mercoledì 16 ottobre 2019

La cattiva sirena



Per tutta la notte il mare aveva continuato a muggire e a scagliare le onde torbide di alghe e di schiuma sulla spiaggia sconfinata. Sebbene l’estate fosse alle porte, il sole stentava a riscaldare l’aria impregnata di salsedine e di quegli odori che il mare aveva liberato dalle sue viscere. Il cielo, grigio e livido, era così basso da confondersi con la cupa distesa liquida. Il forte vento faceva svolazzare le bandierine dei chioschi e degli stabilimenti balneari che si susseguivano ordinati, con le lunghe file di ombrelloni chiusi come tristi soldatini in rivista mattutina. Sulla battigia, qualche medusa spiaggiata si scioglieva in rosea gelatina. Un gabbiano sorvolava la piccola insenatura prospiciente alla “Bussola d’oro”, il primo della lunga fila di stabilimenti in località Torre del Saraceno. Con le ali spiegate e immobili, secondava le correnti ascensionali, trovando la propria rotta grazie a piccoli movimenti della coda.

Buona parte della battigia intorno alla cala era coperta da mucchi di alghe, che il giorno prima i ragazzi dello stabilimento avevano ammonticchiato usando retini e rastrelli. Lì vicino sostava un trattore; sul rimorchio, che aveva la sponda abbassata, un piccolo cumulo di alghe. Arrivando dalla pineta di fronte al mare, il Commissario D’errico notò una piccola folla di persone muoversi come formiche tra le montagnole maleodoranti.
“Sono già tutti qui”, pensò, scartando lentamente una caramella e portandosela alla bocca. Chiuse appena gli occhi quando l’aroma e il gusto forte del rabarbaro furono giunti ai suoi sensi. Appallottolò la piccola carta e se la mise in tasca. Una folata più forte di vento gonfiò le sue narici di quell’odore forte di mare spiaggiato e creò un vortice di sabbia tutto intorno. Quando cessò, il poliziotto strinse i denti e si strofinò energicamente gli occhi e le maniche della giacca. Scacciò dalla mente l’ombra cupa di malumore che tentava di impossessarsi di lui già dalla prima mattina e si avviò verso la piccola insenatura. Appena lo vide, l’ispettore Inguscio, un tipo segaligno con occhi piccoli e perennemente mobili, gli fece segno con un braccio e gli venne incontro.
«Buongiorno Commissario. Il corpo è stato ritrovato da uno dei ragazzi dello stabilimento qua vicino. Lo sta interrogando Silvestri, ma non credo che possa dirci molto. Stamattina stava caricando queste alghe sul trattore per portarle via e con il rastrello ha urtato qualcosa di strano. Quando si è accorto che era un corpo, si è spaventato ed è corso a chiamare il padre, che ha telefonato al 113». Mentre parlava, indicava con il braccio la prima montagnola di alghe, quella vicina al trattore.
«Commissario, il cadavere deve essere stato trasportato qui dalla mareggiata di stanotte. Le onde l’hanno spinto sotto questo cumulo di alghe. Non può essere andata altrimenti. Il proprietario della Bussola d’oro è stato qui fino alle 10.30 di ieri sera e stamattina alle 6.00 il ragazzo era già in spiaggia».
Il Commissario annuì appena; si avvicinò e si chinò sul corpo, ancora coperto da quelle striscioline sottili, viscide e scure, che sulla pelle grigiastra davano l’impressione di grandi vermi piatti. La donna era adagiata su un fianco; aveva le caviglie e i polsi legati con una corda. Dimostrava all’incirca una quarantina d’anni; corporatura minuta, statura non molto alta, capelli neri, folti e ondulati. Indossava una lunga gonna bianca e una camicia anch’essa bianca con numerosi strappi all’attaccatura dei bottoni e delle maniche. Si avvicinò il patologo, il dottor Calamori.
«Come è morta?».
