venerdì 2 novembre 2018

L'evoluzione dello spettatore cinematografico

Buster Keaton, Sherlock Jr. (noto in Italia come La palla n.13), 1924

Si è soliti suddividere la storia del cinema in alcune grandi ere: primitiva, classica, moderna e postmoderna. Ognuna di queste implica anche quattro grandi fasi, o forme, di fruizione da parte dello spettatore.
Quello che Burch definisce “modo di rappresentazione primitivo” (MRP), proprio dei primi anni del cinema, è caratterizzato dalla posizione fissa e frontale della macchina da presa, dall’uso generalizzato di fondali dipinti, da un’illuminazione costante e da scenografie che tengono gli attori a una grande distanza dalla macchina e in posizione frontale, come nei tableaux vivant, dallo sguardo degli attori rivolto alla macchina da presa e interpellante lo spettatore come già avveniva nei music-hall e nel teatro popolare, e da un montaggio discontinuo con grandi ellissi temporali. Qui è soprattutto la figura del commentatore a garantire una certa linearizzazione del racconto. In questo modo, però, il film risulta privo di chiusura diegetica, in quanto il narratore è una figura ben evidente ed esterna al film. Questa forma primitiva di cinema è sostanzialmente una “esibizione” della realtà sullo schermo, si tratti di una realtà quotidiana (che il film documenta) o di una teatrale; l’elemento centrale resta l’attrazione, più che la narrazione di una storia.

Tale sistema di rappresentazione interpella lo spettatore, ma lo lascia all’esterno dell’immagine cinematografica. A causa innanzitutto dell’immobilità della macchina da presa, e quindi dell’unicità del punto di vista, e dell’assenza di personaggi protagonisti, allo spettatore non è possibile immedesimarsi e partecipare alla storia. Egli è attratto e anche interpellato dal film, ma mai “assorbito” completamente da quanto viene proiettato sullo schermo.

In seguito si ha il passaggio dal cinema mostrativo al cinema narrativo, e cioè da un cinema ancorato alla semplice esibizione di figure umane o paesaggi in movimento, all’intreccio narrativo dello stile classico che si realizza inquadratura dopo inquadratura.
Il “modo di rappresentazione istituzionale” (MRI) elabora una serie di regole per costruire l’illusione di realtà. La fase “classica”, è dunque contrassegnata dall’intervento di una narrazione che fa sì che sullo schermo la realtà sembri raccontarsi da sola. Essa deve molto alle innovazioni messe in campo da David Wark Griffith, il quale elabora i canoni del cinema narrativo.
Il passaggio dal cinema delle attrazioni al cinema dell’integrazione narrativa implica anche un cambiamento nelle relazioni tra il film e lo spettatore: mentre nel primo c’è uno spettatore che guarda e un attore che sa di esibirsi di fronte al pubblico, nel secondo viene completamente negato il contatto tra film e spettatore. Il film narrativo costituisce un universo chiuso in se stesso.
Non si tratta più di un cinema delle attrazioni, che vuole stupire gli spettatori. Questo tipo di cinema, invece, mira a coinvolgere lo spettatore dentro la storia, che si svolge soprattutto grazie a vari tipi di inquadrature, al contro campo, al montaggio e ai movimenti di macchina. In questo modo il punto di vista si addentra nel bel mezzo dell'azione: non sono solo i personaggi a muoversi sulla scena davanti a una macchina da presa fissa ed esterna, ma è la ripresa (e dunque lo sguardo) a muoversi all’interno della rappresentazione e, conseguentemente, lo spettatore viene letteralmente immerso nello spettacolo e può vivere dall’interno il mondo messo in scena dal film. Pur invitato ad assumere una posizione di centralità, lo spettatore diventa però ‘invisibile’ all’attore che si muove all’interno del racconto. Per questo già all’inizio degli anni Dieci i produttori americani proibiscono agli attori di guardare in macchina.

I teorici di cinema elencano anche una fase “moderna”, successiva alla seconda guerra mondiale, caratterizzata sia dalla ricerca di un maggiore realismo che da una decisa riflessione metalinguistica che il cinema opera sui propri mezzi espressivi e sulla propria natura di discorso. La fruizione di questa forma filmica implica un atteggiamento, da parte dello spettatore, più consapevole e critico.

La fase contemporanea, invece, detta anche “postmoderna”, è caratterizzata da immagini filmiche che possono ormai essere prodotte sinteticamente, e che quindi non rispecchiano più necessariamente il reale come nell’immagine fotografica. Queste hanno più la caratteristica dell’“invenzione” o dell’“illustrazione” che della “testimonianza”. La forma postmoderna si caratterizza per la molteplicità delle pratiche visuali oltre che per la consapevolezza dell’artificio e la messa in evidenza dei meccanismi di finzione, per il gusto della complessità e della molteplicità dei livelli di senso, coniugati alla rivisitazione di stilemi e codici popolari, dal ricorso alla citazione, all’intertestualità e alla contaminazione di generi.
Tale forma di rappresentazione implica una fruizione e un consumo anch’essi “postmoderni”, non più legati alla presenza dello spettatore in una sala, ma affidati a una pluralità di situazioni, basata sulla multiformità dei supporti, dei luoghi di fruizione, delle modalità di visione, e stabilendo una nuova mappa percettiva che coinvolge anche sperimentazioni visuali diverse rispetto a quelle filmiche, le quali implicano soprattutto una maggiore dinamica interattiva con cui si sviluppa la relazione tra immagine e spettatore.
Ma su questi argomenti torneremo in maniera più approfondita nei prossimi post.

Si veda a questo proposito il primo episodio della monumentale The story of film - an odyssey:



L'immagine è un fotogramma tratto dal film capolavoro "Sherlock Jr." di Buster Keaton. In questo film, in cui il protagonista sogna di entrare letteralmente all'interno di uno schermo su cui si proietta un film, Keaton mette in scena una tra le più intelligenti riflessioni sul cinema, in netto anticipo rispetto all'autoriflessività del cinema degli anni Sessanta. Il cinema, come il sogno, è un ingresso fisico vero e proprio in un mondo costruito che simula quello reale, un luogo imprevedibile dove, proprio come in un sogno, si può viaggiare nel tempo e nello spazio e tutto sembra possibile.
Imperdibile è la scena finale, in cui realtà e cinema si alternano: Keaton guarda lo schermo, ma allo stesso tempo guarda in camera, cioè verso noi spettatori che a nostra volta guardiamo lui. Si crea in questo modo un gioco di sguardi “a tre” che ci racconta con semplicità la magica relazione tra spettatore e film.

A questo link la famosa sequenza del sogno:



A questo, invece, la scena finale:




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