giovedì 28 novembre 2019

Nobuyoshi Araki. Corpi costretti ed esibiti



Nobuyoshi Araki è uno dei fotografi giapponesi più prolifico e nello stesso tempo contestato degli ultimi decenni, dalla produzione poliedrica e ricca di contraddizioni, proprio come la cultura di cui fa parte. La sua opera propone una nuova interpretazione fotografica della realtà che invita alla contestazione radicale dei limiti imposti da barriere sociali e culturali. La propensione ad esplorare soprattutto la sfera intima e in particolar modo quella sessuale, nelle diverse sfaccettature di amore, erotismo, voyeurismo e perversione, va inserita in un instabile confine tra privato e pubblico, che va oltre la personale ossessione dell’autore spingendosi più a largo, dentro le trame relazionali ed espressive della cultura giapponese.
Tentare, pertanto, di incasellare la fotografia di Araki all’interno di uno schema interpretativo, riconducendola a mera pornografia, o legandola alla tradizione iconografica dell’erotismo orientale o interpretandola come spinta trasgressiva nei confronti di una cultura repressiva significherebbe limitarne la ricchezza e la contraddittorietà.



Nella sua produzione iniziale, Araki sembra farsi interprete di quella spinta individualistica che caratterizza la fotografia con l’avvento degli anni Settanta. Questa tendenza all’introspezione e al diario personale coinvolge sia il mondo occidentale che quello orientale, in particolare il Giappone, all’interno della cui lingua esiste un termine appropriato per indicare questo stile fotografico in cui l’autore, attraverso una descrizione di scene, oggetti, e persone, rivela il proprio sé interiore. Questo termine è shishashin. Non si tratta, per il fotografo, di rappresentarsi tramite il proprio autoritratto, né di fotografare semplicemente la propria vita privata e l’ambiente circostante, ma di rivelare il proprio stato psicologico e i propri conflitti interiori.
Uno degli autori giapponesi particolarmente legato a questa pratica del diario personale è proprio Araki, le cui fotografie, in particolare quelle contenute nel suo Senchimentaruna tabi (“Viaggio sentimentale”, 1971, una raccolta fotografica del suo viaggio di nozze con la moglie Yōko) creano un’atmosfera di intimità che genera nello spettatore una sensazione di curiosità mista a disagio tipica di una confessione o di un segreto svelato. Araki documenta tutto, le stanze d’albergo abitate, i posti visitati, i mezzi di trasposto usati, guidando il lettore attraverso il suo stesso viaggio. Ciò che differenzia questa pubblicazione da un qualsiasi album di foto-ricordo è il grado di intimità presentato dalle immagini; sono presenti, infatti, sia ritratti della moglie nuda che fotografie che riprendono momenti estremamente privati come l’atto sessuale, il che trasforma il diario di viaggio in un’esposizione della relazione intima della coppia. Si tratta di istantanee che rimuovono ogni barriera tra soggetto rappresentato e spettatore, direttamente coinvolto nel mondo privato del narratore, e che focalizzano l’attenzione sulla relazione personale tra colui che fotografa e colei che viene fotografata, presentando allo sguardo di terzi un legame intimo, generalmente precluso all’esterno, come può essere la propria vita matrimoniale e sessuale e, facendo del fruitore più un partecipante che un semplice osservatore.


L'estetica della fotografia istantanea porta la pratica dell’autobiografia fotografica a una sorta di esibizione quotidiana, in cui l’autore non stabilisce mai alcuna distanza con la realtà che registra, ma ne è pienamente coinvolto, come attore a tutti gli effetti. Nobuyoshi Araki manifesta una grande indifferenza nei confronti del risultato del suo fare, preferendo indulgere in un'autobiografia permanente, esercitata senza ostacoli, piuttosto che conformarsi agli standard estetici. Dichiara, infatti, che la fotografia non è un mezzo che richiede una seria elaborazione teorica e una perfetta realizzazione, ma deve essere caratterizzata dalla velocità di esecuzione. L’imperfezione dell’istantanea e la registrazione sistematica della realtà sono garanti dell'autenticità del soggetto. L’obiettivo di Araki attraversa i temi della vita di tutti i giorni in tutti i modi possibili, scattando stando in ginocchio o seduto o sdraiato, camminando o correndo, fotografando migliaia di persone, migliaia di corpi e volti, migliaia di paesaggi, giorno e notte. È come se volesse rendere leggibile l'intera vita quotidiana in una sorta di enciclopedia visiva infinita, incontrollata e incontrollabile.


