sabato 31 ottobre 2020

L'immagine come rappresentazione. Mimesi ed eccedenza del simbolo

Remedios Varo, La Despedida, 1958.

La domanda primaria, che spesso lasciamo sullo sfondo, è: che cos’è un’immagine? L’interrogativo è tanto semplice quanto difficile è trarne delle risposte. Prima di avventurarci brevemente su questa strada, viene avanti una considerazione:  le immagini sono nate con l’uomo. Il suo modo di rapportarsi con il mondo e di concepirlo passa inevitabilmente attraverso la costruzione di immagini, siano esse materiali o mentali. Le immagini sono al centro delle sue facoltà percettive ed espressive. Il ricordo, la memoria, il pensiero, l’immaginazione, l’espressione e la comunicazione fanno uso di immagini, eppure risulta difficile trovare una definizione che ne fissi il concetto in modo stabile. I tentativi nel corso della storia sono stati e continuano ad essere numerosi. Provando a districarsi nella miriade di teorie proposte inevitabilmente si ha l’impressione di essere su un terreno insidioso o di perdersi all’interno di labirinti in cui l’oggetto che si rincorre resta fuggevole e inarginabile.
Jean-Jacques Wunenburger così apre la sua Filosofia delle immagini (1999): “Possiamo chiamare convenzionalmente immagine una rappresentazione concreta, sensibile (a titolo di riproduzione o copia) di un oggetto (modello referente), materiale (una sedia) o concettuale (un numero astratto), presente o assente dal punto di vista percettivo, e che intrattiene un tale legame col suo referente da poterlo rappresentare a tutti gli effetti e consentirne così il riconoscimento e l’identificazione tramite il pensiero.”

martedì 27 ottobre 2020

Novembre



Novembre si avvicina
col suo ciglio ombroso
e il passo umido e incerto.
Non si sciolse del tutto
la brina dell'inverno passato.
Sarà terreno fecondo
per una coltura all'aperto
di biglie dal manto laccato
sullo sfondo carnoso del mare.

lunedì 26 ottobre 2020

Pillole di teoria dell'immagine. Pictorial Turn

Scuola Italiana del XVII secolo, Allegoria della Pittura


Pictorial TurnIconic Turn, Bildwissenschaft, Visual Culture Studies, sono termini che vediamo e leggiamo spesso. Ma, cosa sono?

Intorno alla natura dell'immagine e della visione dibattono da sempre numerose discipline.
La filosofia, fin dalle sue origini, e negli ultimi decenni con vari approcci (da quello trascendentale a quello fenomenologico a quello ermeneutico). Ma, soprattutto nel secolo scorso, tanti sono gli ambiti del sapere che hanno cominciato a riflettere sullo statuto di questi oggetti problematici: la semiotica, la psicologia e le neuroscienze, le scienze cognitive. Anche perché, nel frattempo, e soprattutto dagli anni Novanta, la quantità di immagini aveva cominciato ad incrementarsi a livello esponenziale, grazie alla diffusione di nuove tecnologie e di nuovi strumenti di produzione, di riproduzione e di diffusione di oggetti visuali, i quali sono andati acquisendo una centralità storicamente inedita.
Ed è proprio negli anni Novanta che avviene quella che è conosciuta come svolta iconica (ikonische Wendung, in area tedesca e pictorial turn, in area anglo-americana). Questa espressione fa riferimento a un modo diverso di intendere le rappresentazioni visuali, che in un certo senso ribalta il linguistic turn, cioè la tendenza, da parte delle teorie afferenti o derivanti dal poststrutturalismo, a considerare ogni produzione segnica come un testo, e cioè riconducibile a un discorso (Logos). 
Il pictorial turn ribadisce piuttosto la peculiarità degli studi visuali e richiede un cambiamento epistemologico che pone lo studio delle immagini sullo stesso piano di quello del linguaggio. Si parla di svolta iconica per sottolineare, in particolar modo, il grande effetto che oggi le immagini determinano sulla stessa antropologia dell'Homo sapiens, una constatazione che impone l'impianto di studi appropriati del visuale, di una 'scienza delle immagini' non riducibile alle discipline che si occupano delle analisi linguistiche e testuali.

venerdì 23 ottobre 2020

Diario delle distanze

Vilhelm Hammershøi, Interior from the Home of the Artist


E così ritornò la paura
di respirare il nemico 
che non si vede.
Di guardarci misurando le distanze
del pericolo e della cura,
dell'aria che non cede.
Gli occhi reclamano il primato
in questi tempi in cui vietato
è il tocco 
e ogni abbreviatura.

sabato 17 ottobre 2020

Contributo per orientarsi nello studio della fotografia

Elina Brotherus, Artist and Model Reflected in a Mirror 1, 2007

È difficile orientarsi nell'ambito degli studi sulla fotografia. Proverò ora un'ardita semplificazione, con funzione di fornire una schema di orientamento tra le varie e innumerevoli teorie.

