domenica 30 dicembre 2018

Davanti a una mia vecchia fotografia



Sei un tu
fuori di me
prigioniera di uno specchio
di carta
a mille anni luce.
Mi viene incontro
il tuo sguardo ombroso
come un acerbo presagio.
Quanta neve si è sciolta
da allora e le betulle
mostrano il ponente
curvate dal grecale.
Mi guardi dalla cornice ingiallita
e non sai
e non puoi sapere
mentre spingi il tuo giocattolo
così seria
così assorta
nel tuo fingerti donna
e madre in miniatura.
Non conosci l'abisso
negli occhi di tuo figlio.
Chi sei bambina?
in che mondo vivi?
Da quale distanza
mi aspetti?
Chi ti salverà
dall'intrico verde che ti insidia?
La mia mano trema un poco
ti afferra
e quasi non vorrebbe.
Il tempo in mezzo
brucia come un fuoco.
Eppure traspare di luce
la carta sbiadita.
Gioia e scempio
è questa corrispondenza di ombre.
Nella distanza che separa
abita la sola
possibile
bellezza.

giovedì 27 dicembre 2018

Lo sguardo dello spettatore. Alcune considerazioni finali

John Vink, La morte di Marat Museo Reale delle Belle Arti di Bruxelles, 1974.

Chiudiamo finalmente questo lungo percorso sullo sguardo dello spettatore, cercando di tirare brevemente alcuni fili.

Fruire un contenuto visivo (un quadro, una fotografia, un film) è essenzialmente un insieme di pratiche: percettive, cognitive, operative e relazionali.

- Ogni fruizione di un’immagine, immobile o in movimento, ha come punto di partenza l’estesìa, cioè una sensazione, che è già di per sé un’astrazione e non una fedele registrazione del mondo reale, a causa delle caratteristiche biologiche dei nostri organi di senso e della complessa elaborazione che il cervello fa dei segnali che gli pervengono. La percezione è una selezione attiva e un’organizzazione delle sensazioni. Il cervello compie una scelta fra tutti gli input disponibili e, confrontando l’informazione selezionata con i ricordi immagazzinati nella memoria, genera una rappresentazione mentale, che è soggettiva.

domenica 23 dicembre 2018

Glance. Lo sguardo mobile



Ogni rappresentazione necessita di un dispositivo che la ingloba e ne permette l’esposizione e la ricezione, predisponendo l’esperienza estetica del fruitore. Un dipinto necessita di una cornice, di una parete o comunque di un contesto espositivo.
L’insieme di queste componenti ‘peritestuali’ viene definito parergon (in semiotica oggi viene usato anche il termine “bordure”) e comprende degli elementi molteplici come il titolo, la firma, la cornice, lo spazio museale che circonda e ricontestualizza le opere, l’archivio che le documenta e le colloca dal punto di vista storico, il discorso teorico-critico che ne definisce la lettura. Il contesto parergonale caratterizza anche altre forme espressive, come la fotografia, il teatro, la musica, il cinema. Esso permette di presentare e di rendere percepibile ed esperibile l’opera, anche se le modalità con cui espleta questo lavoro variano strutturalmente da un linguaggio all’altro.

martedì 18 dicembre 2018

Fruizione di un’opera d’arte come gioco di far finta

Georges Seurat, Un dimanche après-midi à l'Île de la Grande Jatte, 1883-85, Art Institute of Chicago, Chicago.

Cosa hanno in comune lo spettatore di un’opera d’arte e un bambino che gioca con una bambola o un camion dei pompieri? Secondo Kendall L. Walton, autore di “Mimesis as Make-Believe” (Mimesi come far finta, 1990) hanno molto in comune, in quanto entrambi sono impegnati in un gioco di ‘far finta’. Per questo autore, fruire un'opera d'arte equivale a partecipare a un gioco, a utilizzare l'immaginazione per dar vita a un mondo finzionale.

Lo scopo che si prefigge Walton è quello di capire cosa siano le opere rappresentazionali (i dipinti come i romanzi, i film come le opere teatrali), e di fornirne una teoria generale. Egli è convinto di poterle indagare in maniera unitaria, perché tutte le rappresentazioni sono mimesi, cioè finzioni. La sua teoria di mimesi, si badi bene, è molto diversa da quelle precedenti, in cui ‘mimesi’ equivaleva a ‘imitazione, somiglianza’, e in cui veniva coinvolta soprattutto la questione ontologica e semantica dell’opera d’arte. Walton, invece, pone la sua teoria su una base essenzialmente pragmatica: il ‘far finta’ è un’attività immaginativa che riguarda il soggetto coinvolto nella finzione; e non riguarda solo l’esperienza estetica, ma costituisce un aspetto saliente dell’attività umana nel suo complesso.

venerdì 14 dicembre 2018

Fotografia e didascalia

Thomas Ruff, dalla serie "Porträts".

Cominciamo questo post con un’affermazione talmente ovvia da sembrare banale e che, purtuttavia, è alla base di dibattiti e discussioni, soprattutto tra i fotoamatori e i cultori di fotografia: la didascalia di un’immagine fotografica non costituisce un semplice elemento accessorio, ma rappresenta una componente essenziale, determinante nell’orientare la fruizione dell’osservatore.
Le funzioni principali di questo tipo di testo consistono nel dare informazioni riguardo l’immagine e guidare l’occhio del fruitore nell’osservazione della foto e nella comprensione del suo significato. Jean Keim, nel suo saggio La fotografia e la sua didascalia (1963) accoglie la teoria di Barthes secondo cui la fotografia è un messaggio senza codice. La comunicazione che essa trasmette, pertanto, rimane ambigua, imprecisata: “la fotografia rischia sempre di essere fraintesa quando non abbia l’ausilio indispensabile della parola”. L’unità di immagine fotografica e testo garantisce la comprensione del significato a un livello più profondo di quello che si avrebbe dall’osservazione di una fotografia priva di testo, in quanto quest’ultimo è il solo in grado di precisarne il significato, contestualizzando l’immagine nel tempo, nello spazio e nell’azione cui appartiene.

lunedì 10 dicembre 2018

The Artist is Present. La metamorfosi dell’aura



Una delle performance più recenti di Marina Abramović dà modo di riprendere il concetto di aura, che dopo Benjamin sembrava definitivamente uscito di scena e che invece l’esperienza della performance sembra far rientrare dalla finestra.
Nel 2010, dal 14 marzo al 31 maggio, Marina Abramović è stata protagonista di un lavoro davvero singolare, dal titolo The Artist is Present. Tutti i giorni di apertura, in uno spazio al primo piano del MOMA di New York (in cui tra l'altro era allestita una retrospettiva sull'artista), è rimasta seduta immobile e in silenzio, guardando fisso negli occhi tutti coloro che hanno raccolto l'invito (o la sfida) di sedersi di fronte a lei e di ricambiare quello sguardo per il tempo voluto. Ogni giorno, per sette ore di fila, senza mai alzarsi, né per mangiare né per assolvere altri bisogni. Nel corso delle 700 ore di performance, la sedia di fronte non è rimasta quasi mai vuota e in totale si sono avvicendate quasi 1400 persone, compresi personaggi celebri, alcune solo per pochi minuti, altre per delle ore.

