domenica 23 settembre 2018

Finestre nell’arte – Romanticismo e Impressionismo.



Una finestra sul chiaro di luna.
Mentre la finestra nella pittura del Rinascimento è un dispositivo ottico di organizzazione dello spazio, una "veduta" su paesaggi esterni prospetticamente inquadrati e nel Seicento diviene una soglia che protegge e separa l'interno della casa dalla città (generalmente l'esterno non si vede, oppure si vede in modo molto vago e sfocato), nella pittura romantica la finestra diviene una soglia protesa verso l’assoluto, legata all’idea di sublime.
L'idea di "sublime" aveva conosciuto la sua prima definizione teorica nel saggio del 1756 di E. Burke, "Inchiesta sul Bello e il Sublime", in cui l'autore considera il bello e il sublime tra loro opposti. Il sublime non nasce dal piacere della misura, dell'ordine e della forma bella dell'oggetto, ma ha la sua origine nei sentimenti di terrore, di sgomento, di smarrimento suscitati dalla dismisura, da “tutto ciò che è terribile o riguarda cose terribili” (per es. il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio, l'infinito ecc.).



Johann Heinrich Füssli, Signora alla finestra al chiaro di luna, 1800-1810, Frankfurt a.M., Goethe-Museum.

Si ha pertanto quel sentimento misto di sgomento e di piacere (“orrore dilettevole”) che è determinato sia dall’assolutamente grande e incommensurabile (l’illimitatezza del tempo e dello spazio), sia dallo spettacolo dei grandi sconvolgimenti e fenomeni naturali che suscitano nell'uomo il senso della sua fragilità e finitezza (tempeste, tramonti infuocati).
In questo dipinto di Johann Heinrich Füssli, letterato e pittore svizzero, ma naturalizzato inglese, troviamo molti temi romantici: la notte, il chiaro di luna, lo sguardo nostalgico della donna che la contempla rapita. E' un esempio della poetica romantica del sublime che predilige lo spettacolo notturno e perturbante della natura e il fascino del turbamento per l'ignoto.
Parole ricorrenti dell'arte romantica sono "nostalgia" ed "esilio". L'artista sente in modo drammatico il distacco dalla realtà quotidiana e la tensione nostalgica verso la natura come luogo di unione con l'assoluto. Lo sguardo verso la luna, in particolare, è la rappresentazione del legame che l'artista sente tra l'individuo e la vita cosmica. In questo dipinto la finestra è la soglia verso un altrove misterioso, indefinito, l'infinito oscuro cui il romantico anela; è una soglia "immaginifica" alla quale si affacciano figure solitarie che guardano a un mondo esterno, affascinante e terrificante, agognato e temuto al tempo stesso.
In nessun secolo come nell'Ottocento i poeti hanno tanto amato la luna. Essa, sfumando i contorni del reale e immergendo la realtà in una luce fantastica, immette l'artista nella dimensione del sogno e del mistero. Il romantico vive un senso di estraneità e di distacco dalla società borghese in cui vive, dominata dal razionalismo utilitarista. Perciò il tema della luna converge con quello dell'esilio e della solitudine, della ricerca di una dimensione altra rispetto alla realtà apparente del visibile.

Una finestra sull’infinito.
Questo dipinto è "Donna alla finestra", del pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich.
La scena si colloca in un austero ambiente interno, lo studio del pittore a Dresda con vista sull'Elba. La donna, raffigurata di spalle rispetto allo spettatore, è presumibilmente la moglie dell'artista, Caroline, la quale, appoggiata alla finestra, volge il suo sguardo verso il fiume. Friedrich inserisce spesso nei suoi quadri dei personaggi colti di spalle, assorti nella contemplazione di un paesaggio naturale, come il famoso "Viandante sul mare di nebbia".


Caspar David Friedrich, Donna alla finestra,1822, Alte Nationalgalerie, Berlino.

