lunedì 18 novembre 2019

Corpi tra Eros e Thanatos. La fotografia ‘maledetta’ di Joel-Peter Witkin

Joel-Peter Witkin, Still Life – Marseille, 1992

Non apparirà poi del tutto provocatoria l’affermazione secondo cui la fotografia ha una vocazione necrofila, cioè a bloccare, a congelare, come si dice, la vita, impedendo al tempo di scorrere, al movimento di compiersi, fermando il respiro di coloro che sono catturati nella cornice, restituendone corpi inanimati e spesso frammentati. «Ogni fotografia è un memento mori”, scriveva d’altra parte Susan Sontag; fotografare una persona è una maniera di partecipare alla sua mortalità.
E’ questa terribile vocazione, portata all’eccesso, che si avverte accostandosi alle opere del fotografo statunitense Joel-Peter Witkin, che costringe lo spettatore a confrontarsi con gli aspetti più terribili dell’esistenza, impedendogli una fruizione passiva e sfidandolo a fare i conti con le sue repulsioni e i suoi tabù.

Myself as a dead clown, 2007.

Più volte, nelle interviste, Witkin ha raccontato l’episodio della sua infanzia che lo avrebbe portato ad interrogarsi ininterrottamente sulla morte e a riconoscerla come parte integrante della vita, secondo un’idea che domina tutta la sua produzione artistica:
"Successe di Domenica quando mia madre, io e il mio fratello gemello stavamo scendendo le scale del palazzo in cui abitavamo. Stavamo andando in chiesa. Mentre camminavamo lungo il corridoio verso l'ingresso del palazzo, abbiamo sentito uno schianto incredibile insieme ad urla e grida in cerca di aiuto. L'incidente ha coinvolto tre vetture, tutte e tre con famiglie complete dentro. In qualche modo, nella confusione, non stavo più tenendo la mano di mia madre. Nel punto in cui mi trovavo sul marciapiede, ho potuto vedere qualcosa che rotolava da una delle auto rovesciate. Si fermò sul marciapiede dove mi trovavo. Era la testa di una bambina. Mi chinai a toccare il viso, per parlargli - ma prima che potessi toccare qualcuno mi ha portato via".

Gods of Earth and Heaven (1988)

L’opera fotografica di Witkin, figlio di madre cattolica e padre ebreo, recupera la grammatica dell’arte sacra scardinandone i contenuti iconologici e offrendone una nuova visione, basata su una personale ricerca dell’esistenza di Dio. Al centro della sua produzione c’è il tentativo di comprendere e rivelare la “sacralità” nascosta dietro il tormento e la perversione. Ciò che veramente ha influito sulla sua produzione sono stati i grandi capolavori dei pittori del passato. Molte delle sue fotografie rappresentano santi, crocifissi, martiri, dannati della tradizione cristiana. Ma sono forti anche i richiami alle figure del mito e della pittura rinascimentale fiamminga (di Bosch, in particolare), così come alle nature morte del Seicento o al simbolismo ottocentesco. Tutti soggetti declinati con i temi fissi dell’opera di Witkin: la morte, la sessualità, il perturbante.
Esaltando le immense possibilità espressive dello strumento fotografico, inteso anche come manipolazione delle tecniche di stampa, l’artista realizza immagini che oscillano tra la visione mistica e la teatralità barocca, tra le atmosfere del simbolismo e il nonsense surrealista, dando vita a delle messe in scena che traducono in tableaux vivants le visioni mentali dell’artista. Il tema persistente di queste scenografie è la morte, in accordo con quanto scriveva Barthes a proposito del legame tra fotografia e teatro: “per quanto viva ci si sforzi d’immaginarla […] la Foto è come un teatro primitivo, come un Quadro Vivente: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti”.