domenica 9 dicembre 2018

"Rythm 0". Il corpo come opera d’arte



Se l’opera d’arte tradizionale era, ad ogni momento, interamente presente allo sguardo dello spettatore, l’arte performativa impone invece alla fruizione dell’opera un percorso diluito nel tempo e soprattutto aperto. Una relazione che l’artista predispone ma che deve essere progressivamente sviluppata da uno spettatore coinvolto attivamente. Il mondo della performance, degli happening, della body art e della video art esplora in tutte le direzioni la relazione dinamica tra l’opera e lo spettatore, proponendo forme diverse di interattività che in molti casi coinvolgono direttamente il corpo dell’artista.
Una performer ancora molto attiva è Marina Abramović, esponente di quella pratica definita Body Art, in quanto ha sempre fondato la propria arte sul proprio corpo e sul rapporto diretto tra questo e il pubblico, spesso mettendo entrambi a dura prova. Le azioni che L'Abramović presenta al proprio pubblico sono costruite sui limiti della resistenza fisica, psicologica ed emotiva; il corpo dell'artista viene sottoposto al dolore, allo sfinimento e al pericolo.

sabato 8 dicembre 2018

L'opera d'arte come evento



Le avanguardie del primo Novecento portano a compimento la rottura con la tradizione e ridefiniscono radicalmente il concetto di opera d’arte, di artista e di spettatore. I movimenti che si affermano in Europa a partire dai primi anni del Ventesimo secolo pongono le basi teoriche e definiscono alcuni tratti propri delle forme d’arte che si svilupperanno negli anni successivi: la liberazione dalle costrizioni della rappresentazione e della narrazione, la messa in discussione del confine tra arte e vita, il gusto per la provocazione e la trasgressione, l’ibridazione dei generi, il rifiuto della mercificazione dell’arte, il coinvolgimento attivo dello spettatore sia nella fruizione che nella realizzazione stessa dell’opera.
Tra i primi a sostenere la necessità di una viva partecipazione del pubblico all’azione vi sono i futuristi e i dadaisti, che ricorrono ad azioni performative, come campo di attuazione delle nuove idee sull’arte.

mercoledì 5 dicembre 2018

Così lontano così vicino. Guardare l’immagine alle "giuste" distanze

Vincent van Gogh, Notte stellata, particolare, 1889, Museum of Modern Art, New York.

A che distanza occorre guardare un quadro per averne una fruizione adeguata? Si potrebbe rispondere che tutto dipende dalle dimensioni e dalla sua collocazione e che, inoltre, ogni opera richiede al suo fruitore una distanza appropriata. Se prendiamo, ad esempio, un dipinto impressionista o una tela di Van Gogh, ci accorgiamo subito che, se esaminate troppo da vicino, ciò che queste immagini ci restituiscono sono solo pennellate e macchie di colore. Per percepire in modo adeguato il soggetto e l’insieme della rappresentazione occorre porsi a una certa distanza.
Questo è l’assunto che viene generalmente accettato dalla critica tradizionale in riferimento a tutta la tradizione pittorica occidentale a partire dal Rinascimento. Il mio intento (anche con riferimento alla tesi di Arasse contenuta nel suo testo Il dettaglio. La pittura vista da vicino) è quello di affermare che una visione che voglia fruire l’immagine in tutte le sue dimensioni deve essere una visione oscillante, che non cerca solo la giusta distanza e il punto di vista che implicitamente il quadro assegna all’osservatore, ma che è disposta ad assumere una modalità molteplice e mobile, avanti e indietro dalla superficie, alternando la visione d’insieme al rischio di annaspare tra la materia e i piccoli dettagli.

domenica 2 dicembre 2018

La cornice: confine o soglia?

Pere Borrell del Caso, Sfuggendo alla critica, 1874 – Collezione Banco de España, Madrid.

Quali sono i dispositivi che orientano lo sguardo dello spettatore verso l’oggetto della visione? Come avviene la focalizzazione verso un quadro pittorico o qualunque altra forma di rappresentazione?
Senza dubbio uno dei elementi che svolgono questa funzione è la cornice. In rete è disponibile un bel saggio di Antonio Somaini, dal titolo “La cornice e il problema dei margini della rappresentazione”  (http://www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico/leparole/duemila/ascorn.htm) che affronta questo tema. Questo post prende spunto da questo testo, estrapolandone alcune considerazioni.
Quali sono le funzioni che storicamente ha assunto la cornice?

giovedì 29 novembre 2018

Empatia e Arte astratta

Jackson Pollock, Blue poles (1952) 

Uno degli argomenti di maggiore interesse e attualità che riguardano l’esperienza estetica è senza dubbio la relazione tra la costruzione culturale della fruizione e quegli aspetti della ricezione che riguardano la nostra natura umana corporea. Abbiamo già parlato della fruizione estetica come esperienza fondata sull’empatia (Einfühlung, sentire dentro) e sulla simulazione incarnata (embodied simulation), una nozione quest’ultima che discende dall’incontro tra due campi apparentemente distanti, come la storia dell'arte e le neuroscienze, e basata sulla scoperta dei neuroni a specchio, la quale offre un'importante base scientifica per la comprensione di ciò che le immagini provocano nella mente e nel corpo di chi le osserva (qui: https://finestresuartecinemaemusica.blogspot.com/2018/10/simulazione-incarnata-il-corpo-dello.html).

martedì 27 novembre 2018

L'inquietante estraneità della fotografia

Alexander Gardner, ritratto di Lewis Payne 1865.

Ciò che è familiare, a volte può diventare stranamente inquietante. Tutti, nella nostra vita, abbiamo fatto esperienze di questo tipo. A volte basta guardarsi in uno specchio e non riconoscersi oppure aggirarsi per la propria casa di notte, in penombra, e sentirla inaspettatamente estranea e minacciosa, oppure con la coda dell’occhio avere la sensazione che un manichino o una bambola muovano gli occhi, o ancora sarà capitato di percepire il verificarsi di strane coincidenze o di rivivere più volte la stessa situazione. Queste sono tutte esperienze di ciò che Freud definiva Unheimlich.
In questo post mi propongo, seppur in modo superficiale, di avanzare l’ipotesi secondo cui l’esperienza di fruizione di una fotografia è sempre, seppure in forma latente, associabile a un senso di inquietante estraneità, cioè di unheimlich (che in italiano traduciamo con il termine “perturbante” e in francese con l’espressione inquiétante étrangeté).

domenica 25 novembre 2018

La "Camera Chiara" e l'eccedenza dell'immagine

L'avventura dello Spectator

Alfred Stieglitz, The Terminal (1893).

Parlando di inconscio ottico (qui), abbiamo affrontato il discorso sull’eccedenza dell’immagine fotografica, cioè sulla sua capacità di mostrare e di far scaturire dal suo interno una ricchezza percettiva e di senso che va ben oltre la semplice riproduzione di un frammento di realtà. A partire da questa considerazione, è ormai anacronistico chiedersi se la fotografia rispecchi o meno il mondo esterno, interrogarsi sul grado di fedeltà con cui ce lo restituisce, sul rapporto tra realtà e apparenza: la fotografia è una struttura che consente al mondo di essere visibile, enunciabile, secondo l’apparenza che le è propria, che è diversa dall’apparenza che ci restituisce la nostra visione naturale, pur influenzandosi a vicenda. E le immagini permeano la nostra mente esattamente come l’ambiente che ci circonda, determinando il nostro senso della realtà, del tempo e il nostro rapporto con la memoria.
In questa serie di post cercheremo di elaborare ulteriormente questo concetto di eccedenza dell’immagine fotografica, facendo riferimento a un classico della teoria fotografica, La camera chiara di Roland Barthes.

martedì 20 novembre 2018

L’inconscio ottico e la mosca di Dreyer



Perché nessuno si soffermerebbe mai a osservare un ortaggio, mentre è attratto dai cavolfiori e dai peperoni di Weston? Rispondere a questa domanda coinvolge il discorso sulla natura stessa della fotografia, soprattutto sulla sua capacità di mostrare la realtà quotidiana in maniera differente da quella in cui ce la fanno percepire i nostri occhi.
Scrive Walter Benjamin in “Piccola storia della fotografia” (1931):

“Una tecnica esattissima riesce a conferire ai suoi prodotti un valore magico che un dipinto per noi non possiede più. Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla magari minima di caso... La natura che parla alla macchina fotografica è infatti una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente. Se è del tutto usuale che un uomo si renda conto, per esempio, dell’andatura della gente, sia pure all’ingrosso, egli di certo non sa nulla del loro contegno nel frammento di secondo in cui si allunga il passo. La fotografia, coi suoi mezzi ausiliari: con il rallentatore, con gli ingrandimenti, glielo mostra. Soltanto attraverso la fotografia egli scopre questo inconscio ottico, come, attraverso la psicanalisi, l’inconscio istintivo”.