Dal vetro della finestra, oltre la testa della donna, si scorgono gli alberi di due velieri, un filare di pioppi sulla sponda opposta e l'infinito cielo azzurro. Lo spettatore può solo intuire che questa finestra si apre su di un porto dal quale partono le imbarcazioni per un altrove, lontano e a noi (e a lei) sconosciuto. Qui troviamo ancora il motivo romantico della finestra aperta, soglia verso una realtà lontana e ignota, in grado di esprimere la tensione visiva tra ambiente interno e mondo esterno. La stanza, costruita intorno a un rigido impianto prospettico, con lo spazio strutturato in una fredda griglia geometrica di linee orizzontali e verticali, ha un tono quasi cupo e opprimente. La leggera diagonale del corpo della donna contrasta questa intelaiatura, spezzandone la regolare rigidità, introducendo la tensione verso un "oltre" lontano e misterioso, che lo spettatore può solo intuire, perché l'altrove non si rivela mai; si lascia solo percepire e mai conoscere. I personaggi di Friedrich, ripresi di spalle, immobili e perduti, sono impotenti di fronte alla infinità della natura. La loro contemplazione non è conoscenza, ma un immergersi e un perdersi nell'immensità del cosmo.
Due lavori giovanili di Friedrich (Veduta dalla finestra sinistra dell’atelier, 1805–1806 e Veduta dalla finestra destra dell’atelier, 1805–1806) non rappresentavano altro che due finestre del suo studio, il luogo dal quale l'artista guardava l’esterno.


C.D. Friedrich, Veduta dalla finestra sinistra dell’atelier, 1805.

I suoi dipinti sono stati definiti come "dialoghi con Dio", perché riescono a farci percepire il sentimento religioso con cui Friedrich viveva la sua pittura. La pittura è la via che gli permette (e permette a chi guarda) di contemplare l'assoluto.
Spingendosi oltre i limiti imposti dalla fredda ragione illuministica, l'artista romantico scopre un nuovo modo di concepire la realtà, attraverso vie d'accesso mai tracciate prima. Una di queste vie, porta privilegiata sull'infinito, è proprio l'arte. La pittura paesaggistica di Friedrich, in particolare, lungi dall'essere mera imitazione della natura, si configura come proiezione dell'anima stessa dell'artista, del suo mondo interiore. Lo stesso Friedrich affermava che "il pittore non deve dipingere ciò che vede davanti a sé, ma anche ciò che vede in sé". E nell'animo del romantico ci sono soprattutto racchiusi due sentimenti: la perenne tensione verso l'infinito (Streben) e il desiderio struggente dell'oltre-limite (Sehnsucht), nella lacerante consapevolezza dell'irriducibile alterità della natura, dell'incommensurabilità dell'infinito al finito, causa, nell'uomo, di un senso di incolmabile incompletezza e disarmonia. Tale consapevolezza è espressa nella solitudine tragica dei personaggi di fronte al sublime spettacolo della natura. Solitudine, lontananza: sono simboli di quel desiderio struggente d'infinito che è la principale chiave di lettura della poetica del pittore tedesco come di tutto il Romanticismo.


Hayez, Odalisca sdraiata, 1839, Collezione privata, Milano.


Una finestra sulla luce.
Se la finestra del Romanticismo è uno spazio aperto sull'altrove, sull'ignoto e sull'infinito, dalle finestre dei quadri Impressionisti, invece, entra dentro il mondo così com'è, o meglio, come lo vedono i pittori di questo Movimento artistico: una realtà fatta di luce e di macchie di colore, così come è percepita dall'occhio umano.
Parlando di Impressionismo, si va subito col pensiero ai massimi esponenti di questo movimento, Monet, Degas, Manet, Renoir, ecc. L’opera seguente appartiene invece a una donna, una pittrice che aderì a questo gruppo, Berthe Morisot, a lungo modella di Manet, morta di polmonite a soli 54 anni.

Morisot Berthe, Eugène Manet all'isola di Wight, 1875.

