domenica 1 dicembre 2019

La fotografia è una relazione

Lee Friedlander, New York City, 1966.

Ebbene sì, ho un debole per questo tipo di fotografie, quelle dove compaiono specchi, ombre, pezzi di corpo del fotografo, soggetti che guardano in macchina.
Insomma, tutte quelle fotografie che mettono in scena qualcosa che fa parte della natura stessa di questo medium: il suo essere, cioè, prima di tutto non un oggetto, ma una 'relazione'.
Pittura, scultura, letteratura possono nascere nel chiuso di una stanza. Parole, pennellate e colpi di scalpello scaturiscono dalle mani dell'autore, che segue il flusso dei suoi pensieri, della sua ispirazione, del suo tempo interiore.
La fotografia no.
La fotografia non è come Atena, che viene fuori tutta intera dalla testa del padre Giove.
Il fotografo sa bene che deve, per agire in quanto tale, costruire un rapporto. Con la macchina, prima di tutto, con la quale condivide l'atto creativo e che possiede un suo sapere e una sua 'personalità'. Con il mondo, poi, perché prima di fotografare idee, ciò che si inquadra, ciò di cui si preleva il riverbero luminoso, sono le cose che esistono intorno a noi. Ed esistono indipendentemente da noi che le guardiamo.

Self-portrait in Mirror, Paris (c.1951). Edouard Boubat

La fotografia mi piace perché, costitutivamente, è una relazione con l'Altro. Dove l'Altro non individua soltanto i volti delle persone che inquadro con il mio obiettivo, ma anche il paesaggio intorno a me, gli alberi, gli edifici, e la luce del sole che cambia, e il colore dell'ombra che le tiene dietro. E la macchina che reggo nelle mie mani e che cerco di imbrigliare e assoggettare alla mia volontà.
E la fotografia che prediligo è proprio quella che mette in scena questa relazione a tre, tipo quella che ci hanno lasciato autori come Friedlander, Arbus, Jeff Wall, e la stessa Vivian Maier, con la sua magnifica curiosità di fotoamatrice autodidatta.
La fotografia che ricorda il suo essere una relazione con l'Altro, con ciò che non è assimilabile a me, che resta irriducibile, inafferrabile. Che conserverà sempre la sua autonomia, la sua ineliminabile alterità.

Vivian Maier

Poi una fotografia può diventare qualunque cosa: messaggio pubblicitario, opera d'arte, documento di cronaca. Ma nell'istante del clic è solo è soltanto un rapporto con qualcosa di altro da me, il cui fantasma aleggerà sempre sulla sua superficie. A volte come testimone, spesso come rimpianto, in qualche circostanza come ingombro o monito senza tempo.
Un fantasma di cui siamo responsabili, perché abbiamo scelto di portarlo via con noi.
Adoro queste fotografie dove, alla fine, quella relazione si vede tutta intera, e il soggetto che ha eseguito quel clic vede se stesso mentre compie il gesto. Fa parte anche lui di quel fantasma che aleggia sulla superficie. Succede la stessa cosa di fronte ai nostri autoritratti. Vediamo noi stessi, mentre cerchiamo di trovare una nostra relazione con il mondo e per un attimo ci chiediamo chi davvero sia quella figura, stupendoci quasi che sia il nostro stesso segno, che abbiamo scelto - anche lui come il resto del mondo - di portare via con noi.

André Kertesz, Self portrait with friends, Hotel-des-terrasses, Paris 1926

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