Attraverso l'inconscio ottico, si riconosce al dispositivo fotografico la capacità di mostrare il mondo secondo una modalità diversa rispetto a quella di cui è capace lo sguardo umano. Grazie alla tecnica fotografica, all’esattezza e impassibilità dell’obiettivo, si ottiene uno spazio elaborato inconsciamente, che rivela particolari ignoti e imprevisti, dettagli insignificanti che sfuggono alla visione ordinaria.

lunedì 19 novembre 2018

L’aura non c’è. Walter Benjamin e la riproducibilità tecnica dell'arte

Rue Hautefeuille, 6th arrondissement, 1898.


Sono due i concetti fondamentali, elaborati da Benjamin, che negli anni Trenta rimettono in discussione la concezione tradizionale dell’arte e della fruizione estetica: la perdita dell’aura e l’inconscio ottico.
Molti teorici dell'epoca cercavano di includere la fotografia e il cinema nell’ambito delle arti, nonostante la loro origine tecnica. La tesi di Benjamin è del tutto opposta: non si tratta di far rientrare in qualche modo la fotografia e il cinema nell’alveo ristretto dell’arte, ma di cambiare radicalmente il concetto medesimo di opera d’arte, un concetto che era stato già di fatto trasformato dalla diffusione dei nuovi mezzi tecnici di riproduzione e diffusione delle immagini. Come si sa, questa è la tesi fondamentale del suo saggio più famoso, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: fotografia e cinema hanno mutato le condizioni dell’esperienza estetica, così come del concetto tradizionale di arte nel suo complesso, in quanto la riroduzione in serie priva l’opera d’arte di un requisito basilare: l’hic et nunc, cioè la sua esistenza unica e irripetibile nel tempo e nello spazio (il contesto originario di collocazione).

venerdì 16 novembre 2018

«C’est le regardeur qui fait l'oeuvre». Marcel Duchamp

Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1913.

L’inizio del XX secolo è segnato da cambiamenti importanti nel rapporto tra arte e spettatore. Il più dirompente, senza dubbio, è quello provocato da Marcel Duchamp, con i suoi ready-made, che implicano una svolta radicale nell’arte occidentale.
Quest’ultima, ormai da secoli, si era sempre mossa nel solco della “rappresentazione”. Rappresentare significa rimpiazzare qualcosa di assente, sostituire una cosa mancante attraverso l’immagine di essa (si pensi al mito di Dibutade, fondativo della pittura). La rappresentazione rende presente una persona o un oggetto che non c’è, senza purtuttavia confondersi con essi.

mercoledì 14 novembre 2018

Lo spettatore nella quarta dimensione

Pablo Picasso, Les Demoiselles d'Avignon, 1907, Museo di Arte Moderna, New York.


Il percorso dell’arte del Novecento è costituito da tappe che hanno segnato il progressivo annullamento dei canoni fondamentali della pittura tradizionale, riassumibili nel principio della verosimiglianza dell’immagine rispetto alla realtà, ottenuta attraverso tre elementi: la prospettiva per la resa spaziale, il chiaroscuro per i volumi e la plasticità, la fedeltà coloristica.
Dall’Impressionismo in poi, l’arte ha progressivamente rinnegato questi princìpi accademici, portando la ricerca pittorica ad esplorare territori che, fino a quel momento, sembravano posti al di fuori delle regole. L’arte impressionista aveva messo in discussione la prospettiva e il chiaroscuro, risolvendo l'immagine, sia plastica che spaziale, in soli termini coloristici. Successivamente le ricerche artistiche di fine Ottocento, condotte da artisti come Vincent Van Gogh e Paul Gauguin, smontano un altro pilastro della pittura accademica: la fedeltà coloristica. Il colore per loro ha una propria autonomia di espressione che va al di là dell'imitazione della natura.

martedì 13 novembre 2018

L’immagine si forma nell’occhio dello spettatore

Claude Monet, I papaveri, 1873, Musée d’Orsay, Paris.

Quando comincia l’arte contemporanea? Gli storici non sono tutti d’accordo nel collocarne le origini.
Ma in cosa consiste, di preciso, l’arte contemporanea? Su cosa basiamo queste, seppure ambigue, periodizzazioni?
Detto molto brevemente, l'arte contemporanea è un’arte che ridefinisce il proprio ruolo e il proprio territorio di appartenenza, cercandolo non più nel terreno della rappresentazione, cioè della mimesi del reale. Già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, infatti, anche in seguito all’avvento della fotografia, l’arte cessa di porsi come specchio del mondo (o finestra, per usare un’altra metafora). Proprio in questo periodo ha inizio quel processo di abbandono del concetto di verosimiglianza, che apre la strada all'affermarsi di un'autonomia dell’arte rispetto al compito mimetico che per secoli le era stato proprio.

lunedì 12 novembre 2018

Sguardi che smascherano il voyeurismo dello spettatore.

Édouard Manet, Déjeuner sur l'herbe, 1863, Musée d'Orsay, Parigi. 

Le nuove forme di consumo visivo, che si sviluppano nel corso del XIX secolo, contribuiscono a determinare l’emergere di una nuova figura spettatoriale.
In particolare, con il secolo dei Lumi, si ha la drastica attenuazione delle manifestazioni di piazza, in particolare carnevalesche, in cui la partecipazione dello spettatore era attiva, pubblica e coinvolgeva tutti i sensi.  Lo sviluppo di teatri, gallerie, Salon e infine musei, luoghi istituzionali strutturati da regole rigide e destinati all’esposizione e all’intrattenimento, determinano la nascita di un pubblico disciplinato e autocontrollato. Questa nuova forma di fruizione istituzionale, così come lo sviluppo di nuovi strumenti ottici di visione, quali lo stereoscopio o lo zootropio, favoriscono l’isolamento psichico, percettivo e sociale dello spettatore moderno, così come la tendenza a privilegiare il senso della vista, a scapito di tutti gli altri. Nell’Ottocento, l’esperienza spettatoriale acquisisce pertanto la forma di una “stanza privata”, occupata da un soggetto appartato e isolato. La priorità attribuita al visivo si affianca a una forma di fruizione che richiede attenzione, immobilità, silenzio, e dunque isolamento dal contesto sociale.

venerdì 9 novembre 2018

Lo sguardo che interpella. Le regard caméra



La partecipazione emotiva dello spettatore al flusso del film è l’obiettivo del cinema classico. Il cinema moderno e postmoderno, invece, mette spesso in crisi questa forma spettatoriale, mirando a creare un effetto di distanza piuttosto che di identificazione.
Uno stilema che crea distanza e straniamento è senza dubbio lo sguardo in macchina (camera look, regard caméra), uno degli elementi più trasgressivi del linguaggio cinematografico, che elimina il filtro del narratore, in quanto lo spettatore viene coinvolto direttamente, in prima persona, all'interno della storia.
Se le inquadrature soggettive e oggettive si svolgono all'interno della narrazione (elementi diegetici), lo sguardo in macchina, al contrario, sviluppa un corto circuito nella rappresentazione (è perciò un elemento extradiegetico), perché il film interrompe il corso logico della sua narrazione e si rivolge direttamente allo spettatore, traendolo allo scoperto. In tal modo viene messo in crisi il patto che è intrinseco al cinema di finzione.
Di che patto si tratta?