Questa registrazione va oltre i limiti del rappresentabile e del non rappresentabile. Così le sue immagini includono sia paesaggi urbani estremamente ordinari che i corpi sottoposti a pratiche erotiche estreme. Il diario certamente permette queste inclusioni totali senza discriminazioni, integrando tutti i gradi della relazione con il mondo. E tuttavia tale pratica porta inevitabilmente all'implementazione di sequenze tratte dalla massa delle immagini accumulate, al fine di presentarle sotto forma di un album o di una proiezione di diapositive che mostrano non l’autentica esperienza del reale da parte dell’autore, ma la sua riconcettualizzazione e rielaborazione sotto forma di un oggetto specifico, che ha una sua forma e una sua estetica, cioè il diario fotografico.
Il repertorio fotografico di Nobuyoshi Araki, giunto a oltre quattrocento volumi, è sterminato, incorporando una gamma di soggetti incredibilmente vasta: ritratti, nudi, scene di strada di Tokyo, fiori, immagini della sua vita privata, atti sessuali, bellissime donne legate secondo il rituale del kinbaku e appese a delle travi sul soffitto. Certamente l’aspetto più caratterizzante della fotografia di Araki Nobuyoshi, quello a cui deve la sua fama di autore tra i più controversi degli ultimi decenni e le polemiche più aspre, tanto in madrepatria quanto in Occidente, è l’erotismo presente in gran parte della sua produzione, da molti considerato niente più che spregevole pornografia.


Non potremmo affrontare queste immagini con in mente gli schemi, i codici estetici e morali della nostra cultura. E’ necessario, prima di tutto, prendere in considerazione la disparità di visione dei temi dell’eros e della sessualità tra Oriente e Occidente. Foucault, ad esempio, nel suo Storia della sessualità, oppone alla razionalizzazione occidentale dell’impulso sessuale, risolto in fenomeno indagato dalla religione prima e dalla scienza psicologica poi, l’ars erotica di stampo orientale, un’arte finalizzata al piacere, imparata attraverso pratica ed esperienza e sviluppata con volontà consapevole al fin di acquisire una conoscenza che pur deve necessariamente rimanere nascosta, non tanto per scandalo o vergogna ma più per un senso di riservatezza nei confronti di qualcosa la cui efficacia verrebbe meno qualora venisse divulgato.
Pur non volendo indulgere in generalizzazioni dualistiche e stereotipi esotici, non si può non riconoscere le differenze con cui il corpo umano viene concepito e vissuto all’interno di questi due ambigui contenitori, che per comodità chiamiamo Occidente e Oriente. Il corpo elaborato dalla tradizione cristiana è ambivalente: da una parte rappresenta l’immagine di Dio ed è il fulcro del mistero principale della fede, costituito appunto dall’Incarnazione; dall’altra il corpo è visto con sospetto, addirittura con disprezzo, in quanto sede degli istinti più bassi, segnato dal marchio indelebile del peccato originale e del senso di colpa, una connotazione assente nella cultura orientale, così come sono assenti i criteri con cui l’estetica occidentale, recependo i canoni della scultura greco-latina, concepisce il corpo in termini di massa, proporzione, simmetria.



Osservando le fotografie di Araki non si può certamente accantonare come non rilevanti le differenze culturali, ma sarebbe altrettanto fuorviante considerarle alla stregua di un fenomeno esotico, di una stravaganza orientale, dimenticando quegli elementi che accomunano la fotografia di tutte le latitudini, ad esempio il rapporto tra fotografo e soggetto ritratto, nonché la dicotomia guardare/essere guardato, la quale suggerisce la compresenza di una parte attiva (chi guarda, ovvero l’artista prima e lo spettatore poi) e di una passiva (chi viene guardato). Ciò che colpisce in Viaggio Sentimentale è la connessione che si crea tra l’artista e lo sguardo della moglie, che rimane calmo e imperturbabile anche nelle fotografie più erotiche. Nonostante la crudezza di certe immagini, che ritraggono l’atto sessuale dei coniugi, il motivo per cui non si prova disagio sfogliando il libro è proprio il modo di darsi di Yōko all’obiettivo; ciò che si percepisce è un dialogo costruito attraverso gli sguardi: quello di Araki, invisibile in quanto soggetto ma la cui presenza è resa palpabile attraverso l’atto stesso del fotografare e quello di Yōko rivolto al marito. Anche nelle opere successive, realizzate con modelle messe in posa, il nudo e la sessualità saranno temi costanti, ma sempre Araki lascerà percepire in modo chiaro la sua presenza senza necessariamente apparire di persona.


