domenica 30 dicembre 2018

Davanti a una mia vecchia fotografia



Sei un tu
fuori di me
prigioniera di uno specchio
di carta
a mille anni luce.
Mi viene incontro
il tuo sguardo ombroso
come un acerbo presagio.
Quanta neve si è sciolta
da allora e le betulle
mostrano il ponente
curvate dal grecale.
Mi guardi dalla cornice ingiallita
e non sai
e non puoi sapere
mentre spingi il tuo giocattolo
così seria
così assorta
nel tuo fingerti donna
e madre in miniatura.
Non conosci l'abisso
negli occhi di tuo figlio.
Chi sei bambina?
in che mondo vivi?
Da quale distanza
mi aspetti?
Chi ti salverà
dall'intrico verde che ti insidia?
La mia mano trema un poco
ti afferra
e quasi non vorrebbe.
Il tempo in mezzo
brucia come un fuoco.
Eppure traspare di luce
la carta sbiadita.
Gioia e scempio
è questa corrispondenza di ombre.
Nella distanza che separa
abita la sola
possibile
bellezza.

giovedì 27 dicembre 2018

Lo sguardo dello spettatore. Alcune considerazioni finali

John Vink, La morte di Marat Museo Reale delle Belle Arti di Bruxelles, 1974.

Chiudiamo finalmente questo lungo percorso sullo sguardo dello spettatore, cercando di tirare brevemente alcuni fili.

Fruire un contenuto visivo (un quadro, una fotografia, un film) è essenzialmente un insieme di pratiche: percettive, cognitive, operative e relazionali.

- Ogni fruizione di un’immagine, immobile o in movimento, ha come punto di partenza l’estesìa, cioè una sensazione, che è già di per sé un’astrazione e non una fedele registrazione del mondo reale, a causa delle caratteristiche biologiche dei nostri organi di senso e della complessa elaborazione che il cervello fa dei segnali che gli pervengono. La percezione è una selezione attiva e un’organizzazione delle sensazioni. Il cervello compie una scelta fra tutti gli input disponibili e, confrontando l’informazione selezionata con i ricordi immagazzinati nella memoria, genera una rappresentazione mentale, che è soggettiva.

domenica 23 dicembre 2018

Glance. Lo sguardo mobile



Ogni rappresentazione necessita di un dispositivo che la ingloba e ne permette l’esposizione e la ricezione, predisponendo l’esperienza estetica del fruitore. Un dipinto necessita di una cornice, di una parete o comunque di un contesto espositivo.
L’insieme di queste componenti ‘peritestuali’ viene definito parergon (in semiotica oggi viene usato anche il termine “bordure”) e comprende degli elementi molteplici come il titolo, la firma, la cornice, lo spazio museale che circonda e ricontestualizza le opere, l’archivio che le documenta e le colloca dal punto di vista storico, il discorso teorico-critico che ne definisce la lettura. Il contesto parergonale caratterizza anche altre forme espressive, come la fotografia, il teatro, la musica, il cinema. Esso permette di presentare e di rendere percepibile ed esperibile l’opera, anche se le modalità con cui espleta questo lavoro variano strutturalmente da un linguaggio all’altro.

martedì 18 dicembre 2018

Fruizione di un’opera d’arte come gioco di far finta

Georges Seurat, Un dimanche après-midi à l'Île de la Grande Jatte, 1883-85, Art Institute of Chicago, Chicago.

Cosa hanno in comune lo spettatore di un’opera d’arte e un bambino che gioca con una bambola o un camion dei pompieri? Secondo Kendall L. Walton, autore di “Mimesis as Make-Believe” (Mimesi come far finta, 1990) hanno molto in comune, in quanto entrambi sono impegnati in un gioco di ‘far finta’. Per questo autore, fruire un'opera d'arte equivale a partecipare a un gioco, a utilizzare l'immaginazione per dar vita a un mondo finzionale.