«Un violento colpo alla nuca. E ho anche sufficiente certezza che la morte risalga a meno di ventiquattro ore fa. Di sicuro posso dirti che era già morta quando è stata gettata in mare e anche quando è stata legata. Ti saprò dire meglio dopo l’autopsia». Aveva il volto turbato. «In tanti anni, non ho mai visto nulla di simile», proseguì l’anziano dottore a voce più bassa. «Oltre ad avere mani e piedi legati, ha anche tre chiodi piantati nella fronte, alla stessa distanza uno dall’altro. Tra di essi ci sono incise due piccoli croci. Inoltre le dita delle mani sono tutte fratturate. Certo non posso dirlo ancora con sicurezza, visto il tempo che il corpo è stato in acqua», proseguì a testa bassa mentre si sfilava i guanti, «ma credo che il tutto sia avvenuto dopo il decesso. Non vorrei sbilanciarmi, ma sembrerebbe quasi … una forma di rituale».
Il Commissario continuava a guardare le alghe che il vento animava sul corpo della donna. «Sappiamo niente di lei?», chiese rivolto all’ispettore.
«Il suo nome era Irene De Biasi, ma in paese tutti la conoscevano come la Maga Venusia, una chiromante esperta in fatture, malocchi, pozioni magiche e roba del genere. Sembra che abbia spillato soldi a molta gente in tutta la provincia, anche ricorrendo ai ricatti, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di denunciarla, fino a un mese fa; un certo Colonnello Montefiore ha sporto denuncia contro di lei per plagio e truffa».
«Il Colonnello Alberto Montefiore?», chiese il Commissario, ingoiando quanto restava della caramella al rabarbaro.
L’ispettore prontamente confermò l’informazione, ma lo sguardo del suo superiore sembrava perso in pensieri molto molto lontani.
La villa del colonnello Montefiore era appena visibile dalla strada che costeggiava il lungomare. Si accedeva da un vialetto di alberi di eucalipto maestosi e fieri, le cui fronde odorose si lambivano da un lato all’altro della strada. L’auto di servizio si fermò nello spiazzo antistante la casa. Il Commissario e l’Ispettore Inguscio furono accolti da un uomo tarchiato, dalla pelle olivastra, con in mano un paio di cesoie. Aveva piccoli occhi neri fiammeggianti e una bocca molto larga, da cui s’affacciavano grandi denti giallastri. Era Santiago Docampo, giardiniere e uomo tuttofare del Colonnello. Lui e la moglie si occupavano di lui e della casa da tempo, da quando erano arrivati in Italia dal Messico più di tredici anni prima. I poliziotti furono introdotti dalla signora Docampo nella sala dove il Colonnello leggeva il giornale. Mentre li accompagnava, la donna ondeggiava davanti a loro il suo bacino sformato, che pendeva su gambe corte e tornite, agitando leggermente davanti a sé le mani grassocce. Al Commissario venne in mente una di quelle statuette primitive che rappresentano la Madre Terra, dea della fecondità. La sala era immersa nella penombra. Pesanti tende oscuravano le finestre, lasciando libera un sola vetrata vicino alla parete in fondo alla stanza. Appena li vide, il Colonnello posò il giornale sul grembo e a fronte alta venne verso di loro, manovrando la sedia a rotelle elettrica.