Morisot fu una valente artista e una donna dallo spirito libero e ostinato, che seppe portare fino in fondo il suo amore per la pittura, lottando contro i tanti pregiudizi dell'epoca riguardanti le donne che si dedicavano all'arte. Nel 1874 aderì al gruppo degli "indipendenti" (i futuri impressionisti) e partecipò a tutte le loro mostre. L'opera di Berthe Morisot si distingue per la freschezza del suo stile spontaneo e immediato, il suo modo delicato di trattare la luce e i colori, in particolare quelli chiari. Nella sua tavolozza prevale infatti il bianco, che l'artista fa risaltare sul fondo scuro, il che le permette di realizzare luminose trasparenze.
Questo dipinto ritrae il marito Eugène Manet, fratello del pittore Édouard, durante un soggiorno all'isola di Wight.
Ciò che si nota è come la finestra non costituisca affatto una cesura tra gli spazi: ambiente interno e ambiente esterno non sono più così nettamente separati; i confini sono ambigui; la forza della luce e dei colori fonde insieme i piani, sovvertendo il concetto di prospettiva. I fiori sul davanzale si confondono con i fiori del giardino, l'intelaiatura della finestra con la recinzione esterna. La finestra ritaglia una sorta di quadro nel quadro, dove però la cornice si perde nella luce.
Le forme sono vaghe e appiattite in una voluta bidimensionalità, resa con pennellate ampie e nervose. Tutta la vitalità dell'immagine è affidata ai colori, tra i quali predomina il bianco, e alla luce. E tuttavia, se guardiamo il dipinto a una certa distanza, esso ci dà un'impressione di verità maggiore rispetto a tanti dipinti in cui la prospettiva, il chiaro-scuro e i volumi sono rigorosamente delineati, e questo perché l'occhio umano percepisce la realtà principalmente come macchie di colore.
L'uomo sta guardando fuori dalla finestra una donna e una bambina che passeggiano su una banchina. Egli è ritratto di profilo, per cui si crea la sensazione che il nostro sguardo segue il suo - che quello che lui vede è ciò che vediamo anche noi. Non solo l'interno della stanza si confonde con l'esterno; anche la realtà del quadro si confonde con quello che è il luogo della sua fruizione, cioè il luogo dello spettatore. Quest'ultimo è di fronte al dipinto come l'uomo ritratto è di fronte alla finestra. La finestra è la vista dell'uomo, il dipinto è la vista dello spettatore. Una finestra nella finestra, un dipinto nel dipinto. E tuttavia senza che si percepisca nessuna cesura, nessuna distinzione netta degli spazi.

Dalla finestra di un balcone.
"Il balcone" è un'opera di Édouard Manet, che riprende un dipinto molto simile di Francisco Goya, “Majas al balcone”, realizzato dal pittore spagnolo tra il 1808 e il 1814.


Francisco Goya, Mayas al balcone, 1808-14, Metropolitan Museum of Art, New York.

Rispetto alla precedente, l'immagine di Manet appare più piatta e meno dotata di volume. Sappiamo infatti come gli Impressionisti affidino la forza espressiva della rappresentazione soprattutto ai colori e alla luce, tendendo ad abolire la prospettiva e il chiaroscuro. Eppure Manet (che, ricordiamo, non aderì mai "ufficialmente" all'Impressionismo), partendo dalla consapevolezza che la percezione visiva funziona soprattutto per contrasto tonale (in quanto l'occhio umano, guardando la realtà, coglie soprattutto macchie di colore), riesce a restituirci un'immagine quanto mai vivida e di grande forza espressiva. E il tutto avviene grazie alla luce e al contrasto dei colori: il verde delle persiane, il bianco luminoso dei vestiti, il nero dello sfondo e del vestito dell'uomo.

Édouard Manet, Il balcone, 1868-69, Parigi, Musée d'Orsay.