Lo scopo che si prefigge Walton è quello di capire cosa siano le opere rappresentazionali (i dipinti come i romanzi, i film come le opere teatrali), e di fornirne una teoria generale. Egli è convinto di poterle indagare in maniera unitaria, perché tutte le rappresentazioni sono mimesi, cioè finzioni. La sua teoria di mimesi, si badi bene, è molto diversa da quelle precedenti, in cui ‘mimesi’ equivaleva a ‘imitazione, somiglianza’, e in cui veniva coinvolta soprattutto la questione ontologica e semantica dell’opera d’arte. Walton, invece, pone la sua teoria su una base essenzialmente pragmatica: il ‘far finta’ è un’attività immaginativa che riguarda il soggetto coinvolto nella finzione; e non riguarda solo l’esperienza estetica, ma costituisce un aspetto saliente dell’attività umana nel suo complesso.

venerdì 14 dicembre 2018

Fotografia e didascalia

Thomas Ruff, dalla serie "Porträts".

Cominciamo questo post con un’affermazione talmente ovvia da sembrare banale e che, purtuttavia, è alla base di dibattiti e discussioni, soprattutto tra i fotoamatori e i cultori di fotografia: la didascalia di un’immagine fotografica non costituisce un semplice elemento accessorio, ma rappresenta una componente essenziale, determinante nell’orientare la fruizione dell’osservatore.
Le funzioni principali di questo tipo di testo consistono nel dare informazioni riguardo l’immagine e guidare l’occhio del fruitore nell’osservazione della foto e nella comprensione del suo significato. Jean Keim, nel suo saggio La fotografia e la sua didascalia (1963) accoglie la teoria di Barthes secondo cui la fotografia è un messaggio senza codice. La comunicazione che essa trasmette, pertanto, rimane ambigua, imprecisata: “la fotografia rischia sempre di essere fraintesa quando non abbia l’ausilio indispensabile della parola”. L’unità di immagine fotografica e testo garantisce la comprensione del significato a un livello più profondo di quello che si avrebbe dall’osservazione di una fotografia priva di testo, in quanto quest’ultimo è il solo in grado di precisarne il significato, contestualizzando l’immagine nel tempo, nello spazio e nell’azione cui appartiene.

lunedì 10 dicembre 2018

The Artist is Present. La metamorfosi dell’aura



Una delle performance più recenti di Marina Abramović dà modo di riprendere il concetto di aura, che dopo Benjamin sembrava definitivamente uscito di scena e che invece l’esperienza della performance sembra far rientrare dalla finestra.
Nel 2010, dal 14 marzo al 31 maggio, Marina Abramović è stata protagonista di un lavoro davvero singolare, dal titolo The Artist is Present. Tutti i giorni di apertura, in uno spazio al primo piano del MOMA di New York (in cui tra l'altro era allestita una retrospettiva sull'artista), è rimasta seduta immobile e in silenzio, guardando fisso negli occhi tutti coloro che hanno raccolto l'invito (o la sfida) di sedersi di fronte a lei e di ricambiare quello sguardo per il tempo voluto. Ogni giorno, per sette ore di fila, senza mai alzarsi, né per mangiare né per assolvere altri bisogni. Nel corso delle 700 ore di performance, la sedia di fronte non è rimasta quasi mai vuota e in totale si sono avvicendate quasi 1400 persone, compresi personaggi celebri, alcune solo per pochi minuti, altre per delle ore.