L’uomo aveva i capelli grigi e radi sulla fronte spaziosa, solcata da due grosse rughe che correvano da una tempia all’altra. Gli occhi aquilini erano asciutti e freddi come due gocce d’ambra. In quello sguardo il Commissario riconobbe il suo superiore di un tempo, il Maggiore Montefiore che aveva comandato il suo battaglione durante la missione a Beirut. Il suo ricordo andò alla mattina di quel settembre del 1983. Al suo reparto era stato affidato il compito di proteggere il campo profughi, ma durante un giro di perlustrazione i mezzi italiani erano stati attaccati dal fuoco nemico. La carrozzeria del blindato su cui si trovava alla guida, insieme ad altri due compagni, era già stata raggiunta da una raffica di mitra. Il motore si era spento e, per quanto girasse la chiave, non riusciva più a rimetterlo in moto. La situazione sembrava ormai senza via di uscita. A quel punto un mezzo amico si era affiancato al suo e dall’interno avevano cominciato a sparare in direzione della casa diroccata da cui provenivano le raffiche. Lui e i suoi compagni avevano abbandonato il mezzo in avaria e si erano messi in salvo sull’altro che era sopraggiunto, dietro al quale sedeva il Maggiore, che aveva sparato per coprire la fuga. Solo una volta tornati al campo, dopo i primi attimi concitati, si erano resi conto che il Maggiore Montefiore era rimasto ferito in modo abbastanza grave. Una pallottola lo aveva attinto al fianco sinistro. I medici dell’ospedale dissero che il proiettile aveva danneggiato importanti terminazioni nervose. Andò a trovarlo due volte prima che fosse definitivamente rimpatriato, per essere curato in Italia. L’ultima volta che aveva avuto sue notizie aveva saputo che il Maggiore aveva perso l’uso delle gambe ed era stato insignito di una medaglia al valore e promosso Colonnello. Era a conoscenza che era originario di un paese vicino al suo, ma non credeva che vi avesse fatto ritorno. Guardò quegli occhi d’ambra che sembravano incapaci di qualunque emozione. La voce del suo ex comandante, che sapeva anch’essa di fredda resina impietrita, lo riscosse dai suoi ricordi.
«Cosa desiderano lor signori?»
«Sono il Commissario D’Errico e questo è l’Ispettore Inguscio. Ieri mattina è stato ritrovato il cadavere di Irene De Biasi sulla spiaggia in prossimità di Torre del Saraceno».
«Si, ho letto il giornale. Ma non capisco come mai questa faccenda vi abbia condotto a casa mia».
«Lei un mese fa circa ha sporto denuncia contro la signorina De Biasi per plagio e truffa ai danni di sua figlia Veronica». Dalle notizie raccolte e dagli atti della denuncia sporta dal Colonnello, la polizia era venuta a sapere che la De Biasi aveva completamente plagiato la ragazza, piegandola alla propria volontà e riuscendo in questo modo a carpirle una enorme quantità di denaro. Veronica era l’unica figlia della famiglia Montefiore. La madre era morta quando lei era ancora una bambina ed era stata accudita dalla governante messicana, Dolores Docampo, che si era presa cura di lei negli ultimi tredici anni.
«Numerose persone sono state vittime delle arti … diciamo incantatorie … della signorina De Biasi», rispose sprezzante il Colonnello. «Una donna assolutamente abbietta … Sa come veniva chiamata in paese?». L’uomo piantò i suoi occhi di ambra su quelli del Commissario. «La strega! Tutti la chiamavano la strega. E il cielo sa quanto le si addicesse questo appellativo. Si diceva che le streghe succhiassero la vita delle giovanette. E quella donna ha letteralmente succhiato la vita di mia figlia».
Sotto il gelo di quello sguardo, per una frazione di secondo il Commissario si sentì vacillare. «Vogliamo parlare con sua figlia, se lei permette».
Il Colonnello richiamò le sopracciglia cispose e aggrottò la fronte. Le due rughe sembravano solchi profondi incisi sulla roccia. Fissò un punto della parete e disse gelido: «Mia figlia non è qui».
Quel giorno il Commissario non se la sentì di andare oltre. Tornato al Commissariato chiese subito del Sovrintendente Silvestri. Lo trovò dietro il computer della sua scrivania.
«Allora, cosa hai trovato in rete?»
«Commissario, la pista del satanismo non mi ha dato risultati plausibili. Quelli sul corpo della De Biasi non sembrano simboli riconducibili a forme di culti satanici. Invece ho scoperto che rituali di questo tipo si ritrovano nel folklore popolare di molti paesi. Si tratta di pratiche che servono a impedire il ritorno in vita di un essere malvagio defunto, come una strega o un …. vampiro». Il Sovrintendente deglutì e guardò con aria accigliata il Commissario. «Gli elementi sono più o meno gli stessi: arti legati o mutilati, crani asportati o trafitti da chiodi, incisioni di croci o di altri simboli sacri, dita delle mani fratturate, parti del corpo cremate».
