiglia. Il Salento: antica terra dei Messapi e colonia della Magna Grecia, dalle basse Murge fino alle aspre scogliere di Santa Maria di Leuca, con le torri costiere che testimoniano ataviche paure di invasioni straniere. Lembo di terra proteso nel Mediterraneo, che per secoli ha guardato a quel mare con inquietudine, subendo il fascino e la minaccia di coste lontane. Terra di confine, frontiera estrema, finis terrae. Avamposto metafisico, simbolo di un trovarsi al limite, di uno stare al cospetto dell’altrove. Terra sanguigna ricamata di pietre bianche, distese arse dal sole impietoso e dalla canicola estiva, sterminati uliveti dal verde severo, piante di fichi d’india dalle robuste spine, che poggiano appena la loro breve radice tra le rocce che si inerpicano in prossimità del mare. Ho lasciato lì la tomba di mio padre, che custodisce paziente anche parte di me e dei miei ricordi.
Quando mio padre morì, presi alcune pagine, quelle dove avevo messo in versi la tormentata appartenenza al mondo della mia infanzia e giovinezza, le deposi nella bara, sotto i suoi piedi. Ora il pensiero di quei fogli rosi dal tempo e dai vermi, che marciscono insieme ai poveri resti della carne, mi dà un senso di malinconica tenerezza.
Mio padre era un contadino con il viso solcato dal sole e dal tempo. Le rughe sul volto e sulle mani erano i segni di una vita trascorsa al feroce contatto della terra e della pietra. Una vita dura, che tuttavia riusciva a sciogliere nel ricordo e nel racconto.
Mio padre era un cantastorie. Ricordo le tante sere d’estate sature delle sue leggende e storielle, quando in piedi, nel piccolo uditorio familiare, faceva rivivere con ironia e sagacia quel mondo passato e in quei momenti, nel volto livido, un lampo illuminava i suoi piccoli occhi grigi e incavati. Storie di santi, leggende profane, aneddoti curiosi. Scivolava via così la sera, tra echi di un mondo che ormai stava per tramontare per sempre.
Ho vissuto così la mia infanzia, ospite provvisoria dei mesti epiloghi dell’antica comunità contadina. Quella comunità descritta così efficacemente da tanta letteratura meridionalista della seconda metà del secolo scorso, la comunità di Fontamara, per intenderci: non le cartoline di sapore bucolico, con allegri  paesaggetti di uomini aitanti e contadinelle rubiconde e ammiccanti, abbigliati in lindi costumi tradizionali e intenti a raccogliere l’uva o il grano in pose spensierate e canterine. Si, è vero, i contadini che ho conosciuto io cantavano anch’essi, ma il più delle volte era per non sentire la fatica e, in tempi più lontani, il morso della fame, oltre che per tenere vivo e saldo il legame con i propri compagni di lavoro. Una comunità come quella descritta da Silone, grezza e ignorante, allora si diceva arretrata, ma mai veramente volgare; non che mancassero i modi di fare meschini e miserabili, ma sono quelli che nascono da chi è costretto ogni giorno a fare i conti con la sopravvivenza di sé e della propria famiglia, tra ingiustizie e sopraffazioni di ogni genere e alle prese con una terra a volte generosa, spesso aspra e spietata.
Già all’epoca della mia infanzia, l’avvento della modernità aveva quasi del tutto disgregato le maglie della struttura profonda di quella società. Rimanevano alcuni relitti di quel modo di vivere comunitario, che affrontava insieme il proprio duro destino di fatica e di prevaricazione. Per lunghi secoli quello della proprietà privata della terra era rimasto un mito pericoloso e i contadini perduravano nell’amara condizione di mezzadri alle dipendenze dei pochi latifondisti del feudo. Di fronte a questi occorreva togliersi il cappello e usare l’appellativo “signuria”, in segno di riconoscimento dello status di signore feudale. Nei racconti di mio padre, negli aneddoti arguti che facevano emergere l’astuzia  e la scaltrezza del furese, cioè dell’uomo di campagna, di fronte all’indolenza o alla stolidezza dei padroni o dei loro amministratori, ritrovavo l’ansia di riscatto di quella gente, un bisogno di affrancamento e di affermazione della propria dignità, da secoli umiliata.
