domenica 28 ottobre 2018

Nascita dell’osservatore moderno. La corporeità della visione

Joseph Mallord William Turner, Luce e Colore (la Teoria di Goethe), 1843, Tate Gallery, Londra.

Per tentare di comprendere le caratteristiche della visione moderna è importante fare riferimento a un testo del 1990, tradotto solo qualche anno fa in italiano, dal titolo Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo, di Jonathan Crary.
“Period Eye” è l’espressione usata da Baxandall per definire quell’insieme di categorie, schemi e abitudini sociali tramite i quali un’epoca organizza la propria esperienza visiva; più diffusa, ai nostri giorni, è la dicitura “regime scopico” per designare l’omogeneità di percezione che accomuna gli individui che appartengono a una certa cultura. Secondo Crary, nei primi decenni del XIX secolo si verifica una profonda trasformazione del modello classico di visione, ereditato dal Rinascimento.

Tralasciando le caratteristiche del modello foucaultiano, cioè genealogico, con cui l’autore porta avanti le proprie argomentazioni, in una cornice composita che mette insieme elementi socio-antropologici, scientifici, estetici e tecnologici, prendiamo in considerazione in particolar modo la tesi centrale del libro, e cioè quella secondo cui tra il 1810 e il 1840, quindi nei decenni anteriori all’invenzione della fotografia, si impose un nuovo tipo di osservatore, che metteva radicalmente in crisi quello che era venuto in auge in epoca rinascimentale ed aveva trovato un’elaborazione teorica negli scritti cartesiani. Quest'ultimo era un tipo di osservatore la cui visione aveva nel dispositivo della camera oscura il proprio risvolto pratico. Tra Seicento e Settecento questo dispositivo aveva costituito il modello dominante di spiegazione della visione e, come apparato tecnico, aveva trovato impieghi in vari campi, da quello dell’osservazione scientifica, a quello artistico a quello legato all’intrattenimento popolare.
La camera oscura era basata sulla radicale distinzione tra soggetto e oggetto della percezione e sulla possibilità di una visione fissa e stabile, oggettiva, perché fondata su salde regole geometriche. Ma, in quanto oggettiva, tale visione era concepita come un processo puramente passivo, dato che il mondo, all’interno della camera oscura, non fa che proiettare se stesso. Tale apparato tecnico era separato dall’occhio umano e dunque la percezione non dipendeva dalle caratteristiche di quest’ultimo. La fisiologia dell’occhio, cioè, non svolgeva alcun ruolo nella elaborazione delle percezioni visive. In sintesi, la visione era concepita come un processo disincarnato, propria di un osservatore incorporeo; una visione non legata all’apparato sensoriale e fisiologico di un soggetto empirico, ma realizzata da un soggetto impersonale e, perciò, oggettiva e dotata di “verità”.
Agli inizi dell’Ottocento questo paradigma visivo viene meno, messo in crisi da una serie di cambiamenti epocali e di avvenimenti, in primo luogo dalla pubblicazione, nel 1810, della Teoria dei colori (Farbenlehere) di Goethe, che attaccava le teorie newtoniane, secondo le quali i colori erano dei semplici fenomeni fisici, e riconduceva la percezione cromatica alle caratteristiche fisiologiche dell’occhio. In questo modo legava l’atto della visione non a un soggetto impersonale, ma al corpo concreto dell’osservatore.
La soggettività corporea, esclusa a priori dal modello della camera oscura, diveniva di colpo il fondamento della visione: è l’osservatore il produttore attivo e autonomo della propria esperienza visiva. Crary definisce ciò la “rivoluzione copernicana” della figura dello spettatore e riporta un brano della Critica della ragion pura in cui Kant scrive:
“La nostra rappresentazione delle cose, quali ci son date, non si regola su di esse, come cose in se stesse, [ma sono piuttosto] questi oggetti, come fenomeni, che si regolano sul nostro modo di rappresentarceli.”
Sono insomma gli oggetti, in quanto fenomeni, che gravitano attorno al soggetto che li percepisce. Non esiste più una realtà fissa e stabile che può essere colta da un soggetto impersonale nella sua verità, assunto che era invece implicito nel dispositivo della camera oscura. Come scrive Crary: “La visione non era più subordinata a un’immagine esteriore del vero o del giusto, e l’occhio non doveva più necessariamente sostenere l’idea di un «mondo reale»”.
Le idee di Goethe, riprese da Schopenhauer, andavano di pari passo con la diffusione di tutta una serie di ricerche sulla fisiologia dell’occhio umano e sulle caratteristiche della percezione (ad esempio le immagini postume, cioè quelle che persistono sulla retina anche dopo la scomparsa dello stimolo, o la disparità binoculare), che facevano del soggetto umano il luogo di produzione delle immagini. Ciò a cui si assiste, in sostanza, è la soggettivazione del processo della visione. Anche gli apparati analizzati da Crary , che si diffondono in questo periodo, come lo stereoscopio, il fenachistoscopio, lo zootropio e tutte le altre tecniche di visione apparse nel ventennio che precede la fotografia, non sono né più né meno che dei modelli di soggettivazione della visione. Questi apparati producevano visioni non di tipo realistico, come la camera oscura, ma di tipo illusorio, dando l’impressione di un movimento continuo o della tridimensionalità dell’immagine. Si era, cioè, consapevoli che questi effetti non erano propri dell’oggetto, ma dipendevano dalla particolare fisiologia dell’occhio umano e della percezione ottica. Con questi strumenti, l’osservatore non era più un soggetto passivo, bensì un elemento fondamentale dello stesso dispositivo. Le immagini non erano create dalla sola macchina, indipendente dal soggetto, ma era il corpo di quest’ultimo a renderle possibili, grazie alla propria fisiologia, ad esempio grazie alla persistenza delle immagini sulla retina (immagini postume, alla base, per esempio, della visione cinematografica).
E’ in questo periodo che, in concomitanza con una serie di fenomeni che riguardano molteplici settori della sfera sociale, il soggetto moderno prende forma: l’osservatore incorporeo cartesiano, soggetto della camera oscura, che escludeva l’opacità del corpo e razionalizzava il processo di visione, lascia lo spazio a un osservatore perfettamente incarnato e alla sua visione fisiologica e “imperfetta”.