Gli “attori” che agiscono nella fotografia di Witkin sono figure distorte e deformi, a volte unite a protesi o in simbiosi con macchine. I soggetti fotografati sono spesso i cosiddetti freaks, ma anche transessuali e animali, feti e prostitute, donne obese e persone con menomazioni fisiche; persino cadaveri smembrati in pezzi.
In apparenza sembrerebbe che l’oggetto dell’opera di Witkin sia il corpo nudo. Eppure mai questo corpo è mostrato nella sua “nudità naturale”, così come appare un corpo spogliato di ogni velo. A dire il vero, neanche i corpi levigati di Weston o quelli frammentati di Brandt o le armoniose forme di Stieglitz potevano dirsi “corpi mostrati nella loro naturalità”, semplicemente perché la fotografia, o meglio, la rappresentazione in genere non può farlo. Ciò che colpisce nell’opera di Witkin, tuttavia, è la presenza costante di protesi (maschere, cinghie, catene, travestimenti e strumenti di ogni genere) che fanno del corpo umano una materia plasmabile in senso mostruoso e perverso, una superficie fatta di ibridazioni, cicatrici, lacerazioni e menomazioni.

Portrait of a dwarf, 1986.

Ogni canone estetico, riguardante la rappresentazione del corpo nudo, viene sovvertito, facendone il punto di contatto tra universi altrimenti antitetici come la vita e la morte, il normale e il deforme, eros e thanatos. Le parole di Celant offrono, a questo riguardo, un’ottima sintesi:
“Le fotografie di Joel-Peter Witkin sembrano muoversi nell’universo del perverso e del sacrilego, perché toccano tutto ciò che è tabù, proibito e consacrato. Attingono dal crogiuolo della vita e della morte, del normale e del diverso, li rendono interscambiabili, cosicché le immagini subiscano una sorta di chirurgia diabolica dove il sacro e il profano, il dolore e il piacere, il femminile e il maschile si dissolvono e si trasformano, si intrecciano e creano una hybris e una mescolanza proibite.” (Celant, Fotografia maledetta e non)
Combinando i corpi con oggetti e nature, scenografie e fondali, Witkin ricrea un universo ancestrale e primitivo, quello in cui il deforme e l’ibrido non erano rimossi, ma accolti nei miti e nelle storie in quanto figure ‘meravigliose’ e oracolari, così come succedeva per la morte, non interdetta, ma chiamata a rappresentare la faccia complementare della vita. Ciò che cerca di creare, con la sua opera fotografica, è un “ritorno all’unità senza differenziazione”, senza distinzioni e senza limiti, a “una situazione primordiale, in cui tutte le metamorfosi convivono, ogni trasformazione e ogni visione sono possibili, senza alcuna paura o diniego dell’enigma del diverso e dell’ignoto, del mostruoso e dello strano” (Celant, Id.), a una dimensione dove non esiste identità sicura (né maschile né femminile, né umano né animale, né vivo né morto), ma tutto è rovesciabile, assoggettabile a deformazione o ibridazione. La fotografia diventa quindi il punto di congiunzione tra sacro e profano, spirituale e materiale, attraverso la rappresentazione di queste figure “di mezzo” (freaks, ermafroditi, transessuali, esseri ibridi della mitologia come la sfinge, angeli, corpi mutilati o malformati), viste come creature intermedie tra l’umano e il divino, manifestazioni della infinita energia vitale dell’universo. Così come espressioni della stessa energia sono tutte quelle pratiche – sadomasochismo, perversioni sessuali, feticismo – rinnegate e considerate sacrileghe dalla cultura del presente.


Il corpo è un luogo di confine tra un interno e un esterno, una membrana che occorre infilzare e penetrare. A tale fine Witkin realizza fotografie che mostrano corpi trafitti e penetrati da oggetti, come per cercare di comunicare con la loro interiorità. Il corpo martirizzato e straziato diventa una condizione di rivelazione mistica. Le ibridazioni tra corpo e oggetto si collocano sullo stesso solco dell’immaginario dadaista e surrealista, che va dall’irrazionale all’onirico. Nello stesso senso Witkin utilizza il montaggio e il collage, pratiche che assemblano insieme pezzi diversi, agendo sempre sul corpo umano, unica materia prima da plasmare, da alterare e trasformare.