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Quando ripenso a quegli anni, un altro volto sale alla mia memoria con forza. È il volto rugoso di una vecchia, curva e oscillante sul bastone nodoso, scarna e minuta sotto i lunghi abiti scuri. Dal fazzoletto nero legato al collo spuntava una testa smunta; i capelli grigi erano intrecciati e avvolti a crocchia sulla nuca; nella mano sinistra recava un santino, l’immagine colorata del suo protettore, San Paolo, il santo delle tarantate.
Il suo nome, gridato da qualche giovane mamma insolente, agiva da spauracchio sui bambini, impressionati da questa specie di strega delle fiabe che si aggirava nelle strade recitando sommessamente parole che suonavano come la formula di un incantesimo. – Arriva la Michela Margiotta. Correte bambini, correte! Arriva la Michela Margiotta –. Ne seguiva un fuggi fuggi vociante dei più piccoli. I più anziani, invece, mostravano per quella figura un tacito riguardo, lo stesso che si prova al cospetto di una cosa sacra. Non di una megera delle fiabe si trattava infatti, ma di una vecchia tarantata, che percorreva il paese recitando preghiere e raccogliendo le offerte a San Paolo, in segno di ringraziamento per il miracolo della guarigione ricevuto molti anni prima. Fin dalla giovinezza era stata colpita dal morso della taranta e puntualmente, ogni estate, nella ricorrenza della festa dei Santi Pietro e Paolo, si recava nella Cappella di San Paolo a Galatina, dove rievocava le tappe del rito che aveva eseguito nel proprio domicilio e che l’aveva fatta guarire anni prima, il quale si concludeva con il ringraziamento al Santo, la recita della preghiera e la consegna delle offerte raccolte durante l’anno. Tutta la sua vita era stata segnata dal quel morso; così, dopo il miracolo, aveva dedicato la propria esistenza al celeste protettore. Ricordo i suoi occhi acquosi, le vene gonfie delle mani, la fronte rugosa; e tuttavia, nell’aspetto umile e scarno, il suo sguardo non era mai sommesso, ma saettava a tratti di una luce singolare, un lampo di furore e di malia.
Già negli anni della mia fanciullezza, il tarantismo era un fenomeno che andava scomparendo e solo i più anziani riuscivano a partecipare coralmente e sentitamente al rito. Per i più era diventato un’attrazione turistica a cui assistere con distacco, da semplici spettatori. Per quanto riguarda noi bambini, invece, quei discorsi sulle tarantate riuscivano ancora a impressionarci; li ascoltavamo con un certo timore, riuscendo a percepire l’aura mitica e magica di quel rito, in cui sacro e pagano intrecciavano insieme arcani simboli che rimandavano all’alba della nostra civiltà. Il rito esorcistico avveniva nello spazio rituale delimitato da un lenzuolo bianco cosparso di nastri dai colori sgargianti. Circondata da una piccola folla di persone, famigliari, vicini di casa, suonatori, una donna, vestita di una lunga tunica bianca e con nelle mani i due capi di un fazzoletto, ballava la danza delle tarantate, la pizzica. Ballava, ballava incessantemente fino allo sfinimento, con ritmo a volte frenetico, scosso da movimenti esaltati e volteggi convulsi, a volte lento, con dondolamenti malinconici del corpo e oscillazioni della testa allucinata, i cui capelli sciolti e scompigliati ricordavano la chioma di Medusa. La danza era intervallata da momenti di riposo, caratterizzati da uno stato di inerzia stuporosa dalla quale riemergeva soltanto al riattaccare della musica; allora, tenendo gli occhi chiusi e il viso contratto in una smorfia di durezza, la testa cominciava a muoversi a destra e a sinistra battendo il tempo, le gambe si flettevano e il corpo si schiudeva strisciando sul dorso e inarcandosi, e qui la donna diventava ragno, sacerdotessa della Madre Terra che riaffiora con i suoi istinti primordiali e con la forza di riti pagani che inutilmente le istanze della ragione positiva hanno tentato di ricondurre nell’ambito dell’interpretazione patologica e quelle della morale Cristiana hanno cercato di soffocare o al limite di disciplinare. I movimenti della tarantata diventavano sempre più ebbri e furiosi come quelli di una menade invasata; talora gli ondeggiamenti del bacino mimavano l’amplesso sessuale e le istanze della Terra rivelavano tutta la loro urgenza e vitalità. E quando, dopo un frenetico e vertiginoso caracollo, la danza convulsa cessava e il corpo sfinito e sudato si riposava finalmente sul lenzuolo, il rito poteva dirsi concluso, il Santo aveva fatto la grazia.
