giovedì 31 agosto 2017

LE GEOMETRIE INTERIORI DI FRANCESCA WOODMAN



CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

Nel capitolo precedente abbiamo visto i lavori di alcune artiste che hanno esplorato l’autorappresentazione come strumento per stigmatizzare la costruzione sociale delle identità di genere e provare a costruirne di nuove, liberate dai canoni della cultura patriarcale. In questo capitolo passeremo in rassegna delle autrici che, pur integrando spesso questa stessa istanza, finalizzano l’autorappresentazione a una funzione più introspettiva, alla conoscenza del proprio sé, alla ricerca della propria identità, alla definizione dei propri confini in relazione al mondo esterno e all’altro.
Una caratteristica di questo tipo di autorappresentazioni è il ruolo attoriale e quindi performativo che sta alla base del processo, in quanto l’autoritratto fotografico richiede al soggetto di incarnare personalmente il ruolo che intende rappresentare, trasformandolo, nello stesso tempo, da regista in attore, in grado di servirsi di scenografie, di maschere e travestimenti e sperimentare così fisicamente la plasticità del proprio Sé.
Parlando di esplorazione dell’identità, tuttavia, non si intende restringere la ricerca dell’artista dentro i confini di un narcisismo sterile. Quella indagata dall’autore è quasi sempre una condizione universale, fatta attraverso la propria immagine e il proprio corpo.


Corpo e spazio, presenza e assenza, identità e metamorfosi: sono questi i temi dell’opera fotografica di Francesca Woodman, un’artista dal grande talento visionario, che continua ad affascinare dopo trent’anni dalla sua scomparsa. Nata nel 1958 a Denver, vissuta per lunghi periodi in Italia, muore suicida a New York a soli 23 anni, lanciandosi nel vuoto da un palazzo di New York.
Dal 5 settembre al 6 dicembre 2015, il Moderna Museet di Stoccolma ha allestito una grande retrospettiva dedicata all’artista statunitense, mettendo assieme oltre cento fotografie della sua collezione nella mostra On Being An Angel. Questo era anche il titolo di una serie di fotografie realizzate da Francesca Woodman a Providence, Rhode Island, nel 1977.

lunedì 28 agosto 2017

Fuga dallo sguardo. “Film” di Samuel Beckett



E se lo sguardo avesse un effetto mortale sul guardato e quest'ultimo cercasse di fuggirlo a tutti i costi?

Nel 1964 Samuel Beckett termina la stesura della sua unica sceneggiatura per il cinema. Si tratta di “Film”, un cortometraggio di 22 minuti diretto da Alan Schneider. L'attore protagonista è Buster Keaton, che era stato negli anni '20 uno dei più importanti attori e registi del cinema muto.
Il film è totalmente privo di suono, a parte lo “shh!” onomatopeico pronunciato da una donna all'inizio. La parola e l'elemento uditivo hanno lasciato il posto a un silenzioso agire, perché tutto il film si concentra sulla funzione della vista.
Il nucleo centrale del film è il celebre assunto del filosofo empirista Berkeley: “esse est percipi” (l'essere è essere-percepito), cioè l'essere di ogni cosa, compreso l'uomo, consiste nel suo venir percepito e nient'altro.

domenica 27 agosto 2017

LO SPECCHIO RIVELATORE - LA DILATAZIONE DELLO SPAZIO PITTORICO IN TRE CAPOLAVORI DELL’ARTE



L’arte ha spesso cercato di invitare lo spettatore, nelle modalità più varie, a indagare lo spazio oltre il limite stabilito dalla cornice, fino a risucchiarlo letteralmente nella scena. A questo fine, molte volte si è servita di un elemento che ha posizionato strategicamente nell’ambiente raffigurato sulla tela: uno specchio. Questo oggetto è in grado di espandere la scena rappresentata, di dilatare lo spazio pittorico, di includere in esso anche il “fuori campo”, di mostrare ciò che è visibile e ciò che non è visibile, di consentire visioni del reale nel reale, come degli spazi rubati, dei riflessi, delle duplicazioni.

sabato 26 agosto 2017

LO SPECCHIO AMBIGUO: IDENTITÀ, DOPPIO, DEFORMAZIONI



IL DOPPIO NELLO SPECCHIO

Gli psicologi dell’età evolutiva sanno quanto lo specchio sia importante nel processo di acquisizione della propria identità da parte del bambino. Il legame tra specchio e identità viene da molto lontano, se si pensa che già Socrate e Seneca raccomandavano lo specchio come strumento per conoscere se stessi.

In tutte le espressioni d’arte e non solo, dalla letteratura al cinema, dalla pittura al teatro, numerose sono le testimonianze circa le implicazioni profonde del rapporto con la propria immagine allo specchio; e in particolare, in quest’ambito, la problematica dell’immagine allo specchio si confonde spesso con il tema del doppio.