martedì 6 novembre 2018

La partecipazione dello spettatore: identificazione, proiezione, empatia



La visione di un film (come di altre espressioni visive) è una forma di fruizione che oscilla tra due poli opposti: partecipazione ed estraniamento. La partecipazione è un qualcosa che va al di là del “vedere”: non si assiste solo a quanto viene raccontato; lo si vive in prima persona. Lo straniamento accade, invece, quando il film ci sembra distante e proviamo un senso di estraneità.
La partecipazione prevede diversi gradi di coinvolgimento: si va dalla semplice sincronizzazione motoria con i gesti del personaggio ad una completa immedesimazione con la storia e i suoi protagonisti. “Il cinema è proprio questa simbiosi: - scrive Edgar Morin, nel suo Il cinema o l’uomo immaginario - un sistema che tende ad integrare lo spettatore nel flusso del film; un sistema che tende ad integrare il flusso del film nel flusso psichico dello spettatore”.
Tale partecipazione è favorita dalle condizioni della fruizione filmica: l’immobilità della postura fa perdere allo spettatore il senso del proprio corpo, il buio in sala annulla le coordinate spazio-temporali esterne, lo stimolo sonoro convoglia l’attenzione sul racconto. La visione filmica costituisce, di fatto, l’attraversamento di una soglia e l’ingresso in un mondo altro.

lunedì 5 novembre 2018

Il punto di vista. Inquadrature oggettive e soggettive

Federico Fellini, 8 ½

Lo schermo, in quanto superficie che raccoglie la proiezione di immagini, richiama di per sé l’atto del guardare, di rivolgere o fissare lo sguardo verso qualcosa o qualcuno: un atto attraverso cui lo schermo diviene oggetto di uno sguardo, quello dello spettatore. Al contempo lo schermo non fa altro che raccogliere e visualizzare un punto di vista, quello di colui che ha inquadrato l’immagine con la macchina da presa. Lo schermo, cioè, veicola anche la presenza di un soggetto dello sguardo, il soggetto dell’enunciazione filmica. La visione di un film è, pertanto, sempre la risultanza di un rapporto dialettico tra questi due sguardi, presupposti dal dispositivo cinematografico.
Se il teatro è una rappresentazione che si svolge, più o meno nella sua totalità, davanti agli occhi dello spettatore, il cinema è invece, come la fotografia, una rappresentazione che viene presentata sempre attraverso lo sguardo di un altro.
Ma chi è questo altro?

L'Effetto Kulešov e il montaggio delle attrazioni



Quando fruiamo un film, non solo “guardiamo”, cioè percepiamo delle immagini. Il “vedere” va oltre la percezione; esso costituisce un atto mentale la cui funzione non è solo di considerare una realtà sensibile, ma è anche quella di individuare il suo senso latente e invisibile. Vedere è legato all’atto di intuire l’invisibile, cioè di elaborare una nostra significazione soggettiva. Quello dello spettatore è un ruolo attivo, che consiste nella negoziazione del senso, sia del film che del proprio ruolo di fruitore, perché il processo di visione ne investe contemporaneamente l’attività percettiva, cognitiva ed emotiva.
Ma come avviene ciò? In che modo avviene questa negoziazione di senso?
Nella storia del cinema registi come Pudovkin, Kulešov, Ejzenstejn, cineasti dell’avanguardia sovietica, intuiscono che il film nasce solo con il montaggio, in quanto prima di esso esistono solo inquadrature non riconducibili a una forma espressiva compiuta. Le immagini non hanno significato se non correlate tra loro ed ognuna agisce su quella che viene prima e reagisce a quella che viene dopo.

venerdì 2 novembre 2018

Campo e fuori campo. La forza espansiva dell’immagine



Ogni inquadratura cinematografica divide lo spazio in due: uno interno all’immagine (il campo, la realtà rappresentata) e  un altro posto al di là della selezione. È il cosiddetto «fuori campo», la realtà irrapresentata e quindi non visibile dallo spettatore, perché inquadrare significa sempre anche nascondere. Ritagliare un’inquadratura è un’operazione che instaura un conflitto inalienabile, perché comporta un includere e nello stesso tempo un rigettare fuori. E se il campo fa appello direttamente al sistema percettivo dello spettatore, il fuori campo fa appello alla memoria e all’immaginazione, in quanto spazio virtuale. Il campo è presenza, il fuori campo è assenza, ma di un tipo particolare, perché tale assenza può diventare presenza ad ogni momento. Basta un allontanamento di piano o di campo, un movimento di macchina o uno stacco, ed ecco che il fuori campo può essere reintegrato e ciò che prima era invisibile può mostrarsi allo sguardo. Essendo la selezione una sorta di cornice mobile, il rapporto dentro/fuori lo schermo è dialettico.

Railowsky

Un breve racconto, ispirato a una delle fotografie più famose della storia.
Non ve la presento neanche, perché tanto la conoscete tutti.
Chiaramente il racconto è senza alcuna ambizione letteraria, scritto per puro diletto.

Henri Cartier-Bresson, Derrière la gare Saint-Lazare, Paris, 1932.

Railowsky

Quella mattina il signor Gregorio Comandini non si risvegliò nel suo letto, nel suo bilocale al quarto piano di Viale Argonne. Un brivido di freddo gli scosse le ossa, avvolte in un vestito che non ricordava di avere. Un vestito di altri tempi, gli sembrò, aprendo gli occhi un poco cisposi.
Ma dove si trovava? In una strada? In una piazza? Non riusciva a capire bene. Ma il fatto davvero inammissibile era che si trovasse all’aperto, in un luogo sconosciuto, in una mattina (almeno così gli parve di poter intuire dalla luce che avvolgeva le cose intorno) piovosa e grigia come l'argento brunito. Era seduto con le spalle poggiate a una ringhiera di ferro. Finalmente si accorse di avere i pantaloni bagnati sul di dietro. Era ancora assorto in questo stupefacente mistero quando di fronte a sé vide un’ombra, un uomo con un vestito scuro e un borsalino. Sembrava apparso dal nulla. Gli passò davanti poco lontano, correndo e saltando sui pioli di una scala al centro di una larga pozzanghera. Ad ogni salto, la scala ballava nell’acqua, creando dei solchi ovali tutt’intorno. Neanche il tempo di realizzare cosa fosse che l’uomo era scomparso.

