lunedì 1 ottobre 2018

L’estetica dello spettatore nascosto

Jean-Baptiste-Simeon Chardin, Bolle di sapone (dopo il 1739), dopo il 1739, LACMA, Los Angeles.

Secondo Michael Fried (“Absorption and Theatricality”), verso la metà del Settecento si assiste in Francia a un cambiamento radicale del gusto, che porta a prendere le distanze dalle raffinatezze e dagli eccessi manieristici del Rococò, per valorizzare una pittura più sobria, più morale, ma soprattutto meno teatrale, dove per “teatrale” si intende l’eccessiva spettacolarizzazione della rappresentazione, l’ostentazione della messa in posa indirizzata verso lo sguardo dello spettatore.
Si afferma, al contrario, un paradosso, la cui elaborazione teorica è da attribuire soprattutto al Diderot dei “Salons” (i saggi in cui il filosofo francese analizza la pittura moderna e che inaugurano la moderna figura dello scrittore d’arte): affinché lo spettatore possa essere catturato da una scena dipinta, quest’ultima deve escludere totalmente la sua presenza, elaborare la “finzione ontologica” della sua assenza o inesistenza. I personaggi rappresentati devono essere ritratti completamente assorbiti nelle proprie attività, silenziosi, dimentichi di sé, ignari di essere osservati. La scena deve, cioè, risultare realistica, realizzare una finzione di verità. Ecco il paradosso: il quadro è fatto per essere guardato; esso deve attirare l’attenzione dello spettatore, prolungarne la contemplazione. Ma ciò è possibile solo ignorandolo e mettendolo a distanza, e più questa indifferenza sarà resa in maniera convincente, più lo spettatore potrà immedesimarsi nella scena, parteciparvi e sentirsi presente.


Le Jeune Dessinateur. (1737) de Jean Siméon Chardin. (Musée du Louvre, Paris.)

Questa estetica dello spettatore nascosto percorre trasversalmente gli scritti di Diderot sulla pittura, sul teatro e sulla stessa letteratura. Il vero elemento di novità dei Salons è l’interlocutore cui sono indirizzati: è lo spettatore il centro focale di questi saggi, inteso come un soggetto moderno dotato di gusto e di cultura o semplice amatore, un soggetto nuovo, proprio di un contesto storico caratterizzato da una nuova sensibilità estetica e da una crescita del consumo d’arte. Secondo Michael Fried, è in questo periodo che il rapporto fra opera d’arte e spettatore, la cui riflessione percorre la storia dell’arte fin dalle origini, assume un carattere teorico esplicito e consapevole, nel contesto della speculazione critica sulle arti in Francia, aprendo la strada alla posizione di quelle problematiche che saranno al cuore anche dell’esperienza artistica del Novecento.

Jean Siméon Chardin, The House of Cards, 1736-37.

La pittura di assorbimento non è una novità del XVIII secolo; essa costituisce un tema iconografico dominante nella pittura secentesca, sacra e profana, a partire dalla tradizione del Caravaggio fino a molta pittura olandese e fiamminga. Il tema dell'assorbimento, a partire dal Seicento, diviene uno dei fondamenti dell'arte pittorica occidentale, costituendosi come efficace strumento per una rappresentazione realistica senza precedenti. Si tratta di un tema caratterizzato dalla raffigurazione di un nucleo di personaggi immersi e concentrati nella propria azione, fino agli estremi della meditazione solitaria, filosofica (si pensi ad alcuni dipinti di Rembrandt) o religiosa, o del sonno e della revêrie. Spesso, soprattutto per quanto riguarda la produzione pittorica del Settecento, si tratta di occupazioni del tutto ordinarie, persino ludiche, che solo un secolo prima sarebbero state giudicate delle semplici distrazioni, contrarie a una autentica vita cristiana, e che ora invece si presentano come testimoni di un nuovo stato psicologico, di una nuova spiritualità laica.
L’elemento inedito che caratterizza il Settecento, invece, è il fatto che questo tipo di rappresentazione si inserisca in un nuovo contesto storico-sociale e in una nuova maniera di concepire l’opera d’arte e il suo rapporto con lo spettatore, in un’accezione teorica che mette in evidenza un carattere che è proprio dell’arte moderna: la sua autonomia estetica. Tale autonomia si configura attraverso due finzioni ontologiche: quella dell’assenza o dell’inesistenza dello spettatore davanti al quadro, che permette l’assorbimento dello stesso fruitore all’interno della scena dipinta e la finzione ontologica dell’isolamento del quadro rispetto allo spettatore.