In campo artistico, l’interprete più rappresentativo, e certo più vicino alle contemporanee sperimentazioni nel campo dell’ottica, è Joseph Mallord William Turner, che più di altri, sempre a parere di Crary, rompe con il “mondo” della percezione della camera oscura.
In particolare Crary prende in considerazione l’opera del 1843 Luce e colore (la teoria di Goethe) – Il mattino dopo il Diluvio. Mosè scrive il libro della Genesi.
In questa, come in altre pitture della tarda maturità del pittore, “vengono meno tutte le mediazioni che in passato mettevano a distanza e proteggevano l’osservatore dalla brillantezza pericolosa del sole”. In passato, infatti, scienziati come Newton e Keplero si erano serviti della camera oscura per studiare il sole evitando di guardarlo in modo diretto. Per Cartesio, la camera oscura rappresentava uno strumento di difesa dalla follia dell’abbagliamento.
Nell’opera di Turner si compie il collasso del vecchio modello di rappresentazione, perché il pittore si confronta direttamente con il sole, evitando ogni tipo di mediazione. La struttura circolare di questo suo quadro imita non solo la forma del sole, ma anche quella della pupilla e del campo retinico, in cui sembra dispiegarsi un’immagine postuma. In esso l'immagine del sole non è quella di un oggetto distante, colto nella propria verità, ma appare piuttosto come la fusione tra l’occhio e il sole, come l’incarnazione fisica del processo fisiologico della visione, che la camera oscura negava.

Di questa e di altre opere di Turner ho parlato qui:
https://finestresuartecinemaemusica.blogspot.com/2017/01/luomo-e-la-natura-william-turner.html

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