venerdì 2 novembre 2018

Campo e fuori campo. La forza espansiva dell’immagine



Ogni inquadratura cinematografica divide lo spazio in due: uno interno all’immagine (il campo, la realtà rappresentata) e  un altro posto al di là della selezione. È il cosiddetto «fuori campo», la realtà irrapresentata e quindi non visibile dallo spettatore, perché inquadrare significa sempre anche nascondere. Ritagliare un’inquadratura è un’operazione che instaura un conflitto inalienabile, perché comporta un includere e nello stesso tempo un rigettare fuori. E se il campo fa appello direttamente al sistema percettivo dello spettatore, il fuori campo fa appello alla memoria e all’immaginazione, in quanto spazio virtuale. Il campo è presenza, il fuori campo è assenza, ma di un tipo particolare, perché tale assenza può diventare presenza ad ogni momento. Basta un allontanamento di piano o di campo, un movimento di macchina o uno stacco, ed ecco che il fuori campo può essere reintegrato e ciò che prima era invisibile può mostrarsi allo sguardo. Essendo la selezione una sorta di cornice mobile, il rapporto dentro/fuori lo schermo è dialettico.



Da questo punto di vista sono nette le differenze tra cinema e teatro. In quest’ultimo, i limiti del palcoscenico sono i confini dello spazio di azione e tengono separati lo spazio del gioco teatrale da quello della realtà. Se lo spazio teatrale è delimitato e totalmente presente allo sguardo dello spettatore, caratteristica dell’inquadratura cinematografica è invece la sua forza espansiva, di cui troviamo un’efficace descrizione nel testo “Linguaggio e tecnica cinematografica” di Rodolfo Tritaepe: «Ogni inquadratura è dotata di una forza espansiva che supera i limiti dello schermo. Nel buio di una sala cinematografica, lo spettatore si trova immerso in un mondo che prosegue oltre i bordi del quadro e ha la sensazione di osservare la realtà. Grazie a questa caratteristica è possibile inquadrare una parte per il tutto e collegare fra loro ambienti e persone girati in tempi diversi e in località diverse. Per esempio un portone fa supporre che esista l’intera costruzione e una tolda spazzata dalle onde che esista l’intera nave nel mare in tempesta, ecc.. La forza espansiva comporta inoltre che ogni inquadratura contenga un’allusione a elementi fuori campo determinanti per direzione e distanza. Ad esempio, la ripresa di una persona che guarda verso l’alto chiamando qualcuno ad alta voce, esige che nell’inquadratura successiva la posizione della persona chiamata sia in accordo a quella precedente, e ciò sia rispetto alla lontananza che come posizione. Ci troviamo di fronte a una realtà dialettica: da un lato non esiste niente al di fuori dell’inquadratura e dall’altro vi è la certezza inconscia dello spettatore di trovarsi in un mondo che va ben oltre la finestra del Campo».


L’inquadratura è l’unità minima della narrazione filmica: essa esprime sempre una tensione tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile, tra un campo e un fuori campo che si estende al di là dei bordi dello schermo. L’inquadratura è un confine tra un vedere e un desiderio di vedere, un’immagine che insieme mostra e nasconde, che rappresenta e suggerisce. Essa è una totalità (l’immagine che occupa lo schermo in quel momento) e nello stesso tempo la parte di una realtà più estesa, cioè una sineddoche (figura retorica che consiste nella sostituzione tra due termini in relazione quantitativa: la parte per il tutto, il singolare per il plurale, il genere per la specie, ecc. Ad esempio si usa "ruota" per intendere il carro, "prua" per la nave, "tetto" per la casa. Grazie alla forza espansiva dell’immagine, nel cinema basta un portone per esprimere l’idea più ampia di palazzo).



Anche la fotografia esprime un’inquadratura ma, a differenza del fotogramma cinematografico, nel caso dell’immagine fissa il rapporto sineddotico tra campo e fuori campo resta immutabile. Nel film, invece, basta un movimento di camera o uno stacco di montaggio per ampliare lo spazio e includere nell’inquadratura ciò che prima ne restava fuori. Fotografia e fotogramma sono, da questo punto di vista, due immagini difficilmente confondibili: il fotogramma, rispetto alla fotografia, presenterà linee di forza, sguardi, movimenti che rimandano e alludono a un fuori campo. Nel caso dell'immagine cinematografica ci troviamo di fronte a una realtà paradossale: da un lato non esiste niente al di fuori dei bordi dell’inquadratura e dall’altro lo spettatore è inconsciamente certo che il mondo del film va ben oltre la finestra del campo.
Il punto di vista da cui si origina l’inquadratura è lo stesso punto di vista che assumerà lo spettatore. Se l’immagine immobile (quadro o fotografia) è caratterizzata dalla stabilità dello sguardo, data dall’unicità del punto di vista, all’immagine cinematografica è propria una totale mutevolezza, in cui il punto di vista slitta e si sposta in continuazione, ponendo lo spettatore all’interno di un’instabilità spaziale.


Il lavoro di raccordo delle varie inquadrature (montaggio) definisce lo spazio rappresentato “costruendolo” intorno allo spettatore, che viene così a trovarsi nel centro ideale della rappresentazione. Lo spazio cinematografico è dato proprio dalla convergenza dei vari punti di vista (cioè delle inquadrature), raccordati insieme in modo tale da dare allo spettatore quell’illusione di centralità. E’ come se lo spettatore potesse continuamente cambiare posto all’interno di questo spazio fittizio, trovandosi sempre in un punto ideale attorno a cui ruota tutto il film.
Tutto ciò avviene perché l’unificazione delle inquadrature e dei punti di vista, la ricostruzione dello spazio e delle azioni, insomma lo svolgersi dell’intera storia è sempre una rielaborazione mentale dello spettatore sollecitata dagli artifici della messa in scena. Tali artifici riescono a produrre nell’osservatore un effetto di realtà, che supera la frammentazione ontologica del dispositivo cinematografico, costituito da inquadrature discontinue.


Ma torniamo alla forza espansiva dell’inquadratura: l’immagine cinematografica si configura come sineddoche di qualcosa di più ampio ed implicito. Il compito del cinema classico è quello di occultare la sineddoche, cioè di produrre l’effetto trasparenza, assicurando, tramite le tecniche del montaggio invisibile, l’omogeneità e la continuità spaziale e non facendo percepire il frazionamento e la discontinuità data dai ritagli delle inquadrature.
Oltre che la continuità spaziale, lo spettatore è chiamato anche a costruire la continuità e l’integrità temporale della storia rappresentata, una storia che, come sappiamo, procede per ellissi, cioè per salti temporali (ancora delle assenze). Tutto ciò significa una cosa ben precisa: vedere è anche 'prevedere' 'ricostruire', 'immaginare'; è lo spettatore che completa il film, perché l’immagine cinematografica non è data a priori, ma si forma nella fruizione da parte dell'osservatore, chiamato continuamente a colmare vuoti, a integrare tra presenza e assenza, tra ciò che si mostra e ciò che si sottrae, a farsi controparte attiva del gioco.
Perché destino dello spettatore è quello di abitare una soglia, uno spazio instabile tra percezione e immaginazione, tra visibile e invisibile.



A questo link, un video in cui si parla di questo argomento:


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