Nel rito di esorcismo venivano evocati e fatti defluire i conflitti interiori che «mordono» nella profondità dell’essere; i simboli coreutici, musicali e cromatici configuravano un orizzonte allo stato di crisi che altrimenti sarebbe insorto in maniera devastante e distruttiva. Ciò che appariva puro delirio, tentazione estrema di ritorno al selvaggio, al disordine, al caos primordiale, era in realtà un’elaborazione culturale, mitico-rituale, per dare forma, colore e musica a ciò che è informe, oscuro e senza suono: l’abisso dell’angoscia di un’anima in crisi.
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Da piccola trascorrevo le calde estati in campagna. A quel tempo la coltivazione prevalente di quelle zone nella stagione estiva era il tabacco. Lunghe piantagioni si snodavano in filari stretti e regolari, attraverso i quali le donne infagottate stavano chine a raccogliere le grandi foglie verdi e appiccicose, dall’odore pungente e intenso. Bisognava coprirsi bene, altrimenti la pelle si imbrattava di una sorta di grasso scuro e viscoso, dal sapore fortemente amarognolo, prodotto dalla pianta. Si cominciava prima dell’alba, quando il cielo si colorava delle tenui tinte dell’aurora. La brina fredda ricopriva la campagna e, stando chini sulle piante roride, si inzuppavano tutti i vestiti. Le gocce di rugiada che si depositavano nel calice dei fiori del tabacco avevano un sapore dolce, quasi mieloso e i bambini si divertivano a far zampillare il liquido direttamente nelle bocche, scuotendo la cima della pianta. Nei periodi di maggiore rigoglio della messe, si provvedeva alla raccolta anche di pomeriggio, quando il sole era ancora alto e le api ronzavano instancabili attorno ai contadini sudati e unti. Le foglie bollenti venivano ordinate in mazzetti e adagiate su teli di iuta, per poi essere cucite insieme con lunghi spaghi e appese all’aperto su grandi telai per farle seccare. Ai bordi dei filari, tra le macchie di colore intenso dei rosolacci e dei fiordalisi, gli alberi di fico mostravano i loro frutti  sensuali dischiusi in dolce invito, mentre l’aria sonnolenta vibrava del monotono concerto delle cicale, che ripeteva ossessivamente la stessa nota.
Poco distante dal campo, ai piedi della collina, scendeva nelle profondità del sottosuolo una vora, cioè una voragine naturale, come tante ce ne sono nel Salento, segno di quel carsismo tipico della zona. All’esterno erano visibili una depressione e la piccola entrata di una cavità cavernosa, che si inoltrava per aspre gallerie, fino alle profonde falde acquifere. Ma per me bambina quello era un enigma incomprensibile: a cosa portava quell'antro oscuro, quel pertugio scosceso e senza uscita che si perdeva nelle viscere della terra? Una porta che si apriva al mistero.
Mentre i nostri genitori erano piegati nel loro lavoro, io giocavo insieme agli altri bambini i giochi innocenti dei quattro cantoni o del nascondino.  Ricordo che il mio nascondiglio frequente era il tronco dritto e levigato di un possente eucalipto che si ergeva al limitare di una stradina che attraversava il campo. Le foglie di quell’albero emanavano un odore dolce e delicato e nel silenzio del momento, immobile dietro al tronco per non essere scoperta, il mio sguardo andava alla vora di fronte. Allora un senso di inquietudine mi prendeva e per un momento tutta l’attenzione si concentrava in quel punto. Di colpo scompariva tutto, anche le voci concitate dei miei compagni  impegnati nel gioco, e tutto s’immergeva nel silenzio; solo il canto monocorde delle cicale assecondava il battito del mio cuore. Mi sembrava di sprofondare nella voragine oscura che s’inabissava nel ventre della terra e di sentire le voci dei fiumi sotterranei. Immaginavo che quel varco fosse uno spiraglio che la natura apriva sui suoi segreti più profondi e questo pensiero mi riempiva di un dolce turbamento. Ancora oggi è questa la sensazione che mi infonde l’ascolto delle cicale negli assolati pomeriggi estivi, un tuffo improvviso nell’atmosfera sospesa di tanti anni fa, un sostare al di fuori del tempo sul mistero liquido e informe delle viscere della terra.