Araki esprime questa sua predilezione per la sessualità realizzando, in un periodo di quindici anni, a partire dal progetto Hitozuma erosu: 1/X (L’Erotismo delle donne sposate: 1/X), centinata di fotografie di donne di tutte le età che si prestano senza vergogna all’obiettivo di Araki: i corpi di casalinghe, madri, impiegate e via dicendo vengono esposti, senza ritocchi o abbellimenti di sorta, in tutta la loro imperfezione. Benché i colori vividi e saturi ricordino i servizi erotici delle riviste patinate, la banalità dell’arredamento che si intravede alle loro spalle suggerisce piuttosto i ritratti pornografici casalinghi. Le donne di Araki hanno corpi imperfetti, lontani dall'estetica di bellezza e dagli archetipi di femminilità che solitamente si trovano nelle foto di nudo e più vicini ad un’esperienza “comune” del corpo. Tanto nella storia dell’arte quanto in fotografia vi è sempre stata la tendenza a riversare nella rappresentazione del nudo i canoni estetici di una purezza ideale del corpo, astratta dagli aspetti grezzi e lascivi che la sua fisicità carnale può richiamare alla mente. Nei nudi di Araki, tuttavia, non vi è una forma idealizzata o idealizzante, ciò che egli ritrae è semplicemente la modella nuda, svestita, un corpo fisico con tutti i suoi difetti e le sue istanze di realtà che proprio per questo istiga nello spettatore un forte impulso erotico, dato dalla materialità di un corpo che ci si illude di poter esperire di persona, di poter toccare in quanto non distante da noi in una sorta di divinizzazione artistica di mero oggetto da guardare ma vicino alla nostra stessa imperfezione.


Tra questi numerosi scatti, i più emblematici ritraggono donne giovani in pose estremamente erotiche, spesso bendate ed imbavagliate (Tokyo bondage, 2008), costrette al limite della tortura, distese su tatami o letti disfatti (Bodyscapes, 1996), appese al soffitto da funi annodate (Kinbaku: Bondage, 1979). Il termine inglese “bondage” significa schiavitù e indica una pratica sessuale basata sulla costrizione fisica del partner mediante legature, cappucci, bavagli, ecc. Il termine giapponese è invece kinbaku, il quale si riferisce a una pratica antica che prevedeva l’atto di legare il corpo sia per finalità meditative, in quanto rilassava mente e fisico, sia artistiche, poiché si ottenevano sculture viventi, sia per fini sessuali. Le immagini, oltre che senso di costrizione e immobilità, esibiscono un corpo spezzato, compresso, disarticolato, e soprattutto ridotto a oggetto di un desiderio feticista di dominio e abuso di potere.
La perversione insita in questa pratica è porre il corpo in situazioni di totale sottomissione, poiché limitato nelle libertà fisiche. Le donne nelle fotografie di Araki appaiono schiave dei voleri del fotografo e del suo obbiettivo. E tuttavia le modelle sono totalmente consenzienti e partecipano a questa finzione fotografica attraverso l’attività dello sguardo, che ricambia intensamente quello del fotografo (e dell’osservatore) o lo sfida direttamente, pur senza provocarlo. Una simulazione teatrale confermata anche dalla presenza dentro l’inquadratura di elementi tecnici come il cavalletto o le lampade; in tal modo l’autore sottolinea l’intenzione finzionale dell’immagine, piuttosto che quella istantanea.