L'evoluzione dello spettatore cinematografico

Buster Keaton, Sherlock Jr. (noto in Italia come La palla n.13), 1924

Si è soliti suddividere la storia del cinema in alcune grandi ere: primitiva, classica, moderna e postmoderna. Ognuna di queste implica anche quattro grandi fasi, o forme, di fruizione da parte dello spettatore.
Quello che Burch definisce “modo di rappresentazione primitivo” (MRP), proprio dei primi anni del cinema, è caratterizzato dalla posizione fissa e frontale della macchina da presa, dall’uso generalizzato di fondali dipinti, da un’illuminazione costante e da scenografie che tengono gli attori a una grande distanza dalla macchina e in posizione frontale, come nei tableaux vivant, dallo sguardo degli attori rivolto alla macchina da presa e interpellante lo spettatore come già avveniva nei music-hall e nel teatro popolare, e da un montaggio discontinuo con grandi ellissi temporali. Qui è soprattutto la figura del commentatore a garantire una certa linearizzazione del racconto. In questo modo, però, il film risulta privo di chiusura diegetica, in quanto il narratore è una figura ben evidente ed esterna al film. Questa forma primitiva di cinema è sostanzialmente una “esibizione” della realtà sullo schermo, si tratti di una realtà quotidiana (che il film documenta) o di una teatrale; l’elemento centrale resta l’attrazione, più che la narrazione di una storia.

lunedì 29 ottobre 2018

Lo spettatore al cinema



Il semiologo Christian Metz, in un importante studio del 1980 su cinema e psicanalisi, osserva come lʼesperienza del guardare senza essere visti accomuna il voyeur e lo spettatore cinematografico, in quanto in entrambi agiscono delle ʻpulsioni a vedereʼ che nascono da ciò che Metz definisce il desiderio perduto, cioè il desiderio per lʼoggetto-feticcio (ciò che lo spettatore vede proiettato) che viene mantenuto a distanza in maniera tale che la sua pulsione percettiva si limiti ai sensi a distanza (vista e udito), traendo piacere soprattutto dalla vista: si vede ma non si tocca. Il film, per il suo spettatore, si svolge in un “altrove” che è vicinissimo e inaccessibile nello stesso tempo.
La maggior parte delle arti visive (teatro, cinema, pittura, scultura) si fondano su questa sorta di sadismo visivo, mentre quelle che si basano sui sensi a contatto (gusto, odorato, tatto) sono spesso considerate minori (arte culinaria, dei profumi etc.). Queste ultime sono pratiche che invadono direttamente la sfera personale del soggetto, agendo sulla sua fisicità e portando ad avere un contatto immediato con l’oggetto. Mentre le arti visive esasperano il desiderio e l’attesa.
Quindi il cinema opera sulle pulsioni dei sensi a distanza stimolando il piacere scopico di un individuo, del quale ne dirige lo sguardo.

domenica 28 ottobre 2018

Nascita dell’osservatore moderno. La corporeità della visione

Joseph Mallord William Turner, Luce e Colore (la Teoria di Goethe), 1843, Tate Gallery, Londra.

Per tentare di comprendere le caratteristiche della visione moderna è importante fare riferimento a un testo del 1990, tradotto solo qualche anno fa in italiano, dal titolo Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo, di Jonathan Crary.
“Period Eye” è l’espressione usata da Baxandall per definire quell’insieme di categorie, schemi e abitudini sociali tramite i quali un’epoca organizza la propria esperienza visiva; più diffusa, ai nostri giorni, è la dicitura “regime scopico” per designare l’omogeneità di percezione che accomuna gli individui che appartengono a una certa cultura. Secondo Crary, nei primi decenni del XIX secolo si verifica una profonda trasformazione del modello classico di visione, ereditato dal Rinascimento.

lunedì 22 ottobre 2018

Simulazione incarnata. Il corpo dello spettatore

Thomas Struth, Art Institute of Chicago II, Chicago (1990).

Quali meccanismi si mettono in moto durante la visione di un quadro, o di una qualsiasi espressione figurativa? La “visione” è un qualcosa che riguarda solo i nostri occhi e la nostra facoltà simbolico-cognitiva?
Sia le discipline antropologiche che le neuroscienze hanno messo in luce un fatto importante: lo spettatore è provvisto di un corpo, oltre che di una mente, ed è con il suo corpo e nel suo corpo (nel suo corpo-mente) che egli realizza l’esperienza estetica, cioè percepisce, vive, comprende e reagisce alla rappresentazione che ha di fronte. E questo avviene sia quando è in un museo, o a teatro, o al cinema, o in qualunque altro contesto in cui può darsi un’esperienza di tipo estetico.

sabato 20 ottobre 2018

L'estetica del sublime e le Rückenfiguren



Partiamo da una domanda difficile, oggetto di molte controversie.
Di cosa si occupa l’arte? Molti, ancora oggi, risponderebbero che l’arte è un’attività umana che ha a che fare con il bello. Chiaramente si tratta di una risposta alquanto vaga. Infatti l’estetica, la disciplina filosofica che studia l’arte, non si occupa solo del bello (termine già di per sé molto complesso da definire), ma anche del brutto, del comico, del grottesco, del tragico e del sublime.
Ma cos’è il bello?
Il modello dominante nel mondo greco, e che arriverà fino alle soglie dell’età moderna, è quello che considera la bellezza come armonia delle forme, misura, simmetria, equilibrio e rigorosa proporzione fra le parti di un insieme, in grado di suscitare nello spettatore un sentimento di piacere. Nella bellezza armonica, la molteplicità dei vari elementi viene ricondotta ad unità. Si tratta di un modello che, affermando la necessità di rispettare determinati princìpi aritmetici e geometrici, assume tuttavia forme e significati diversi nelle varie epoche.

martedì 9 ottobre 2018

La decostruzione dell’identità. "Untitled Film Stills" di Cindy Sherman

Untitled Film Still #3

Le fotografie di Cindy Sherman sono delle meticolose messe in scena. Le sue immagini si collocano su un confine tra fotografia e performance teatrale, la cui ripresa è come se fissasse una scena.
Una delle sue prime serie, Untitled Film Stills, è costituita da 69 fotografie, prodotte tra il 1977 e il 1980. Già il titolo (il cui significato letterale è “Fermo-immagine senza titolo) ci induce a considerare queste immagini non come delle semplici fotografie, ma come dei fermo-immagine cinematografici, momenti di una narrazione. Sono, inoltre, delle immagini in bianco e nero, perché in esse la Sherman mette in scena gli stereotipi visivi, ma anche psicologici, che il cinema hollywoodiano degli anni Cinquanta e Sessanta aveva costruito intorno all’immagine della donna (la starlette, la femme fatale, la casalinga, la donna in carriera, la ragazza romantica). Le molteplici identità femminili rivelate da queste fotografie mirano a evidenziare le convenzioni sociali e culturali che hanno sottratto alle donne la propria individualità. Modellati dai media, instillati dalla cultura, questi stereotipi condensano una serie di attributi del “femminile” - la fragilità, la seduzione, il mistero (per citarne alcuni) - che le donne devono rispettare per poter “esistere”.

domenica 7 ottobre 2018

Gregory Crewdson. Il lato oscuro del sogno americano

Dalla serie "Beneath The Roses"

La forma del “tableau” di grande formato e la messa in scena caratterizzano anche le fotografie di un altro fotografo nordamericano, il newyorchese Gregory Crewdson, che con le sue fotografie racconta il lato oscuro del sogno americano, attraverso soggetti e atmosfere che si richiamano apertamente alla pittura romantica del XIX secolo e ai quadri di Hopper, ed è stato accostato alla cinematografia di autori come Stephen Spielberg e David Lynch. D’altra parte le sue immagini sembrano dei veri e propri fotogrammi di film, spesso abitate, tra l’altro, da protagonisti del cinema, come Julianne Moore, William Macy o Susan Sarandon.
La sua produzione inizia già nella seconda metà degli anni Ottanta, ma è soprattutto negli ultimi venti anni che il suo stile ha attinto una pienezza formale (grande formato a colori, uso di cast e messa in scena cinematografica, manipolazioni in postproduzione) e tematica (province abbandonate, il vuoto e la solitudine della famiglia e dell’individuo americani, ripresi in contesti angoscianti, che siano interni o esterni).

mercoledì 3 ottobre 2018

Le fotografie "assorbite" di Jeff Wall

Jeff Wall. A View from an Apartment, 2004-05.