I personaggi ritratti sono amici del pittore: a sinistra, è seduta Berthe Morisot, sua allieva e pittrice impressionista anch'essa; la donna in piedi a destra è la violinista Fanny Claus, mentre l'uomo dietro di loro è il pittore Antoine Guillemet. Nel buio della stanza si intravede anche un'altra figura, che regge un vassoio. lo spazio è compresso in una serrata successione di piani bidimensionali: la ringhiera verde, il riquadro dato dalle persiane e il piano nero dell'interno della stanza.
Nel periodo in cui Manet dipinge questo quadro, le scene di vita borghese sono un genere alla moda. "Il balcone", tuttavia, non corrisponde in alcun modo alle aspettative del pubblico dell'epoca. I protagonisti del dipinto, infatti, sono raffigurati in un atteggiamento immobile, come persi in un mondo interiore, e senza nessuna interazione tra di loro. La scena, contrariamente a tutte le regole accademiche, non mette in relazione i personaggi ritratti e perciò non racconta nessun avvenimento o aneddoto in particolare. E infatti il dipinto fu aspramente criticato e preso di mira da feroci caricature in occasione dell'esposizione al Salon del 1869. I critici lo definirono: “tre pupazzi al balcone”. In particolare, la vivacità e la compattezza dei colori, e il loro violento contrasto, fece dire a qualcuno che Manet faceva "concorrenza agli imbianchini". Un dipinto che metteva così radicalmente in discussione convenzioni e tradizioni non poteva che suscitare scandalo.
Il Balcone è l’icona di una classe sociale nell'epoca del suo trionfo storico: la Borghesia.
La scena rappresentata era molto comune ai tempi di Manet: tre persone, di chiara estrazione sociale alto-borghese, sono affacciate dal balcone della loro casa per osservare probabilmente una parata o una manifestazione pubblica, avente luogo in una via o in una piazza della città. Un piacevole frammento di vita familiare e cittadina, tipico delle pitture degli Impressionisti. Personaggi, ambienti, situazioni: la loro connotazione borghese è immediatamente evidente. La condizione sociale dei tre che osservano (e si fanno osservare) dall'alto della loro casa, emerge con evidenza dalle caratteristiche su cui si sofferma il pittore: gli abiti raffinati, gli accessori eleganti, l'espressione malinconica e distaccata della donna seduta, quella compassata e autorevole dell'uomo, icona del personaggio di potere borghese: indifferente, impassibile e altero. La nuova classe dominante, al suo culmine, viene celebrata e fissata in un’immagine di estrema eleganza e quasi di irraggiungibilità.
Se il luogo simbolico di rappresentazione del ceto dominante precedente, cioè l'Aristocrazia, era stato la corte, lo spazio simbolico di rappresentazione della Borghesia è essenzialmente la casa, lo spazio in cui abita la famiglia borghese. In questo dipinto, il balcone è lo scenario architettonico che apre la casa all'esterno, la "espone", confermandola nel ruolo di "luogo sede del potere". E così si espongono anche i personaggi, come degli attori che rappresentano se stessi. E infatti Manet non ha dipinto l'avvenimento che essi stanno guardando, ma ha dipinto gli spettatori. Gli spettatori diventano dunque osservati, colti nel loro "esporsi", nel loro "rappresentarsi". Da qui la fissità delle figure ritratte: il dipinto non racconta una storia, non rappresenta una sorta di situazione aneddotica come le Mayas di Goya, sorprese a chiacchierare tra di loro. Il dipinto di Manet inquadra i nuovi protagonisti della storia e della società. Il balcone di casa, in questo contesto, è più simile al palco di un teatro, luogo dalla duplice funzione: assistere allo spettacolo e nello stesso tempo mettersi in mostra, per ribadire il proprio posto nella gerarchia sociale.

Nel 1950 il pittore surrealista René Magritte dipinse un rivisitazione geniale e inquietante de Il balcone, dal titolo "Prospettiva II: il balcone di Manet".

René Magritte, Prospettiva II. Il balcone di Manet, 1950.