domenica 9 dicembre 2018

"Rythm 0". Il corpo come opera d’arte



Se l’opera d’arte tradizionale era, ad ogni momento, interamente presente allo sguardo dello spettatore, l’arte performativa impone invece alla fruizione dell’opera un percorso diluito nel tempo e soprattutto aperto. Una relazione che l’artista predispone ma che deve essere progressivamente sviluppata da uno spettatore coinvolto attivamente. Il mondo della performance, degli happening, della body art e della video art esplora in tutte le direzioni la relazione dinamica tra l’opera e lo spettatore, proponendo forme diverse di interattività che in molti casi coinvolgono direttamente il corpo dell’artista.
Una performer ancora molto attiva è Marina Abramović, esponente di quella pratica definita Body Art, in quanto ha sempre fondato la propria arte sul proprio corpo e sul rapporto diretto tra questo e il pubblico, spesso mettendo entrambi a dura prova. Le azioni che L'Abramović presenta al proprio pubblico sono costruite sui limiti della resistenza fisica, psicologica ed emotiva; il corpo dell'artista viene sottoposto al dolore, allo sfinimento e al pericolo.

sabato 8 dicembre 2018

L'opera d'arte come evento



Le avanguardie del primo Novecento portano a compimento la rottura con la tradizione e ridefiniscono radicalmente il concetto di opera d’arte, di artista e di spettatore. I movimenti che si affermano in Europa a partire dai primi anni del Ventesimo secolo pongono le basi teoriche e definiscono alcuni tratti propri delle forme d’arte che si svilupperanno negli anni successivi: la liberazione dalle costrizioni della rappresentazione e della narrazione, la messa in discussione del confine tra arte e vita, il gusto per la provocazione e la trasgressione, l’ibridazione dei generi, il rifiuto della mercificazione dell’arte, il coinvolgimento attivo dello spettatore sia nella fruizione che nella realizzazione stessa dell’opera.
Tra i primi a sostenere la necessità di una viva partecipazione del pubblico all’azione vi sono i futuristi e i dadaisti, che ricorrono ad azioni performative, come campo di attuazione delle nuove idee sull’arte.

mercoledì 5 dicembre 2018

Così lontano così vicino. Guardare l’immagine alle "giuste" distanze

Vincent van Gogh, Notte stellata, particolare, 1889, Museum of Modern Art, New York.

A che distanza occorre guardare un quadro per averne una fruizione adeguata? Si potrebbe rispondere che tutto dipende dalle dimensioni e dalla sua collocazione e che, inoltre, ogni opera richiede al suo fruitore una distanza appropriata. Se prendiamo, ad esempio, un dipinto impressionista o una tela di Van Gogh, ci accorgiamo subito che, se esaminate troppo da vicino, ciò che queste immagini ci restituiscono sono solo pennellate e macchie di colore. Per percepire in modo adeguato il soggetto e l’insieme della rappresentazione occorre porsi a una certa distanza.
Questo è l’assunto che viene generalmente accettato dalla critica tradizionale in riferimento a tutta la tradizione pittorica occidentale a partire dal Rinascimento. Il mio intento (anche con riferimento alla tesi di Arasse contenuta nel suo testo Il dettaglio. La pittura vista da vicino) è quello di affermare che una visione che voglia fruire l’immagine in tutte le sue dimensioni deve essere una visione oscillante, che non cerca solo la giusta distanza e il punto di vista che implicitamente il quadro assegna all’osservatore, ma che è disposta ad assumere una modalità molteplice e mobile, avanti e indietro dalla superficie, alternando la visione d’insieme al rischio di annaspare tra la materia e i piccoli dettagli.

domenica 2 dicembre 2018

La cornice: confine o soglia?

Pere Borrell del Caso, Sfuggendo alla critica, 1874 – Collezione Banco de España, Madrid.

Quali sono i dispositivi che orientano lo sguardo dello spettatore verso l’oggetto della visione? Come avviene la focalizzazione verso un quadro pittorico o qualunque altra forma di rappresentazione?
Senza dubbio uno dei elementi che svolgono questa funzione è la cornice. In rete è disponibile un bel saggio di Antonio Somaini, dal titolo “La cornice e il problema dei margini della rappresentazione”  (http://www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico/leparole/duemila/ascorn.htm) che affronta questo tema. Questo post prende spunto da questo testo, estrapolandone alcune considerazioni.
Quali sono le funzioni che storicamente ha assunto la cornice?