«Bene, annota tutto quello che riesci a trovare». Mentre si avviava si voltò. «Un’altra domanda: queste credenze le troviamo anche in America latina, per esempio … in Messico»?
«Si Commissario, guardi qui». Il Sovrintendente scorse con il mouse una pagina web e lesse: «La mitologia vampirica messicana ha generato vari tipi di spiriti del male, tra cui terribili demoni femminili temuti dalle antiche popolazioni azteche: demoni terrestri, che insidiano i viandanti e le donne nel sonno, e spiriti marini, sirene malvagie in grado di affascinare chiunque con lo sguardo e portarlo alla consunzione e alla morte».
Quella notte il Commissario dormì un sonno agitato e confuso. La mattina successiva si recò da solo alla villa del Colonnello. In giardino, Santiago con una vanga dissodava la terra intorno a grandi piante di ortensia. Dolores, con il suo passo ondeggiante, lo introdusse nella sala del giorno prima. Il Colonnello lo fece accomodare in una poltrona di fronte a sé. Quando la donna fu uscita, il Commissario si accorse che dall’impianto stereo dietro il Colonnello uscivano le note dell’Adagio del Concerto in La maggiore K 622 di Mozart. Stette per qualche secondo in silenzio ad osservare l’uomo che gli stava di fronte e che con gli occhi chiusi assaporava le note dolcissime di un discorso amoroso che il clarinetto intratteneva con l’orchestra. Posò lo sguardo su quelle gambe senza vita, sulle macchie scure che gli coprivano le braccia, sul tremito leggero delle mani. Oscurata dalla palpebre chiuse la fredda luce d’ambra delle pupille, il Colonnello appariva un vecchio debole e stanco.
«Colonnello, c’ero anch’io quel giorno a Beirut, ventisette anni fa. Si ricorda la mattina del cinque settembre 1983? … Lei mi salvò la vita».
Il Colonnello sembrava non aver udito. Continuava ad ascoltare quelle note tenendo gli occhi chiusi. Quando l’Adagio terminò, guardò il Commissario e gli chiese di seguirlo. Ai piedi di una scala, agganciò la sua sedia a rotelle a un montascale elettrico. Il poliziotto saliva in silenzio dietro di lui. Al primo piano c’era un piccolo corridoio su cui si affacciavano tre porte. Da una di esse stava uscendo Dolores. La donna si appoggiò alla porta chiusa e guardò il Colonnello. «Adesso lei è tranquilla», disse a bassa voce. Con gentilezza, l’uomo le chiese di lasciarli entrare. La stanza era in penombra. Quando gli occhi si furono abituati alla poca luce, il Commissario vide una ragazza distesa su un lettino. Sbarrava contro il soffitto gli occhi rossi e pesantemente cerchiati; aveva piccole croste rossastre sulla bocca e sulle narici; il corpo era magro e scarno, braccia e gambe completamente abbandonate, a parte le dita delle mani ossute, che artigliavano piano le maglie della coperta. Non altro gesto, non un moto degli occhi; sembrava che la vita fosse fluita via lasciando il posto a un’indifferenza assoluta. Quando i due uomini si ritrovarono di nuovo nella sala che dava sul giardino, nella stessa posizione di prima, fu il Colonnello a rompere il silenzio che si era creato tra di loro.
