sabato 12 gennaio 2019

La figura umana idealizzata nell’arte dell'antico Egitto



La caratteristica principale della rappresentazione della figura umana da parte degli antichi egizi è la frontalità. Che siano statue o rilievi o pitture, i personaggi sono rappresentati per essere fruiti solo attraverso una visione frontale.
Un complesso di regole convenzionali (canoni), che saranno valide per millenni, regolano la rappresentazione. Per quanto riguarda la figura umana, viene seguito un canone per la pittura e il rilievo e un canone per la statuaria. In pittura e nei rilievi, la figura è costruita in modo bidimensionale e secondo una stilizzazione fissa: testa di profilo, con l’occhio visto però frontalmente, spalle presentate di fronte, torace uguale ma capezzolo di profilo, bacino a tre quarti, braccia, gambe e piedi di profilo, ma mani – quasi sempre – a palmo. La testa viene resa di profilo poiché è il punto di vista che garantisce una migliore qualità dei tratti somatici, mentre l’occhio è dipinto frontalmente, in modo da mostrare la sua forma più caratteristica.


Ancora oggi, tuttavia, non sappiamo perché venne creato questo modello artefatto per la rappresentazione della figura umana nei rilievi e nei dipinti. Gli studiosi ipotizzano che gli artisti volessero trasferire tutte e tre le dimensioni di una figura reale su una superficie bidimensionale, mostrandola simultaneamente da angolazioni diverse. Gli egittologi fanno notare che gli antichi egizi, nella loro arte, erano più inclini a rappresentare ciò che “sapevano” piuttosto che ciò che “vedevano”, nel senso che non percepivano un oggetto o una figura nella sua totalità, ma focalizzavano l’attenzione sulle singole parti. Si nota, infatti, per quanto riguarda la figura umana, come ogni parte del corpo veniva trattata come vista separatamente, ognuna da un’angolazione diversa (quella che la rende più immediatamente riconoscibile) e secondo le proprie caratteristiche.
Le figure umane, sia maschili che femminili, erano considerate dotate di proporzioni costanti. Si riteneva, cioè, che le varie parti del corpo fossero caratterizzate da precisi rapporti numerici. Per questo i pittori utilizzavano un ‘canone’, cioè una griglia quadrettata che definiva dimensioni e proporzioni della figura. Inizialmente tale reticolo prevedeva 18 quadretti di altezza, mentre in età tarda si passò a un canone di 22 quadretti. Il foglio di papiro (ma anche la facciata del blocco di pietra da scolpire) veniva diviso in 18 parti (moduli), ognuna delle quali corrispondeva alla lunghezza del dito medio (o del pugno chiuso). La testa era alta tre moduli, la parte centrale dalle spalle fino al ginocchio comprendeva dieci moduli, e infine, le gambe dal ginocchio fino alla base del piede, erano alte sei moduli.
Lo schema convenzionale e la natura simbolica di questo tipo di rappresentazione è ravvisabile anche nell’ordine gerarchico in base al quale venivano raffigurate le dimensioni dei personaggi, che segnalavano immediatamente il rango e il ruolo: il faraone, o il dignitario, era più grande di sua moglie e dei suoi servi.