Quella di Araki è una fotografia di contrasti: amore e morte, realtà e finzione, sesso e nostalgia, violenza e dolorosa bellezza. Ma vale la pena ricordare che se la mentalità occidentale è permeata dal principio di non contraddizione, per cui gli opposti si escludono, in quella orientale gli opposti tendono a coesistere in armonia l’uno accanto all’altro. Tuttavia, le foto di nudo di Araki che ritraggano modelle posizionate con le gambe divaricate a mostrare i genitali o intente nell’atto sessuale, sono state duramente condannate e censurate anche in Giappone perché considerate pura pornografia, e quindi un crimine contro la moralità e il pudore pubblico. La pornografia trae la sua origine dal corpo nudo che esibisce la propria sessualità nel modo più volgare, triviale ed osceno con l’unico scopo di stimolare eroticamente lo spettatore. L’immagine pornografica è fine a se stessa e non richiede alcuna elaborazione dell’immagine da parte dello spettatore; il corpo è ridotto a puro oggetto sessuale che non lascia nulla all’immaginazione.
Le fotografie di Araki, a prima vista, potrebbero essere scambiate per pornografia. Qual è, allora, la linea di demarcazione che separa l’immagine pornografica da quella artistica? Questo labile confine sta proprio nella presenza del fotografo, percepibile percorrendo la linea dello sguardo delle donne; l’esibizione del corpo si colloca, pertanto, all’interno di una relazione.


Che sorridano o giacciano semplicemente abbandonate in pose lascive e scabrose, il loro è uno sguardo che guarda attivamente, in quanto consapevoli di essere ritratte. La loro espressione non è quella ammiccante di chi offre promesse di piacere ad ogni osservatore che si porrà di fronte all’immagine; ciò che per queste donne ha importanza e significato è il rapporto con il fotografo che hanno davanti in quel momento, in quell’istante irripetibile. E’ solo per lui che assumono quelle pose che appaiono umilianti e degradanti; ciò che le immagini esprimono, pertanto, non è l’esibizione di un corpo, ma una relazione di fiducia totale e reciproca che si stabilisce tra autore e modella, una relazione intima ed egualitaria, nel senso che non vi è una direzione che prevale sull’altra. E’ questa connessione di sguardi che impedisce all’immagine di assumere quella connotazione di morbosità che caratterizza le immagini pornografiche. Ed è all’interno di questa relazione che si inserisce l’occhio della macchina fotografica, che si pone tra l’uomo e la donna (o il fotografo e la modella) come un mezzo potente che svolge la funzione di uno sguardo attivo. L’eros deriva dal guardarsi a vicenda attraverso la macchina fotografica: grazie alla presenza dell’occhio della macchina, lo sguardo diventa più intenso e consapevole assumendo la valenza di un gesto quasi tattile.


Un altro elemento che trattiene queste immagini al di qua della pornografia è spesso la presenza, all’interno dell’immagine, accanto alla figura legata, sospesa o no, di elementi tecnici del set di posa, quali lampade, cavalletti o altro, la quale esplicita l’intenzione simulativa dell’azione di Araki. Inoltre, queste fotografie rivelano molto spesso il richiamo ai tradizionali shunga o “immagini della primavera”, vale a dire alle stampe xilografiche a tematica erotica e sessuale, a tratti pornografica, fiorite nel periodo Edo. Nelle sue fotografie non manca il senso di morte e di malinconia, ma sono anche frequenti le scene di sesso scherzose e ricche di autoironia, un’infantile platealità a sfondo ludico, o persino un distacco ironico. Spesso traspare lo stesso spirito goliardico presente nell’iconografia proveniente dai maestri dell’Ukiyo-e, che stempera l’oscenità delle immagini, conferendo loro un senso di naturalezza.


Analogamente alle stampe shunga, in ultima analisi, nelle foto di Araki che ritraggono il corpo femminile si possono contemplare i nostri impulsi erotici senza esserne sopraffatti, come qualcosa che si è oggettivato fuori di noi senza travolgerci; possiamo ‘vedere’ fino in fondo i nostri desideri più lussuriosi senza timore di essere puniti. Certo, non basta la cornice di artisticità per assolvere un’immagine dall’accusa di pornografia. Ma quest’ultima non risiede tanto nel contenuto, semmai nella relazione di sguardi che intrattiene con l’osservatore. E a chi scrive sembra evidente che le fotografie di Araki costruiscano un contesto di ricezione abbastanza complesso e contraddittorio da poter sfuggire all’accusa di volgare oscenità.

Nessun commento:

Posta un commento