Egli raffigurò un balcone molto simile a questo (stessa ringhiera, stesse persiane, stesso vaso di fiori), ma delle macabre bare di legno avevano preso il posto dei personaggi borghesi presenti nel quadro precedente.
Le bare sono collocate in modo analogo ai tre protagonisti dell'opera impressionista, nelle stesse pose e angolazioni, quella in primo piano è addirittura seduta come la giovane donna dell'originale.
Quello che Magritte ha voluto proporre non è solamente la citazione di un grande capolavoro del secolo precedente. E’ soprattutto la raffigurazione di ciò che, ottant’anni dopo, è rimasto di quelle tre persone, ossia tre bare. E' la rappresentazione della loro situazione attuale, è l'affermazione del primato della morte che inevitabilmente arriva per tutti, anche per coloro che in vita sono apparsi lontani e intoccabili, perché coloro che l'arte ha immortalato su una tela, in realtà giacciono nel lugubre silenzio di una bara.
Ed è una presa di coscienza storica rivisitata attraverso un gesto surrealista: l’ineluttabilità della fine è intesa non solamente come morte fisica dell’uomo, ma anche come morte di una classe sociale (di cui arte e letteratura già da tempo avevano decretato la crisi e la decadenza) e come termine di un’epoca che non tornerà più.

Una finestra sulla città e sulla malinconia.
Gustave Caillebotte fu un pittore impressionista, ricordato non solo come artista, ma anche come mecenate: la sua ricchezza personale gli permise infatti di acquistare molte opere di impressionisti e di finanziarne la terza esposizione nel 1877. Dopo la sua morte, avvenuta a soli 46 anni, ha lasciato disposizioni perché la propria importante collezione fosse donata allo Stato. Ma, incredibile a dirsi, la donazione venne all'inizio rifiutata per essere poi accettata anni dopo ed esposta, ora, al Musée d'Orsay.
I suoi soggetti preferiti sono paesaggi urbani e rurali e interni domestici. Pur aderendo al movimento impressionista, Caillebotte conservò sempre uno stile peculiare, affiancando, al senso vivo del colore e della luce, una cura attenta del disegno, portandolo ad effetti di resa quasi fotografica.
Il tema presente nel dipinto “Giovane uomo alla finestra”, con il ricco borghese raffigurato di spalle, che guarda fuori dalla finestra il panorama urbano, è certamente un topos pittorico di Caillebotte, ripreso in altre opere, in cui vediamo uno o più uomini, affacciati ad un balcone o ad un ponte.

Gustave Caillebotte, Giovane uomo alla finestra, 1875 - Collezione privata.