La pratica fotografica coinvolge sostanzialmente tre elementi: l'autore (lo chiamiamo Soggetto), la macchina (cioè il dispositivo fotografico) e ciò che viene fotografato (lo chiamiamo Oggetto).

A questi tre elementi ne aggiungiamo un quarto, il Ricevente, cioè il fruitore della fotografia.

Ora, dal punto di vista delle trattazioni teoriche, le posizioni sono sempre molto complesse e variamente articolate. Tentando tuttavia la semplificazione annunciata, possiamo suddividerle in quattro gruppi:

- teorie che privilegiano il ruolo del Soggetto.

- teorie che privilegiano il ruolo dell'Oggetto.

- teorie che privilegiano il ruolo del Dispositivo Fotografico.

- teorie che privilegiano il ruolo del Ricevente.

sabato 3 ottobre 2020

Elina Brotherus. Autoritratti nel paesaggio

Elina Brotherus, Annonciation 30, Last one in my line, 2012


V. IL CORPO POST-UMANO

VI. AUTORIFLESSIONE
- Elina Brotherus. Autoritratti nel paesaggio
- Francesca Catastini
- Petra Collins e il selfie

L’indagine fotografica di Elina Brotherus, artista di origini finlandesi, si muove tra due poli: autoritratti altamente autobiografici da una parte e studi storico-artistici dall'altra. E di questa continua oscillazione tra arte e vita è testimone il fatto che utilizzi quasi sempre se stessa come modella. In alcune serie (Suites Françaises, 12 ans après, Annonciation, Carpe Fucking Diem), consistenti in autoritratti, fotografie di paesaggi e di interni con lei protagonista, esegue delle esplorazioni autobiografiche, attraverso motivi legati alla sua vita personale: un matrimonio fallito, un divorzio e il senso di abbandono, l'integrazione in un paese straniero, il suo desiderio insoddisfatto di maternità (Annonciation). Mette in scena eventi che ha vissuto, rendendo le fotografie estremamente personali, rivelatrici e coraggiose. Ma c'è anche il desiderio di parlare della condizione umana e di fornire agli spettatori uno schermo vuoto, una superficie su cui proiettare i propri sentimenti e desideri. 

venerdì 2 ottobre 2020

Autoritratti allo specchio o in ombra. Vivian Maier


CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

IV. IL CORPO POST-UMANO


Vivian Maier scattò molti autoritratti, ma lei non li condivise mai con nessuno. La sua ricerca personale, per le strade d’America e del mondo, fu del tutto solitaria. Non stampò la maggior parte dei suoi rullini, ritrovati in modo fortuito da un agente immobiliare e collezionista di Chicago, John Maloof, poco prima che lei morisse in solitudine, sconosciuta al mondo (nel 2009).

Per scattare i suoi autoritratti si serviva spesso di superfici riflettenti: specchi presenti per strada, nei bagni pubblici, nelle vetture di un tram; specchi fortuiti, posti tra le cianfrusaglie ammassate sul carretto di un rigattiere; e poi vetrine, finestre, perfino cerchioni di ruote cromate: insomma tutte le superfici, che le capitassero a tiro, in grado di restituirle la sua immagine riflessa.

Autoritratto di donna velata. Shirin Neshat

Shirin Neshat, “Rebellious Silence”, from the series The Women of Allah (1994). © Shirin Neshat.

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

Shirin Neshat è una videoartista, regista e fotografa di origine iraniana, le cui opere esplorano il ruolo delle donne nelle società islamiche contemporanee, soprattutto in Iran. Ancora giovanissima, lascia l’Iran e nel 1974 si trasferisce in California per studiare arte. Nel 1989, un viaggio in Iran, dove non era più tornata dalla sua partenza, le provoca un grande shock. All'improvviso scopre l'immenso divario tra i suoi ricordi e la realtà iraniana contemporanea, in cui la rivoluzione islamica di Khomeyni aveva cambiato radicalmente la condizione femminile. Dopo un secolo di leggi e cultura improntate a un certo laicismo (nel 1935, Rezã Chãh Pahlavi, desiderando svolgere una grande azione di modernizzazione e occidentalizzazione del Paese, aveva proibito alle iraniane di indossare il chador), l’avvento della rivoluzione teocratica aveva costretto nuovamente le donne a indossare il velo in pubblico.