«Mia figlia era bella, Commissario. Era innocente. Aveva tanti amici ed era entusiasta della vita. Studiava danza da quando aveva sei anni e voleva fare la ballerina. Ma era anche molto fragile e ingenua. Non ci ha messo molto quella donna a piegare completamente la sua volontà. In breve tempo è diventata la sua unica confidente e l’ha portata via da qui, riuscendo a persuaderla che tutti gli altri tramavano alle sue spalle con fatture e altre diavolerie. In cambio di pozioni e filtri, le ha divorato quasi tutta l’eredità lasciatale dalla madre e l’ha ridotta allo stato … di una larva, iniziandola alla cocaina e a giochi osceni, in breve portandola alla follia». Ci fu una pausa. «Un mese fa ha tentato il suicidio, ingerendo mezzo flacone di sonniferi. Fortunatamente Dolores se ne accorse in tempo... Dolores andava a trovarla tutti i giorni nel suo appartamento, anche se spesso mia figlia non la lasciava nemmeno entrare».
«Ho diversi testimoni che asseriscono di aver visto in più di un’occasione la sua governante minacciare apertamente la De Biasi. Minacce pesanti, di morte».
«Dolores ama mia figlia. Lei non ha avuto figli; non può averne. È legata a Veronica da un sentimento forte e profondo. Ma non sarebbe mai capace di ammazzare qualcuno».
«Lei forse no, ma suo marito si. In Messico pende ancora su di lui un’accusa di omicidio. Lo sa lei questo?»
«Si, lo so. Santiago me lo disse subito, appena arrivato. Cosa farebbe lei se scoprisse qualcuno che sta abusando brutalmente di una ragazzina … una bambina quasi …, fino a deturparle il corpo per sempre?»
Il commissario tacque. Conosceva la vicenda. Poi continuò: «Ho anche altri testimoni che asseriscono di aver visto la De Biasi l’altro pomeriggio mentre percorreva in macchina il vialetto che porta a questa villa. Io credo che la squadra scientifica non ci metterebbe molto a trovare le tracce di ciò che realmente è avvenuto qui. L’autopsia ha rivelato che la De Biasi è morta per un colpo infertole alla nuca con un corpo contundente, compatibile con la forma di una vanga ... proprio come quella che sta usando il suo giardiniere». Il suo volto affilato e severo tradiva un grande turbamento. Gli pesava enormemente pronunciare quelle parole; si sentiva sleale di fronte al suo Maggiore di un tempo, colui che per salvargli la vita non aveva esitato a mettere a repentaglio la sua. «Capisco che lei voglia coprire i coniugi Docampo, ma mi creda, la verità salterà fuori prima o poi».
«La verità, Commissario? E qual è la verità?». I solchi attorno agli angoli della bocca e degli occhi scolpivano il volto in una maschera di antica tragedia. Si volse a guardare oltre il vetro della finestra. «Chi può dire ciò che è vero e ciò che è falso, come chi può dire ciò che è giusto e ciò che è ingiusto?». Esitò. «La verità, Commissario, è solo quella di un padre che non vuole perdere la propria figlia, la propria unica figlia». Si volse verso il poliziotto. L’ambra dei suoi occhi mandò un affilato bagliore. «Qual è il prezzo più alto da pagare per questo?». Il suo sguardo tornò a perdersi ancora oltre i vetri. «Da una settimana io ero riuscito a riprendermela, a farla tornare qui con me. Mi aveva detto che rivoleva la sua vita, sembrava davvero risoluta a tornare quella di un tempo. Io, Dolores e Santiago abbiamo convenuto di impegnarci al massimo delle nostre forze per aiutarla a venirne fuori e a tenere lontana quella donna dalla sua vita. Ma l’altra sera … quella strega venne qui, per riportarsela indietro. “Veronica mi appartiene” diceva. Capisce? Parlava di mia figlia come di un oggetto, di un suo giocattolo. La verità è che lei non aveva rispetto per nessun essere umano. Ciò che davvero contava per quella donna erano i soldi e sottomettere gli altri, tenerli in pugno … come fanno gli spiriti maligni di Dolores». Il Commissario notò un’increspatura breve e amara sulla bocca del Colonnello.
Il rombo cupo e lontano di un tuono fece eco a quelle parole. Il poliziotto s’accorse che d’un tratto la luce si era abbassata e nella sala era calata la penombra.