L’ultimo libro di Michael Fried, Why Photography Matters As Art As Never Before (2009), affronta il tema dell’assorbimento e dell’anti-teatralità nell’ambito della fotografia d'arte contemporanea. Egli nota come, a partire dagli anni '70, la produzione di una nuova generazione di fotografi d'arte ha avuto come destinazione non la pubblicazione su libri o riviste, ma la presentazione in grande formato all’interno di altri contesti espositivi. In quegli anni la fotografia, sempre più consapevole delle proprie potenzialità, prendeva le distanze dalle sue funzioni giornalistiche e approdava nelle gallerie d'arte e sulle pareti dei musei. Di questa generazione fanno parte artisti come Jeff Wall, Cindy Sherman, Hiroshi Sugimoto, Philip-Lorca diCorcia, Thomas Demand, Rineke Dijkstra e Bernd e Hilla Becher (oltre agli ex studenti di Bechers alla Düsseldorf Kunstakademie, Thomas Struth , Andreas Gursky, Thomas Ruff e Candida Höfer).

lunedì 1 ottobre 2018

L’estetica dello spettatore nascosto

Jean-Baptiste-Simeon Chardin, Bolle di sapone (dopo il 1739), dopo il 1739, LACMA, Los Angeles.

Secondo Michael Fried (“Absorption and Theatricality”), verso la metà del Settecento si assiste in Francia a un cambiamento radicale del gusto, che porta a prendere le distanze dalle raffinatezze e dagli eccessi manieristici del Rococò, per valorizzare una pittura più sobria, più morale, ma soprattutto meno teatrale, dove per “teatrale” si intende l’eccessiva spettacolarizzazione della rappresentazione, l’ostentazione della messa in posa indirizzata verso lo sguardo dello spettatore.
Si afferma, al contrario, un paradosso, la cui elaborazione teorica è da attribuire soprattutto al Diderot dei “Salons” (i saggi in cui il filosofo francese analizza la pittura moderna e che inaugurano la moderna figura dello scrittore d’arte): affinché lo spettatore possa essere catturato da una scena dipinta, quest’ultima deve escludere totalmente la sua presenza, elaborare la “finzione ontologica” della sua assenza o inesistenza. I personaggi rappresentati devono essere ritratti completamente assorbiti nelle proprie attività, silenziosi, dimentichi di sé, ignari di essere osservati. La scena deve, cioè, risultare realistica, realizzare una finzione di verità. Ecco il paradosso: il quadro è fatto per essere guardato; esso deve attirare l’attenzione dello spettatore, prolungarne la contemplazione. Ma ciò è possibile solo ignorandolo e mettendolo a distanza, e più questa indifferenza sarà resa in maniera convincente, più lo spettatore potrà immedesimarsi nella scena, parteciparvi e sentirsi presente.

domenica 30 settembre 2018

Le atmosfere notturne di Georges de La Tour

Saint Joseph charpentier, 1643, Musée du Louvre, Paris.

La pittura del Seicento, caratterizzata da quello che Fried definisce “assorbimento”, cioè dalla chiusura dell’opera in se stessa e dalla negazione dello spettatore, non riguarda solo la rappresentazione di interni fiamminghi e olandesi. Si osservino, ad esempio, queste tele dell’artista del barocco francese Georges de La Tour, interprete in modo personale della scuola caravaggista.
Silenzio, calma, penombra, sono le caratteristiche di queste atmosfere intime e notturne, raccolte intorno al chiarore di una candela, dove la luce dialoga con l’oscurità persino nelle pieghe dei vestiti, in molteplici sfumature.

lunedì 24 settembre 2018

Testimoni della chiamata di Dio.



Lorenzo Lotto e Michelangelo Merisi detto il Caravaggio: due pittori molto diversi tra loro, sebbene entrambi posti su due linee di confine. La vita artistica di Lotto abbraccia tutto l’arco della prima metà del Cinquecento, quella del Caravaggio comprende invece gli ultimi anni del secolo e il primo decennio del Seicento. Chiude la parabola del Rinascimento il primo, apre quella barocca il secondo.
Pur appartenendo a due epoche diverse, l’opera di entrambi si caratterizza per il realismo della rappresentazione del quotidiano e per l’azione drammatica impressa alle scene.
Nel 1535 Lotto dipinge la famosa Annunciazione di Recanati; oltre settanta anni dopo Caravaggio realizza la stupefacente Conversione di San Paolo, di Santa Maria del Popolo. Cosa accomuna queste due opere? In entrambe si realizza l’incontro sconvolgente tra l’umano e il divino. In ambedue Dio irrompe nella vita di un essere umano, chiamandolo a una missione che sconvolgerà non solo la sua esistenza, ma muterà per sempre il destino del mondo intero.

Le giungle selvagge di Henri Rousseau e Antonio Ligabue

Entrambi sono stati definiti pittori naïf (letteralmente: ingenuo). Di sicuro pittori autodidatti, estranei a scuole e tendenze. In un secolo caratterizzato dalla ricerca della spontaneità, dell’istintività e del superamento delle regole della rappresentazione ereditate dal passato, i pittori naïf ottengono questi risultati partendo dal solo impulso creativo individuale. E per questo molti riconoscono alla loro opera una grande forza di rottura.
Le opere di Henri Rousseau, detto il Doganiere (il primo artista naïf riconosciuto come tale) e dell’italiano Antonio Ligabue si richiamano ai sogni e alle favole; le loro giungle tropicali hanno atmosfere magiche e colori brillanti; la violenza e la ferocia che le animano hanno una purezza onirica e primitiva, non filtrata da alcuna sovrastruttura stilistica o ideologica. Nei dipinti di entrambi traspare un atteggiamento di comunione con la natura, che è madre primigenia e insieme matrigna feroce, depositaria del mistero tragico e grandioso della vita.

La natura selvaggia e misteriosa di Henri Rousseau, detto il Doganiere

Armonia e mistero, seduzione e inquietudine, luce e ombra: accostarsi a L’incantatrice di serpenti di Henri Rousseau, detto il Doganiere, è un’esperienza dei sensi che, come gli animali della foresta, si lasciano incantare dall’atmosfera magica e dalla sinfonia ammaliatrice dei colori e delle forme presenti sulla tela.


Henri Rousseau, detto il Doganiere, L’Incantatrice di serpenti, 1907, Parigi, Musée D’Orsay.


Personaggi del mito e della storia - I CENTO VOLTI DI PROMETEO



Prometeo è il Titano che, secondo la mitologia greca, fu incatenato da Zeus alle rocce del Caucaso per aver osato rubare il sacro fuoco dell’Olimpo per donarlo agli uomini. Innumerevoli sono le metamorfosi che questo personaggio ha subito storicamente, in letteratura e nelle diverse forme d’arte. Da Esiodo a Eschilo, da Ovidio a Boccaccio, da Voltaire a Rousseau, da Goethe a Shelley, da Marx a Nietsche, da Camus ai nostri giorni, Prometeo non cessa di rinnovare la sua fiamma accesa nel nostro immaginario. Nella storia della cultura occidentale, egli è rimasto simbolo di ribellione e di sfida ai limiti imposti dal destino e dall’autorità, e così anche metafora della conoscenza e del pensiero libero nonché dello spirito di iniziativa dell’uomo. Ora dio benefattore dell’umanità, patrono delle arti e delle scienze, ora invece responsabile dell’allontanamento del genere umano da uno stato di grazia iniziale; ora ribelle Lucifero, ora messianico salvatore; emblema della razza ariana e simbolo di riscatto per le masse oppresse: si può dire che nessun altro mito dell’antichità abbia avuto connotazioni così versatili e ambivalenti.