“The Kitchen Maid,” Jean-Baptiste-Simeon Chardin, 1738

Ma torniamo ai pittori francesi del Settecento. Alla tradizione dell’assorbimento Fried fa appartenere artisti come Chardin, Greuze, Fragonard, fino a David. In molte delle loro opere, in particolare in quelle di Chardin, il principio di base sembra essere proprio la negazione dello spettatore. La messa in scena è finalizzata a che l’osservatore sia occupato solo a guardare, senza altre distrazioni. Per neutralizzare queste ultime, occorre che i personaggi siano totalmente assorbiti nella loro attività.
L’assorbimento in pittura si manifesta, in genere, attraverso diverse attività: lettura, riflessione, rêverie, gioco, occupazioni quotidiane. I personaggi di Chardin appaiono per lo più impegnati in attività ludiche e passatempi; ma sono talmente immersi nelle loro attività comuni da essere dimentichi di sé e di qualsiasi sguardo esterno, come testimonia la trascuratezza dell’abbigliamento del ragazzo che sofia le bolle di sapone.

The Prayer before Meal by Jean Baptiste Simeon Chardin, 1740.


Assorbiti nella lettura

L’estetica dello spettatore assente è ben rappresentata nei quadri in cui compare un lettore o una lettrice, un tema molto frequente nella produzione degli autori francesi del Settecento. Un bell’esempio è questa “Lettrice” di Fragonard, in cui vediamo una donna di profilo completamente immersa nella silenziosa lettura del proprio libro. Sembra che niente possa distrarla dalla propria occupazione, in quanto non manifesta alcun altro interesse che quello verso ciò che sta leggendo. Il personaggio è talmente assorbito, da aver perso la consapevolezza di sé. Un tale statuto possiede del fascino. Per l’empatia che suscita questo quadro, anche lo spettatore se ne lascia assorbire. E tuttavia la sua presenza è del tutto ignorata, o meglio, negata. Il quadro non ha più nulla dell’immagine transitiva che secondo Shearman caratterizzava il Rinascimento. La rappresentazione resta chiusa in se stessa.

Jean-Honoré Fragonard, La liseuse, 1770 ca., National Gallery of Art, Washington.

I personaggi devono essere rappresentati come ignari della loro identità di personaggi e del contesto cui appartengono. Le figure che comparivano nei quadri rinascimentali e in quelli della pittura barocca erano ben consapevoli del luogo che occupavano, del loro ruolo e della funzione che avevano nei confronti sia dell’evento che del riguardante: essere testimoni di una verità e mostrarla all’osservatore, convincerlo di essa, persuaderlo. Non solo erano presenti in quel contesto, ma ne interpretavano il significato e lo condividevano con un interlocutore, interno o esterno.
I personaggi di questi quadri francesi della seconda metà del Settecento, invece, come molti dipinti seicenteschi, non “realizzano” il loro mondo; ci sono dentro e basta. Abitano una dimensione parallela, ma autonoma rispetto a quella dello spettatore. Quest’ultimo vi si immerge in quanto la vive come se fosse una scena reale. Vera, in quanto finge di essere tale. Il fruitore entra nella scena non perché l’autore mette in atto degli artifici di contatto oppure un personaggio lo chiama e lo interpella, ma perché questi interpreta un ruolo in modo così convincente da far scattare nel pubblico l’immedesimazione, cioè l’insorgere delle passioni, per quanto virtuali e vissute al sicuro dal proprio posto di osservatore. L’identità di questo fruitore moderno è quella che Blumenberg (in “Naufragio con spettatore”) trae da Lucrezio e Cicerone: lo spettatore che contempla il mare in burrasca dalla terraferma e si compiace di essere riuscito, a differenza di altri, a scampare alla tempesta.
L’immedesimazione è, d’altra parte, possibile perché la rappresentazione si spinge fin dentro la sfera privata e l’intimità domestica. Trasportando la scena all’interno delle camere di una casa privata, si suscita nel pubblico l’illusione di essere lo spettatore invisibile di eventi che si svolgono a porte chiuse, fra le pareti domestiche. Più si chiudono e si riducono gli spazi, in confronto a quelli che caratterizzavano le rappresentazioni del passato, più il pubblico si avvicina al dispiegarsi degli accadimenti e delle passioni messe in scena, più si accresce la condivisione e l’empatia che egli è in grado di provare, anche a causa del fatto che i personaggi e le storie rappresentate appartengono allo stesso mondo dello spettatore.

Jean-Baptiste Siméon Chardin - Le philosophe lisant

Il prezzo da pagare per l’intrusione in tale spazio privato e intimo è la finzione dell’assenza dello sguardo spettatoriale, il quale non deve turbare i confini della rappresentazione, ma osservarla di nascosto e con discrezione.
E’ questo il regime scopico che caratterizza la visione estetica della modernità, in particolare la fruizione dell’immagine teatrale e cinematografica, dove il rivolgersi al pubblico dell’attore costituisce un tabù che solo raramente viene infranto e lo spettatore è il voyeur passivo che vive le storie narrate al sicuro della propria posizione esterna e distaccata, abbandonandosi al gioco della finzione. L’opera crea così un’illusione di totalità basata sulla sua negazione dello spettatore.

La lecture de la bible (Jean-Baptiste Greuze, 1755)

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