Rodney Smith



I personaggi delle foto di Rodney Smith sono collocati in paesaggi sospesi tra realtà e immaginazione, dove vige la logica bizzarra del sogno e del nonsenso.
Nato nel 1947 negli Stati Uniti, Rodney Smith è un fotografo surrealista contemporaneo, il cui lavoro, come si legge nella breve biografia, è ispirato a Magritte.
Le sue fotografie sono visioni oniriche molto eleganti, che giocano con la logica e il paesaggio, permeando le immagini di sottili contraddizioni, di tranquille tensioni, di sorprese stravaganti.
Pur ispirando un senso di meraviglia e di spaesamento nello spettatore, le foto oniriche di Smith tendono ad essere più spensierate e meno sovversive rispetto a quelle dei fotografi surrealisti storici come Man Ray o Hans Bellmer. Nella calma ordinata delle sue immagini, non troviamo nulla delle distorsioni, delle ambiguità e delle provocazioni che caratterizzano gran parte di quella fotografia surrealista. Con quei fotografi però, e soprattutto con Magritte, condivide il ricorso allo scarto logico, il voler mettere in scacco la struttura della percezione comune e le aspettative di colui che guarda.
Nel mondo magico di Smith regna un equilibrio e una chiarezza formale che producono bellezza, ma non mancano il senso dell'umorismo e un tocco di stravaganza.

mercoledì 16 agosto 2017

I ritratti di Antonello da Messina


Per riscattare la propria condizione sociale, passando dallo status di artigiani a quello di intellettuali, gli artisti del Rinascimento rivendicavano il potere conoscitivo dell’arte, cioè il suo tendere all'universale, all'ideale eterno che trascende la materia e la caducità del particolare. Il ritratto, per sua natura, non si prestava molto allo scopo, perché è un genere che è legato alla particolarità di un individuo e per questo è stato a lungo visto con diffidenza dagli stessi artisti e considerato un genere inferiore rispetto alla pittura sacra e mitologica. Emblematico, infatti, è il caso di Michelangelo che accettò di eseguire un ritratto soltanto una volta in tutta la sua carriera. I ritratti del Quattrocento italiano tendono a idealizzare, a nobilitare, a trarre dalla caducità terrena e a elevare in una dimensione eterna i soggetti raffigurati, e non solo perché la loro funzione è soprattutto celebrativa ed encomiastica, ma anche perché la tendenza all'ideale, alla sublimazione della materia è considerata lo scopo supremo dell'arte, ciò che innalza quest'ultima dalla pratica artigiana facendone una nobile strada di conoscenza. Prevale all'epoca, perciò, il ritratto aulico di profilo, modellato sulle monete e medaglie romane, che celebra e idealizza i potenti, chiudendoli tuttavia in una dimensione lontana e in un isolamento inaccessibile, come i ritratti di Federico da Montefeltro e di Battista Sforza realizzati da Piero della Francesca.

domenica 13 agosto 2017

Lo sguardo in macchina

La grande rapina al treno di Edwin Porter (1903)

Qual è una delle tante differenze tra cinema e teatro?
Se il teatro è una rappresentazione che si svolge, più o meno nella sua totalità, davanti agli occhi dello spettatore, il cinema è invece, come la fotografia, una rappresentazione che viene presentata attraverso lo sguardo di un altro.
Ma chi è questo altro?
Tecnicamente un film è una successione di inquadrature organizzate in scene ed è il regista (ma non solo lui) a dare le indicazioni opportune all'operatore delle riprese, stabilendo la posizione (e il movimento) della macchina e il tipo di inquadratura. Il punto di vista scelto per la macchina da presa è di vitale importanza per il film, perché lo sguardo dello spettatore si identifica sempre e comunque con quello della macchina. Questo punto di vista, che cambia sempre nel corso del film, viene definito il "narratore impersonale" del film (o, più tecnicamente, il soggetto dell'enunciazione cinematografica) e costituisce il centro attorno al quale ruota tutta la rappresentazione.
Esso è, altresì, il filtro attraverso cui lo spettatore assiste alla narrazione. Il punto di vista è la posizione del narratore rispetto alla scena ed è nello stesso tempo la posizione dello spettatore che guarda attraverso i suoi occhi.

sabato 12 agosto 2017

Sguardi ritoccati

Eugene Smith, Deleitosa, Spagna, 1951.

Abbiamo visto l’effetto straniante e metacinematografico che lo sguardo in macchina, che agisce come interpellazione, è in grado di provocare all’interno di un film, come rottura della quarta parete.
Ma cosa succede in fotografia? Che effetto ha lo sguardo in macchina che si sporge da una immagine fotografica?
Si può ipotizzare che l’effetto sia diverso, perché diverse sono le modalità di fruizione di un film rispetto a quelle di una fotografia. Se, infatti, nell’ambito delle narrazioni di finzione (romanzo, cinema), lo spettatore si impegna a mettere temporaneamente da parte il dubbio e a considerare le storie come verosimili (patto di sospensione dell’incredulità), il rapporto dello spettatore con la fotografia, invece, fin dalle origini ha implicato un approccio che può dirsi diametralmente opposto.
Nel caso della fruizione cinematografica, infatti, l'atteggiamento dello spettatore segue una direzione che parte dalla consapevolezza della finzione e approda alla sospensione dell’incredulità e alla finzione di verità. Nel caso della fotografia, invece, accade per lo più il contrario.

mercoledì 2 agosto 2017

Nascita del ritratto moderno


A partire da sinistra:Jan van Eyck, Ritratto di Jan de Leeuw, 1436, Vienna, Kunsthistoriches Museum.Jan van Eyck, Ritratto di Margherita van Eyck, 1439, Bruges, Groeningemuseum.Jan van Eyck (attribuito a), Portrait of a Man with carnation and the Order of Saint Anthony, Gemäldegalerie, Berlin.