Esso sembra richiamare dipinti precedenti, come la Donna alla finestra di Friedrich, ma in questo caso la finestra non si apre su un cielo infinito e ignoto, ma su un concreto paesaggio cittadino, dominato dall'alto.
L'uomo raffigurato è il fratello dell'artista, René Caillebotte, nella casa di famiglia in rue de Miromesnil, mentre guarda la Parigi radicalmente trasformata dagli interventi architettonici voluti dal Prefetto Haussmann, dopo la guerra franco-prussiana e l'esperienza della Comune.
L'artista colloca lo spettatore dietro il personaggio, ma in modo tale che non venga ostruita la vista sull'esterno e che la visione della città resti libera e aperta.
In apparenza, l'atteggiamento dell'uomo dietro la balaustra, rappresentato con le gambe un po' divaricate e le mani nelle tasche, appare distaccato emotivamente da quanto accade all'esterno, lontano da ogni coinvolgimento, immerso in una contemplazione interiore. La strada è quasi deserta: qualche carrozza e la silouette di una donna che si accinge ad attraversare la strada. Possibile che l'uomo la stia guardando, come ha ipotizzato qualcuno?
Le prime cose che colpiscono guardando il quadro sono la luce dell'esterno, una luce chiara che rende quasi cromaticamente uniformi la via e gli edifici, e la solitudine dell'uomo, accentuata dalla sensazione di grande distanza dalla strada, dalla balaustra massiccia, dal riflesso scuro sul vetro della finestra e dalla posizione della poltrona, su cui si intuisce l'uomo sedesse, prima di essere spinto ad alzarsi forse da un improvviso moto di inquietudine.
Anche i personaggi nei quadri romantici sono ritratti da soli e di spalle, ma la loro è la solitudine tragica dell'uomo solo di fronte all'infinito. Questa, invece, è la solitudine urbana del borghese, costretto nelle maglie rigide delle regole che gli impone il suo status sociale, e nell'animo del quale comincia ad affiorare un certo male di vivere, quello spleen che già Baudelaire aveva cantato nei suoi Fiori del male, che è sostanzialmente disagio esistenziale e senso di inadeguatezza. L'uomo alla finestra anticipa l'atmosfera di malinconia che si respira nel dipinto "Strada di Parigi, tempo di pioggia", e il senso di solitudine e di estraneità che impregna "Le déjeuner", di poco posteriori. Nella prima, lo stato d'animo dell'artista è riversato nel grigiore della città bagnata dalla pioggia, nei suoi personaggi che attraversano soli le strade sotto i loro ombrelli, persi ognuno nel proprio isolamento e nella propria estraneità, dove il decoro e la tetra eleganza borghese danno forma alla malinconia. Lo stato d'animo dell'artista si manifesta nel paesaggio esterno; egli trasporta nello spazio urbano il clima del suo mondo interiore. Lo stesso risvolto psicologico ed introspettivo lo ritroviamo accennato in questo “Giovane uomo alla finestra”, dove la finestra, oltre ad essere un'apertura sulla città, è anche un varco nello spazio intimo dell'artista.

Gustave Caillebotte, Un balcon, 1880.

Caillebotte rimane fedele alla sua classe e al suo entourage, ma non ne elude l'angoscia, un'angoscia mascherata dai riti della società moderna, dalla sua ostentazione di dignità. I suoi personaggi, quasi sempre uomini, con il loro vestito nero e il cilindro, affacciati ai balconi degli edifici o ai ponti sul bordo della Senna, ricordano più i personaggi di certe tele di Munch, che quelli di altri impressionisti. Essi sono i "voyeurs" di una città dalla quale rimangono separati dalla distanza o dall'altezza.
Un'altra finestra di questo periodo è associabile a questa nuova inquietudine che sta emergendo nel cuore dell’Europa. Si tratta di "Donna alla finestra" di Edgar Degas, un dipinto quasi monocromo, in cui il volto della donna alla finestra è ridotto a una macchia di colore e la sua posa immobile, impassibile e chiusa in una solitudine muta e impenetrabile è accentuata e assorbita dall’interno claustrofobico della stanza, che si stringe come una prigione e assorbe l'identità della figura umana in disfacimento, riducendola a un’ombra indefinita e appena accennata. Ancora lo spleen, la malattia dell'anima, la malinconia, di cui Degas stesso era vittima.

Edgar Degas, Donna a una finestra, 1872.

Proprio queste inquietudini, questo male di vivere che rappresentano l'altro volto della modernità, ben presto esploderanno in forme aperte e drammatiche, creando il clima nel quale prenderà corpo l'arte del Novecento.

Bibliografia:
Argan, G. C., L'arte moderna 1770-1970, Sansoni 2002.
Benedetti M. T., Impressionismo. Le origini, Giunti Art Dossier.
Burke E., Inchiesta sul bello e il sublime, Aesthetica, 2002.
De Paz A., Romanticismo. L'arte europea nell'età delle passioni, Liguori, 2010.
Denvir B., Impressionismo, Giunti Art Dossier.
E. H. Gombrich, La storia dell’arte, Leonardo Arte, Milano 1997.
Hauser A., Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1956.
Lemaire G. G., Manet, Giunti Art Dossier.
Nochlin  L., Il Realismo Nella Pittura Europea Del XIX Secolo, Einaudi 1989.
Volpe Michela, L'estetica del romanticismo: Wordsworth e il sublime, Aracne, 2006.

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