«Nella casa della De Biasi abbiamo trovato prove certe che anche lei era a conoscenza della vicenda di Santiago. È probabile che ricattasse i coniugi Docampo». Fece una pausa. «Le dirò come è andata, Colonnello. È solo un’ipotesi, ma credo che l’indagine mi darà ragione. Quando l’altro pomeriggio la De Biasi è venuta qui, ha avuto una lite violenta con Santiago, probabilmente in giardino, dove l’uomo faceva dei lavori. Santiago, esasperato, ha perso il controllo e l’ha colpita con la vanga, o un arnese simile. Poi lui e Dolores hanno praticato un rito per renderla inoffensiva anche dopo la morte. Probabilmente la consideravano un demone, una specie di sirena malvagia in grado di togliere la vita con le sue arti magiche. Così l’hanno restituita al suo ambiente naturale, il mare. Deve essere andata in questo modo più o meno. Si tratta solo di rinvenire le prove».
Ogni tanto lampi di luce bianca saettavano attraverso i vetri e illuminavano gli angoli più lontani; ma era solo questione di un attimo e tutto ritornava inesorabilmente nella penombra, nelle misteriose profondità della sala. Questo continuo oscillare di luce e ombra dava quasi l'impressione che gli oggetti presenti nella stanza fossero animati, anzi che tutta la sala si muovesse, in una perpetua e sommessa agitazione. Ad ogni lampo, le ampie corna di una testa di cervo, appesa sul camino, proiettavano per un istante la loro ombra inquietante, come di mani aperte, dalle dita smisuratamente lunghe e ossute.
«La prego Commissario, lasci fuori da questa storia Santiago e Dolores. Loro … loro hanno solo portato via il corpo. Sono stato io. Io ho ucciso Irene De Biasi. Santiago era corso di sopra per avvisare Dolores di non far uscire mia figlia dalla sua stanza. Quando quella donna si era mossa per seguirlo, io ho afferrato la vanga lasciata qui da Santiago e l’ho colpita alle spalle con tutta la forza che ancora mi resta. Sono io il colpevole e nessun altro. Glielo avrei confessato già ieri se ...». Tacque a lungo. «Non ho paura delle conseguenze per me. Il mio futuro non mi spaventa. Anzi il mio futuro non rientra più tra i miei pensieri da molto tempo ormai. Ma mia figlia…». Il Commissario trasalì. L’ambra degli occhi del Colonnello luccicava liquida. Il poliziotto abbassò lo sguardo. Gli era insopportabile la vista di un uomo che piange.
«Siamo entrambi uomini dello Stato, votati al rispetto assoluto delle regole. Niente e nessuno al di fuori del nostro dovere di uomini di legge ... Fino a qualche anno fa non avrei esitato a offrirle i polsi, Commissario. Ma oggi mi trovo costretto a metterle davanti un’altra legge. Quella di un padre che teme per la propria figlia. Cosa ne sarebbe di lei senza di me?». Il tono della voce non aveva avuto cedimenti, ma la profondità e la piega dei solchi sulla fronte facevano intuire tutta l’angoscia e la fatica di quelle parole. Seguì un lungo silenzio, che il rombo dei tuoni lontani rendeva più denso e avvolgente.