Con l’arte egizia ha origine la ritrattistica. Le grandi statue che rappresentavano i faraoni avevano una funzione soprattutto rappresentativa e celebrativa, in quanto ai sovrani veniva attribuita una natura divina. Si trattava, quindi, di raffigurare esseri trascendenti, che pertanto dovevano irradiare maestà e solennità, avere un corpo immobile e uno sguardo ieratico e distaccato. Dovendo creare un’immagine atemporale ed eterna della persona ritratta, l’artista non era interessato a una descrizione naturalistica della sua fisionomia.
Le statue egizie, collocate nei templi o nelle tombe dei faraoni e dei dignitari del regno, avevano il compito di trasmettere la regalità e l’autorevolezza del personaggio. La statua sostituiva la persona rappresentata, garantendone la continuità vitale: si supponeva che lo spirito del defunto risiedesse nella sue effigie e che, finché questa fosse durata, egli avrebbe continuato a vivere nell’aldilà.
La statua del faraone, seduto in trono, ha un’espressione che non tradisce alcuna emozione; il suo sguardo, rivolto lontano, esprime la sicurezza fondata sulla propria potenza e superiorità. Il suo ritratto, pur risultando riconoscibile dai suoi sudditi, appare idealizzato, cioè reso perfetto nelle forme, privato di difetti e irregolarità. La raffigurazione segue regole fisse e quasi immutabili: la composizione è normalmente simmetrica e bloccata in una posizione statica e, quando la figura è in piedi, l’unico accenno di movimento è la gamba sinistra spostata in avanti.



Nei periodi successivi all’Antico Regno, le statue cominciano ad essere eseguite con maggiore realismo, anche se sempre all’interno di codificati canoni formali e ideali.
Per rafforzare la somiglianza con gli esseri umani e il verismo delle figure, le statue venivano dipinte con colori vivaci, seguendo anche qui particolari convenzioni, come quella di dipingere la carnagione delle donne molto più chiara di quella degli uomini. La policromia contribuiva al realismo della scultura, facendo di quest’ultima quasi un alter ego della persona rappresentata.
La somiglianza era importante, in quanto queste raffigurazioni, collocate per lo più all’interno di edifici sepolcrali, dovevano essere riconosciute dall’anima del defunto: nella concezione egizia, infatti, per poter vivere nell’aldilà, l’anima doveva ricongiungersi al proprio corpo o a una sua immagine. Per conservare i corpi si procedeva all’imbalsamazione e sul volto della mummia veniva posta una maschera che riproduceva i lineamenti del defunto: se, nonostante tutti gli accorgimenti, il corpo non si fosse conservato, il ritratto del defunto lo avrebbe sostituito.


Nelle tombe venivano poste anche statuette raffiguranti artigiani, pescatori, contadini, soldati e scribi, intenti a compiere i gesti semplici e naturali dei lavori quotidiani. Queste figure sono realistiche e perciò molto distanti dalle statue-ritratto dell’arte ufficiale e celebrativa. Le loro posizioni, infatti, non sono statiche e rigide, e le loro forme non appaiono idealizzate e geometrizzate.
Soggetti e temi tratti dalla vita di tutti i giorni erano rappresentati anche nei bassorilievi e nei dipinti che decoravano le pareti delle tombe. Il defunto e i suoi familiari vi erano ritratti intenti in varie occupazioni, come banchettare, sorvegliare i servi o cacciare e pescare. Nella tomba doveva essere raffigurato tutto ciò che serviva normalmente nella vita quotidiana, compresi servi e schiavi. Gli Egizi pensavano infatti che, attraverso la rappresentazione della vita, se ne assicurasse il perpetuarsi nell’aldilà. Queste immagini avevano quindi una funzione magica e, nello stesso tempo, narrativa. E, per la prima volta nella storia, la figura umana occupava una posizione centrale all’interno di scene di vita quotidiana.


L’elemento che più distingue questi dipinti e bassorilievi – se li raffrontiamo con l’arte statuaria – è che le figure, quasi sempre, sono rappresentate in movimento: camminano, corrono, danzano, cacciano, ecc. Non essendo un’arte ufficiale, queste raffigurazioni non erano vincolate alla rigida ideologia che condizionava la composizione figurativa delle statue celebrative.
Riassumendo, quella egizia, nel suo complesso, era un’arte non naturalistica, ma simbolica, con una funzione magico-religiosa. Notiamo, tuttavia, alcune differenze tra l’arte statuaria ufficiale e celebrativa, che raffigurava le divinità e il faraone, e un’arte non ufficiale, molto più realistica e caratterizzata da una maggiore libertà rappresentativa.

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