L’opera di questo artista è un compendio di estetica di morte e di blasfemia visiva. Le iconografie della tradizione cattolica subiscono un processo di distorsione dei significanti, quasi sempre accostati per contrasto, dando vita ad immagini dov’è possibile la coesistenza di un uomo crocifisso e accessori propri delle pratiche sadomasochistiche, come nel caso dell’opera Penitente (1982), dov’è rappresentato un uomo nudo messo in croce insieme ai suoi peccati (rappresentati dalle scimmie), mascherato e trafitto da piume, per la cui realizzazione Witkin utilizzò il corpo di un individuo morto di AIDS e non identificato, reperito nell’obitorio di Città del Messico.

Glassman, 1995.

La fotografia Glassman (1995) mostra un altro cadavere, quello di un uomo diviso in due da un lunga cicatrice da autopsia sul torace, mentre la testa reclinata di lato e gli occhi rivolti in cielo ricordano l’iconografia cristiana di Cristo sulla croce. L’iconografia religiosa della morte viene sottoposta a un processo di citazione che sposta il significato dell’immagine verso la dissacrazione, o forse semplicemente verso un ampliamento dell’immaginario del sacro.
La sua opera di ‘natura morta’ più controversa resta, probabilmente, The Kiss (1982), che gli assicurò grande visibilità a seguito delle denunce del senatore Helms: Witkin la realizzò unendo in un bacio le due metà di una testa di uomo mozzata e aperta in due in senso longitudinale, conservata in formaldeide presso la Medical School of New Mexico. Qui Eros e Thanatos si incontrano nel modo più raccapricciante e innaturale che sia possibile anche solo immaginare, ma tuttavia sublimandosi nel valore simbolico. A proposito delle nature morte in Witkin, Germano Celant osserva: “Ritraendo le spoglie mortali dell’essere umano in forma di natura morta, l’artista non vuole rinunciare al corpo e alla carne, ma non vuole che esse siano percepite secondo moti convulsi e irragionevoli.

The Kiss, 1982.

Componendole come vasi di fiori o come decorazioni naturali ne sovverte la relazione macabra, aspira a sublimarle, a farle uscire dalla loro condizione vile e de-forme per designare una natura vivente che rimane trasposizione allegorica del memento mori […] ma è pure figurazione tragica, meditazione sulla realtà della vita […] è un’immagine allegorica della vita, della sofferenza e della redenzione”.
Attraverso un’eccessiva provocazione, l’intento della sua opera fotografica è proprio quello di indagare e palesare ciò che la società censura, rigettandolo come irrazionale e mostruoso. La sua esaltazione visiva dell’anomalo e del perverso dà vita a un mondo nuovo, che recupera il poliforme arcaico, integrando quelle figure che il presente scredita e rimuove, e dando vita a una visione dove, al contrario di quella moderna, è possibile la coesistenza degli opposti, dove repulsione e attrazione, bello e brutto, vivo e morto, carnale e spirituale si fondono e si armonizzano insieme. Non c’è nichilismo nelle immagini di Witkin, dove la distruzione porta a una nuova creazione, dove l’ibrido e il caos non dissolvono l’universo, bensì lo espandono di nuova vita, includendo tutte le possibili identità del corpo oltre ogni distinzione. Dove la carne martoriata, “che con la sua gravità e il suo peso inchioda lo spirito a terra”, non ne nega tuttavia “il processo di rigenerazione” (Celant, Id.), perché è attraverso la sofferenza che il corpo attinge l’ascesi e il contatto con la dimensione del divino.

Las Meninas (self-portrait), 1987.

La sua opera, inoltre, mette in scena anche un ritorno ai primordi della fotografia, al fascino immortale e tattile del dagherrotipo, esaltato dal ritaglio degli angoli del negativo, con l’effetto di creare immagini dall’atmosfera onirica, seppure dall’impianto teatrale. Utilizzando particolari tecniche di stampa, dà vita a immagini che richiamano la fotografia delle origini, in particolare quei primi scatti effettuati in ospedali e obitori.















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