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Negli ultimi anni, leggere lo sguardo di mio padre era per me quasi un atto da tragedia: sotto le sue palpebre di gesso c’era sempre quella luce che viene da una esistenza solida, ferma sulle proprie radici, consonante. Io invece, fin dalla prima adolescenza, ho cominciato a vivere una irrimediabile opposizione tra l’ambiente in cui ero nata e un bisogno di emancipazione e di libertà dai troppi vincoli e tabù di quel mondo arcaico. Anche io ho usato, con la mia giovanile superbia e con tono saccente, l’aggettivo “arretrata” riferito a quella cultura. E sicuramente non poteva che essere così, ma quell’ansia di liberazione doveva portarmi a pagare un caro prezzo: il riconoscere la mia discorde frammentarietà, il non avere una identità salda e univoca, ma di vivere con le contraddizioni di chi oscilla tra il vecchio e il nuovo, tra la nostalgia dell’antico e il proprio essere immersi nella modernità, tra quel sottofondo ancestrale che ognuno porta dentro di sé come retaggio della propria prima formazione e la consapevolezza della propria individualità, che non può più scendere a compromessi con gli antichi vincoli e precetti.
Le mie radici sono i volti e i luoghi che, dal fondo indistinto dei ricordi, emergono con vigore e nitidezza. Il volto di mio padre, il volto allucinato delle donne tarantate sconvolte dal delirio orgiastico della danza, la musica ossessiva della pizzica, i campi arsi dal sole, le sagome contorte degli alberi di ulivo centenari, l’intrico delle loro radici che si sollevano dal suolo, le casette e i muriccioli bianchi fatti di pietre grezze incastrate l’una con l’altra in ritorte geometrie, le volute deliranti della pietra leccese forgiata dalla follia del Barocco sulle facciate e sugli altari delle cattedrali, le spiagge battute dal grecale. Sono questi i luoghi della mia anima e della mia nostalgia.
Non sento più di appartenere a quella terra. Quando torno in Salento per le vacanze, avverto fortemente che il mondo della mia giovinezza è irrimediabilmente morto, seppellito da una modernità arrogante e appiattita, dove le storie di mio padre risuonerebbero stonate.  Di quel ponte sul Mediterraneo, punto di incontro di tante civiltà del passato e dove ogni pietra respira di cultura millenaria, oggi rimangono pochi monumenti e poche persone di buona volontà, che, in epoca di globalizzazione economica e culturale, cercano di dar memoria e vita a quelle pietre e di riappropriarsi della propria identità e della propria coscienza.
Della terra in cui vivo attualmente, invece, conosco poco la storia. Abito in un quartiere nato da pochi anni, che non ha nemmeno un centro storico, in cui non ci sono anziani e dunque non c’è memoria. Uno dei tanti quartieri un po’ anonimi che affollano le zone alle periferie di Milano. Mi piacerebbe abitare in una cittadina che abbia una storia da raccontare, come abbondanti ce ne sono in questa bella pianura padana, così generosa e ospitale e dal passato così glorioso, culla di tanti fermenti politici e culturali.
Per adesso mi sento come sradicata; non ho più una terra a cui sento di appartenere veramente. Sono come un albero di ulivo centenario, che ha il tronco scavato e così contorto da sembrare in procinto di sradicarsi dal suolo e fuggire via. Forse questa è la condizione di molti di quelli che emigrano in terre lontane e stanno via molti anni: è come se si oltrepassasse un ponte lungo il quale è poi difficile ritornare indietro. Anzi: è come se si rimanesse per sempre su quel ponte a osservare le due rive con il cuore gonfio di nostalgia per qualcosa che si sa perduto per sempre.
Sono fortunate le mie piccole rondini: il loro andirivieni è scolpito in una legge di natura immutabile. Non si fanno certo tante domande, loro. Come sempre, chi non è costretto a scegliere è anche al riparo da ogni rimpianto. Io non so se ho avuto scelta; per ora rimango su quel ponte a guardare e il pensiero di quei fogli ingialliti, sepolti insieme a mio padre, mi mette addosso un senso di pace, che riconcilia l’inquietudine di chi si sente un viandante senza tempo. Nei momenti di maggiore consapevolezza, sono ancora dietro quel tronco di eucalipto, a mirare inquieta la vora che sprofonda nelle viscere profonde della terra, mentre il canto monotono delle cicale scandisce i battiti del mio cuore, e sono presa dal forte desiderio di ballare la danza delle tarantate, di ballare senza sosta per  ritornare al caos primigenio, per ricongiungermi al mistero profondo e liquido che scorre nel sottosuolo, nelle intimità oscure che nessuna ragione è in grado di rischiarare.

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