Se nel Medioevo il ritratto aveva avuto una funzione accessoria e devozionale (i committenti venivano ritratti, tramite figure stilizzate e certamente poco realistiche, in posizione di preghiera all'interno dell'opera sacra da essi commissionata), nel Quattrocento si sviluppa un interesse per il ritratto naturalistico, con finalità soprattutto celebrative. E' questo il periodo del ritratto cortese, in quanto legato in particolar modo all'ambiente laico delle corti, che trae spunto, nell'ambito della riscoperta umanistica della classicità, dai ritratti di profilo presenti sulle antiche monete e medaglie romane. La larga diffusione dei ritratti di profilo, a pittura e a rilievo, prodotti in Italia a partire da Pisanello e fino ad artisti come Piero della Francesca, Botticelli e il Pollaiolo, va letta in questo senso come risposta alla nuova esigenza umanistica di un’affermazione mondana.
Il ritratto di profilo coniuga perfettamente eleganza, equilibrio e naturalezza con un certo distacco, come si conviene alle personalità di rango e alla funzione celebrativa dell'opera. Il ritratto di profilo evidenzia la nobiltà dei tratti, ma colloca il soggetto rappresentato in una posizione di inviolabilità.
Mentre in Italia va di moda il ritratto cortese, nelle Fiandre nasce il ritratto borghese, moderno. I volti realizzati dai pittori fiamminghi (Jan van Eyck, Robert Campin, Rogier van der Weyden, Hugo van der Goes, Hans Memling, Petrus Christus) sono illuminati da una nuova luce, che dona loro una nuova vita e una diversa consistenza, e sono inoltre caratterizzati da un nuovo modo di presentarsi e di porsi in rapporto con lo spettatore. Non si tratta più solo di regnanti, signori e vescovi, ma di mercanti, banchieri, esponenti di quella classe alto borghese che cerca anch'essa una consacrazione iconografica del proprio status ed è portatrice di una nuova consapevolezza sociale, incentrata sul valore e sull'intraprendenza dell'individuo.

Sguardi - Lo sguardo di Dio

Cristo Pantocratore (V secolo), Monastero di Santa Caterina, Monte Sinai, Egitto.

Se i personaggi delle pitture vascolari greche sono rappresentati tutti di profilo, se i ritratti dei romani sono immersi in una loro interiorità o i loro sguardi sono indirizzati verso il mondo dell'aldilà, dobbiamo aspettare le icone cristiane per incontrare le prime immagini che ci guardano, per le quali anzi quello sguardo costituisce l'essenza della rappresentazione.
Le icone bizantine, nate nei monasteri orientali, sono caratterizzate dalle figure frontali e dalla predominanza del volto, soprattutto degli occhi, molto grandi e spalancati, considerati il luogo in cui si concentra l'energia dello spirito.
La religione dell’Antico Testamento era stata la religione della parola e del divieto categorico dell’immagine, perché Dio è il “totalmente altro” rispetto al tempo e allo spazio degli uomini, è colui che si rivela solo nel “logos” ma non si mostra mai. Il Dio dell’Antico Testamento e dell’Ebraismo è il Dio che si nasconde, è l’invisibile che resta tale, perché quando Mosé chiese a Dio di mostrarsi, la sua risposta fu categorica:
“Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”.

martedì 1 agosto 2017

Selfie d'artista. L'autore nella scena


Il genere dell'autoritratto autonomo, cioè quel sottogenere del ritratto in cui l'autore ritrae se stesso come protagonista assoluto del dipinto, conosce un'affermazione abbastanza tardiva, collocandosi alle soglie dell'età moderna e come punto di arrivo di un processo di presa di coscienza di sé e del proprio ruolo da parte dell'artista che inizia secoli prima. Esiste, però, un cospicuo numero di opere pittoriche (e non solo) in cui l'autore inserisce nella historia, cioè in una scena narrativa di ambientazione sacra, storica o mitologica, il proprio autoritratto.
Si parla in questo senso di autoritratti “ambientati” o “situati”. Stoichita definisce questo tipo di rappresentazione, che l'autore fa di se stesso all'interno di una storia, “autoproiezione contestuale”: "chiamerò quindi “autoproiezione contestuale” la rappresentazione dell’autore inserita in un’opera di cui egli si dichiari, in un modo o nell’altro, l’artefice." (L’invenzione del quadro, Milano, il Saggiatore, 1998, p. 208).