La Natura morta del Seicento



Il Seicento è il secolo della crisi, caratterizzata innanzitutto dalla perdita della visione antropocentrica propria dell'età umanistico-rinascimentale, ossia della fiducia nelle potenzialità dell’uomo di dominare la natura e l’universo e di essere artefice del proprio destino. Con l'affermarsi del modello eliocentrico, che soppianta quello geocentrico, l’uomo del Seicento scopre di non essere più al centro dell’universo e di non avere pertanto dei saldi punti di riferimento. In secondo luogo, la dilatazione dei confini geografici del mondo, dopo la scoperta dell’America e lo spostamento conseguente del baricentro economico dal Mediterraneo all’Atlantico, determinano la decadenza economica dell’Italia, l’emergere di nuove potenze commerciali e coloniali (Paesi Bassi e Inghilterra) e la crisi della centralità dell'Europa. Inoltre, con il Seicento, vengono meno anche i tradizionali punti di riferimento politici e religiosi: in quest'epoca trova compimento, infatti, il processo inarrestabile di crisi che aveva investito le due istituzioni cardine del Medioevo, la Chiesa e l’Impero. All’unica chiesa cattolica si sono affiancate numerose chiese riformate (luterana, calvinista ecc.) e all’impero numerosi stati nazionali, più o meno estesi. Il Seicento è inoltre segnato dalle sanguinose guerre di religione, dalla Guerra dei Trent'anni, dalle epidemie di peste e dalle crisi economiche. Di qui il senso di profondo smarrimento, di insicurezza, di instabilità del reale, delle ingannevoli apparenze, di transitorietà del tutto che caratterizza questo secolo.

LA SIMBOLOGIA LAICA DEGLI ANIMALI DEL RINASCIMENTO



Già a partire dal periodo tardo-gotico, l’arte era uscita fuori dalle chiese ed era comparsa negli spazi privati dei nobili e della emergente borghesia cittadina. Con il Rinascimento, il tema della centralità dell'uomo e il rinnovato interesse verso il mondo naturale influirono significativamente sull’arte, determinando, tra l’altro, anche il fiorire di generi come il ritratto. A partire dalla seconda metà del Quattrocento, in particolare, rinacque come genere autonomo il ritratto privato, spesso commissionato all’artista in occasioni particolari come il matrimonio.
Il ritratto rinascimentale non era mai una mera riproduzione delle fattezze esteriori della persona raffigurata, ma racchiudeva sempre un elemento simbolico e idealizzato, portatore di un qualche messaggio, riferito al prestigio sociale del soggetto, alle sue qualità morali o alle facoltà che avevano determinato il suo successo. Piccoli oggetti mobili potevano rivelare, grazie alla loro precisa scelta e posizione, qualcosa in più del soggetto, soprattutto riguardo alla sua interiorità. Oltre ai dettagli rivelatori della ricchezza e della grandezza del personaggio ritratto (gioielli, pellicce, broccati, per le donne acconciature elaborate e incarnato chiarissimo), fu tipico raffigurare oggetti e animali simbolici, derivati dalla simbologia della pittura sacra, come ad esempio il cane, associato al valore della fedeltà.

IL POPOLO CHE AVANZA. Rappresentazioni della massa in rivolta



La fotografia e le immagini cinematografiche e televisive ci hanno abituato a scene di rivolte e manifestazioni popolari (operaie, contadine, studentesche, partitiche, movimentiste), nelle quali abbiamo la rappresentazione di una massa collocata in una strada o in una piazza che avanza verso lo spettatore. Ma questa iconografia ha inizio in pittura. La raffigurazione della folla compatta, ripresa frontalmente, mentre marcia incontro all'osservatore, ha origine con i movimenti rivoluzionari del XIX secolo. Il suo potere iconico non si limita a documentare un fatto accaduto, ma è in grado di coinvolgere lo spettatore, di farlo sentire partecipe del movimento, di spingerlo a condividere l’ideale di redenzione dell’umanità e di proiettarlo nel futuro che è chiamato a realizzare. Questo genere di opera d’arte pertanto, con la diffusione della comunicazione di massa, cessa di essere un oggetto destinato esclusivamente ai musei o alle collezioni private e si trasmuta in immagine, in medium dotato di un grande potere di evocazione e seduzione.

Gli animali nell'arte - I Bestiari medievali

Aberdeen Bestiary


Innanzitutto, per capire l'iconografia medievale riguardante gli animali, dobbiamo partire da un brano di Michel Pastoureau: "A differenza di quanto generalmente si creda, gli uomini del Medioevo sapevano osservare assai bene la fauna e la flora, ma non pensavano affatto che ciò avesse un rapporto con il sapere, né che potesse condurre alla verità. Quest'ultima non rientra nel campo della fisica, ma della metafisica: il reale è una cosa, il vero un'altra, diversa. Allo stesso modo, artisti e illustratori sarebbero stati perfettamente in grado di raffigurare gli animali in maniera realistica, eppure iniziarono a farlo solo al termine del Medioevo. Dal loro punto di vista, infatti, le rappresentazioni convenzionali - quelle che si vedono nei bestiari miniati - erano più importanti e veritiere di quelle naturalistiche. Per la cultura medievale, preciso non significa vero".
Per comprendere l'iconografia medievale, dunque, dobbiamo considerare il rapporto tra l'uomo di quel tempo e la natura. La realtà fisica della natura non era considerata dal punto di vista estetico o scientifico, ma veniva vista e pensata, compresa e assimilata in rapporto con la dimensione spirituale. Se già San Paolo, nelle sue epistole, aveva affermato che il mondo terreno è lo specchio della volontà divina, è Ugo di San Vittore che nel De tribus diebus (1123) afferma esplicitamente che “questo mondo sensibile è quasi un libro scritto dal dito di Dio”. La natura, dunque, è una sorta di testo cifrato, in cui ogni elemento è signum, cioè simbolo che allude ad "altro", a verità spirituali e religiose, una sorta di Sacra Scrittura redatta in un linguaggio diverso dalle parole.

domenica 23 settembre 2018

Vilhelm Hammershøi. Il mistero della casa silenziosa



Vilhelm Hammershøi (1864-1916), definito “il poeta del silenzio”, è uno degli enigmi più misteriosi e affascinanti della storia dell’arte. I suoi interni dall’atmosfera ipnotica e sospesa ne fanno un caso pressoché unico. Si rimane incerti se considerarlo un lontano discendente di Johannes Vermeer o un anticipatore di Edward Hopper.  Ma nelle sue opere l’eco della linearità borghese del pittore fiammingo del Seicento sembra affievolita, e il silenzio e la solitudine dei suoi personaggi hanno un incanto e un’enigmaticità lontani dalla luce raggelante e dagli sguardi alienati dei quadri del pittore statunitense.
Nato a Copenaghen da una famiglia medio borghese, Hammershøi compie dei regolari studi accademici, conduce un’esistenza monotona e compie vari viaggi in Europa. Più tardi conoscerà Ida Ilsted, che diventerà sua moglie e modella.
Pur essendo ben informato sulle ultime tendenze dell’arte contemporanea, Hammershøi rimane sempre fedele alla sua maniera di dipingere, al di fuori di ogni moda e di ogni tentativo di classificazione.

Gli animali nell’arte – La svolta della pittura tardogotica. Giotto e Pisanello



Nell’iconografia e nell’iconologia dell’arte medievale, alla rappresentazione dell’animale veniva attribuita una funzione simbolica, oppure allegorica, di tipo religioso o morale. Le immagini zoomorfe, reali o fantastiche senza distinzione, erano simboli del divino oppure allegorie utilizzate per rappresentare l'eterna lotta del bene contro il male, costituendo un codice di linguaggio preciso e di sicuro effetto sul popolo di credenti analfabeti.  La visione e l’interpretazione di tali figure, pertanto, erano strettamente condizionate dal necessario rimando ai testi sacri e della tradizione, e ai loro commenti, e non agli animali in carne e ossa che dividevano con l’uomo la vita quotidiana.
Già alla fine del XIII secolo, in molte rappresentazioni dell’arte gotica, emerge una nuova sensibilità nei confronti della natura e quindi anche degli animali, la quale rivela un modo diverso di guardare e di dare forma artistica alla realtà.