Il Commissario fermò la macchina in una piazzola e si incamminò sulla spiaggia. Nel frattempo si era alzato il vento, che ululava nella pineta alle sue spalle. Nel cielo sembrava infuriare una guerra tra le luci provenienti dal mare e le nubi di piombo fuso dell'interno. Davanti a quella vista, il Commissario si arrestò in preda a un'improvvisa stanchezza, si sedette su una pietra e stette immobile. Il mare appariva prepotentemente vivo. Lo turbava il pensiero delle profonde correnti marine, della vita che pullulava negli abissi, che si agitava in un silenzio liquido. Ora la grande voce del mare risuonava sempre più forte, il gemito tramutandosi in rabbioso ruggito. Le onde si scagliavano sulla battigia come sovrumani singhiozzi, tendendo il petto ansimante sotto l'accavallarsi della schiuma. I gabbiani volteggiavano inquieti. In lontananza, nel porticciolo, una fila di piccole barche sobbalzavano e stridevano, tirando gli ormeggi con caparbia disperazione. Frattanto la stanchezza si era trasformata in torpore; l’uomo aveva la sensazione di essere nient’altro che un corpo pesante, rigido, posato su sabbia morbida e traballante. Distolse lo sguardo da quell’esplosione selvaggia di vita e fissò le sue mani a lungo. Cosa aveva più valore? Una carriera cristallina e rigorosa, sempre al servizio della legge, o un gesto di pietà, quella pietà che è spesso inosservanza delle regole e atto di insubordinazione, ma che rivendica da sempre la sua grandezza agli esseri umani e alla storia? Quale decisione gli avrebbe conservato il rispetto di se stesso?
Si rialzò. Sentiva le membra legate e le gambe intorpidite. Il vento gli urlava rabbiosamente nelle orecchie e gli spruzzi gli lambivano le suole delle scarpe. Restò immobile per qualche minuto, aspettando di riacquistare la sensibilità degli arti. Quando il sangue tornò a fluire liberamente nelle vene, si incamminò. Grosse gocce di pioggia solcavano la sabbia con tracce tonde e regolari. Tutti gli odori era acuiti dal temporale che si approssimava. Il Commissario infilò le mani nelle tasche dei pantaloni. Quando uscì dalla pineta, aveva preso la sua decisione.
Tornò alla villa del Colonnello. Dal vialetto scorse Santiago correre verso l’ingresso della casa. Quando scese dalla macchina sentì l’urlo disperato e continuo di una donna provenire dal primo piano. Si precipitò su per le scale. Le grida venivano dalla camera di Veronica. Nella stanza la ragazza giaceva per terra, mentre Dolores cercava con le mani di lacerare un sacchetto di plastica annodato intorno alla sua testa. Il Commissario si fermò un istante, bloccato dall’orrore. Poi si slanciò ad aiutare la donna a strappare dal viso della ragazza quella guaina che avvolgeva tutto il capo, penetrando dentro la bocca e le narici. Chiamò in fretta il 118 col suo cellulare. Faceva molta fatica a conservare il sangue freddo. Quando si chinò a tastare con le dita il collo lungo e magro di Veronica, costatandone la morte, la vista gli si annebbiò per un istante. Rimase muto a fissarla, inerte nel suo stupore, avvilito dalla tristezza che gli aveva appesantito le membra. Udì il fruscio di un motorino elettrico alle sue spalle. Si girò. Lo sguardo del Colonnello era vitreo, come se avesse perso da tempo l’abitudine di posarsi su qualcosa con attenzione.
Il Commissario scosse la testa mestamente. Un fulmine prodigioso fece risplendere la stanza. Uno schianto terrificante, proveniente dal giardino, coprì lo scoppio del tuono.
«Ora sono pronto a seguirla», disse il Colonnello, scandendo le parole, che sembravano provenire da una profondità oscura e inaccessibile. Il poliziotto abbassò lo sguardo, le braccia gli ricaddero inerti sui fianchi e volse l’orecchio al temporale, in attesa del tuono successivo.
Passata la tempesta, il Commissario uscì fuori all’aperto. Il giardino si presentava avvizzito e intriso di pioggia. Un fulmine aveva tranciato in due un giovane tiglio: una metà era ancora eretta, mentre l'altra si era schiantata su un’aiuola di petunie. Si soffermò ad osservare il cuore chiaro del tronco, le sue fibre verticali, in parte sfilacciate. Meccanicamente infilò la mano nella tasca della giacca e ne trasse una caramella al rabarbaro. Cominciò a scartarla ma, all’atto di portarsela alla bocca, fu preso a tradimento da un improvviso senso di nausea. Gettò la caramella sul vialetto di ghiaia e si sedette al volante dell’auto, in attesa dell’arrivo della pattuglia dal commissariato.

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