FINESTRE NELL’ARTE – DAL CUBISMO AL SURREALISMO


Il percorso dell’arte del Novecento è costituito di tappe che hanno segnato il progressivo annullamento dei canoni fondamentali della pittura tradizionale, riassumibili nel principio della verosimiglianza dell’immagine rispetto alla realtà attraverso la prospettiva, la fedeltà plastica e coloristica. Dall’Impressionismo in poi, la storia dell’arte ha progressivamente rinnegato questi princìpi, portando la ricerca pittorica ad esplorare territori che, fino a quel momento, sembravano posti al di fuori delle regole.
L’Espressionismo aveva ribaltato quei canoni in nome della necessità dell’espressione delle istanze interiori dell’artista. Il cubismo porta alle estreme conseguenze la demolizione del principio fondamentale dell’arte accademica: la prospettiva. Già nel periodo post-impressionista, colui che volutamente deforma la prospettiva è Paul Cézanne. Le diverse parti che compongono i suoi quadri sono quasi tutte messe in rapporto prospettico, ma da angoli visivi diversi, demolendo quello che è il principio fondamentale della prospettiva: l’unicità del punto di vista. Picasso, meditando la lezione di Cézanne, porta lo spostamento e la molteplicità dei punti di vista alle estreme conseguenze. Nei suoi quadri, le immagini si compongono di frammenti di realtà, visti tutti da angolazioni diverse, e assemblati in una sintesi simultanea del tutto originale. Nella prospettiva tradizionale, la scelta di un unico punto di vista, imponeva al pittore di guardare solo ad alcune facce della realtà. Nei quadri di Picasso, l’oggetto viene rappresentato da una molteplicità di punti di vista, così da ottenere una rappresentazione «totale» dell’oggetto.

FINESTRE NELL’ARTE – POST-IMPRESSIONISMO ED ESPRESSIONISMO



Il periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento è l’età della crisi. Con il crollo della fiducia positivista nella scienza e nel progresso della storia e l’emergere di inquietudini nuove, si avverte in tutta Europa un senso di disfacimento e di fine di un'epoca. E' questo il periodo del Decadentismo in letteratura.
Il pensiero prende atto della frantumazione del mondo in un universo labirintico ed indecifrabile, provocando un senso di dubbio e di sfiducia nella scienza e nella ragione e mettendo in crisi il modello di razionalità illuminista e positivista. La scoperta dell’inconscio determina la crisi della soggettività, che si scopre impotente e in balia di forze invisibili e difficilmente controllabili.
In campo artistico, già negli anni Ottanta del XIX secolo il movimento impressionista sembra abbia esaurito la sua carica propositiva. Gli autori che per convenzione vengono definiti post-impressionisti non sentono più il bisogno di riflettere la reale consistenza della natura attraverso la luce e il colore, ma cercano di rappresentare una visione di essa in modo sempre più soggettivo. Essi non si pongono più il problema di riprodurre la realtà (funzione assolta molto più efficacemente dalla fotografia), ma quello di comunicare, in primo luogo sentimenti e stati d’animo.

Finestre nell’arte – Romanticismo e Impressionismo.



Una finestra sul chiaro di luna.
Mentre la finestra nella pittura del Rinascimento è un dispositivo ottico di organizzazione dello spazio, una "veduta" su paesaggi esterni prospetticamente inquadrati e nel Seicento diviene una soglia che protegge e separa l'interno della casa dalla città (generalmente l'esterno non si vede, oppure si vede in modo molto vago e sfocato), nella pittura romantica la finestra diviene una soglia protesa verso l’assoluto, legata all’idea di sublime.
L'idea di "sublime" aveva conosciuto la sua prima definizione teorica nel saggio del 1756 di E. Burke, "Inchiesta sul Bello e il Sublime", in cui l'autore considera il bello e il sublime tra loro opposti. Il sublime non nasce dal piacere della misura, dell'ordine e della forma bella dell'oggetto, ma ha la sua origine nei sentimenti di terrore, di sgomento, di smarrimento suscitati dalla dismisura, da “tutto ciò che è terribile o riguarda cose terribili” (per es. il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio, l'infinito ecc.).

sabato 22 settembre 2018

FINESTRE NELL’ARTE – RINASCIMENTO E SEICENTO



Le simbologie delle finestre nella storia dell’arte.
La finestra è un elemento che affascina per la sua ambiguità: oggetto apribile e chiudibile al tempo stesso, separa e unisce, permette di vedere e di essere visti oppure di celare e di celarsi, contiene in sé la trasparenza del vetro e l’opacità del battente.
In questa serie di articoli prenderemo in esame alcune opere pittoriche in cui le finestre costituiscono elementi rappresentativi o simbolici di rilievo.
Prescindendo da ogni considerazione di storia dell’architettura, possiamo senz’altro dire che nel nostro immaginario comune porte e finestre si trovano su una linea di confine, che separa un “dentro” (l’ambito del privato, del familiare, del conosciuto) da un “fuori” (l’ambito del pubblico, dell’ignoto).
Porte e finestre costituiscono delle aperture di accesso, tramite le quali il “dentro” e il “fuori” sono messi in relazione. La porta presuppone la possibilità di entrare in un certo luogo o di uscirne per entrare in un altro; la finestra dà modo alla luce di penetrare all’interno di uno spazio chiuso e fonda la possibilità “del guardare fuori”.
Ma la percezione di ciò che è “interno” e di ciò che è “esterno” varia nei secoli. Si potrebbe studiare il mutamento di questa percezione osservando come porte e finestre sono state rappresentate nelle arti figurative.

Cavalli da incubo e da sogno



Fin dall’antichità, il mondo animale ha sempre ispirato la produzione artistica dell’uomo. Ma, già a partire dal periodo pre-romantico, esso comincia a comparire nei dipinti in un modo completamente diverso rispetto a prima, conformemente alla svolta subita dalla storia dell’arte negli ultimi due secoli. Quest’ultima, infatti, abbandona gradualmente la sua finalità mimetica (arte come riproduzione del reale) e la sua impostazione accademica per farsi soprattutto rappresentazione del mondo interiore, delle inquietudini e dei drammi dell’uomo moderno, o ricerca dell’essenza nascosta della realtà o di una nuova spiritualità. La tensione alla rappresentazione accurata e realistica degli animali lascia il posto a distorsioni formali e cromatiche capaci di esprimere o di incarnare le nuove tensioni dell’arte moderna: essi vengono rappresentati talora come simboli viventi delle forze vitali della natura o della psiche, oppure sintetizzati fino a raggiungere la loro essenza formale o spirituale, oppure “dinamizzati” per farne metafora delle spinte della storia e del progresso umano, o ancora deformati per divenire espressione delle angosce e dei traumi che vive l’umanità del tempo. E così l’avvicendarsi dell’arte moderna, dal Romanticismo alle Avanguardie del XX secolo, coinvolge la rappresentazione del mondo animale in quel processo di allontanamento dalla forma bella e armonica, dall’idealizzazione accademica della realtà, per farsi deformazione di essa e imporsi come immagine potente della sofferenza umana, della violenza, della passione, dell’oscurità dell’inconscio, degli sconvolgimenti interiori e storici degli ultimi due secoli.