Alfred Stieglitz, The Terminal (1893). |
Parlando di inconscio ottico (qui), abbiamo affrontato il discorso sull’eccedenza dell’immagine fotografica, cioè sulla sua capacità di mostrare e di far scaturire dal suo interno una ricchezza percettiva e di senso che va ben oltre la semplice riproduzione di un frammento di realtà. A partire da questa considerazione, è ormai anacronistico chiedersi se la fotografia rispecchi o meno il mondo esterno, interrogarsi sul grado di fedeltà con cui ce lo restituisce, sul rapporto tra realtà e apparenza: la fotografia è una struttura che consente al mondo di essere visibile, enunciabile, secondo l’apparenza che le è propria, che è diversa dall’apparenza che ci restituisce la nostra visione naturale, pur influenzandosi a vicenda. E le immagini permeano la nostra mente esattamente come l’ambiente che ci circonda, determinando il nostro senso della realtà, del tempo e il nostro rapporto con la memoria.
In questa serie di post cercheremo di elaborare ulteriormente questo concetto di eccedenza dell’immagine fotografica, facendo riferimento a un classico della teoria fotografica, La camera chiara di Roland Barthes.
Questo testo, che il semiologo scrisse poco prima di morire, affronta l’argomento in modo del tutto diverso rispetto a quello che caratterizzava i suoi testi precedenti, dedicati a quel “medium bizzarro” che è la fotografia. La direzione, infatti, è radicalmente cambiata: piuttosto che seguire la rigida impostazione semiotica che si sforza di costruire la legittimità della fotografia intesa come segno, con tutte le problematiche che ne conseguono in merito alla natura di questo segno e al suo rapporto con il referente (Indice? Icona? Simbolo? Segno naturale o convenzionale?, ecc.), Barthes preferisce una prospettiva diversa, che riconfigura la fotografia in quanto fenomeno. Egli, infatti, prende in considerazione non l’immagine in quanto possibile segno di cui indagare lo statuto, ma lo stesso fare fotografico, rispetto al quale individua tre pratiche fondamentali (fare, subire o guardare) alle quali sono preposti tre attori (i semiologi preferiscono il termine “attanti”) principali: l’Operator (cioè il soggetto che fa la foto), lo Spectrum (colui o ciò che viene ripreso nella foto) e lo Spectator (il soggetto che la guarda). Oggi, più che mai, noi possiamo fare quotidianamente esperienza di tutte e tre queste dimensioni, in quanto passiamo continuamente dall’uno all’altro di questi ruoli (fare foto, guardare quelle degli altri, essere fotografati a nostra volta).
Barthes prende in considerazione e approfondisce in particolare il ruolo dello Spectator, che è il soggetto che si costituisce in rapporto con l’immagine fotografica, e lo fa da un punto di vista soggettivo, a partire dai propri sentimenti e idiosincrasie personali, analizzando alcune fotografie per cercare di capire che cosa, di queste, lo attiri e lo interessi, mentre la maggior parte di esse gli suscita solo un sentimento di indifferenza. E’ questo l’interrogativo di fondo che si pone Barthes: che cosa, di una foto, anima il mio interesse? E questo interesse di che natura è? L’autore risponde facendo riferimento alla propria esperienza personale di Spectator: le fotografie che lo attirano sono quelle per lui significative, cioè quelle che possiedono un quid, una certa qualità che le rende presenti e interessanti alla sua coscienza o, come scrive Barthes, che sollecitano l’avventura (come la celebre The Terminal, di Alfred Stieglitz):
“Mi pareva così che la parola più giusta per designare l'attrattiva che certe foto esercitano su di me fosse la parola "avventura". La tale foto mi "avviene", la talaltra no […] In questo deprimente deserto, tutt'a un tratto la tale foto mi "avviene"; essa mi anima e io la animo. Ecco dunque come devo chiamare l'attrattiva che la fa esistere: una "animazione". In sé, la foto non è affatto animata, però essa mi anima: e questo è appunto ciò che fa ogni avventura.”
Koen Wessing, Nicaragua. L'esercito pattuglia le strade. 1979. |
E’ dunque l’avventura che “fa esistere la fotografia”. Interessanti sono le fotografie che ad-vengono, cioè che vengono incontro e si animano. Guardando un’istantanea di guerra (una foto di Koen Wessing scattata in Nicaragua) Barthes comprende che sono fondamentalmente due i tipi di interesse che lo animano.
Il primo è un interesse di tipo cognitivo, quello suscitato e supportato dal sapere e dalla cultura che ognuno di noi possiede. Una foto può stimolarmi in quanto stimola o accresce la sfera delle mie conoscenze: “Io vedo in funzione del mio sapere, della mia cultura”, dichiara l’autore. Questo è quanto Barthes chiama “studium”, che parte dal riconoscimento che l’atto del guardare non è mai neutrale, ma è determinato dal nostro sapere, dalla cultura di cui siamo intrisi, dalle nostre aspettative.
Barthes definisce ancora lo “studium” come “l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta di interessamento, sollecito, certo, ma senza particolare intensità”. Il piacere associato a questa modalità di fruizione sarebbe dell’ordine del to like, non del to love, che caratterizza invece l’altra modalità con cui si esplica il nostro interessamento alla fotografia: il “punctum”. Grazie allo studium, lo Spectator si costituisce come il destinatario dell’atto comunicativo (e quindi consapevole) dell’Operator. Il fruitore cerca di andare incontro alle intenzioni dell’autore, di mettersi dal suo punto di vista, di conoscere le idee dietro ad ogni scatto, trovare le intenzioni e le motivazioni dell'autore, i significati che egli ha inteso dare alle sue fotografie.
Scrive Barthes: “riconoscere lo Studium, significa fatalmente coincidere con le intenzioni del fotografo, entrare in armonia con esse, approvarle, disapprovarle, ma sempre capirle, discuterle dentro di me, poiché la cultura (da cui deriva lo studium) è un contratto stipulato tra i creatori e i consumatori.” E’ in questo modo che la fotografia assume le sue funzioni, culturali e sociali, perché diviene veicolo di trasmissione di un significato e di un messaggio.
Nel saggio La camera chiara non c'è traccia alcuna delle classiche categorie della semiotica, ma come non riconoscere in questo studium il livello che nei saggi precedenti Barthes aveva definito come “connotazione”? Le immagini fotografiche sono degli oggetti culturali che comunicano informazioni e che il fruitore interroga per ricavarne un sapere. La fotografia acquista i suoi significati culturali e sociali grazie al processo connotativo, che è quel processo tramite il quale un’immagine fotografica, che è sempre particolare e contingente, assume una valenza generale, un significato che è il prodotto di una negoziazione tra soggetti, tra l’Operator e lo Spectator.
Ma come avviene ciò? Qui Barthes prende in prestito da Calvino il termine “maschera” e afferma che “dal momento che ogni foto è contingente (e per ciò stesso fuori senso), la Fotografia può significare (definire una generalità) solo assumendo una maschera. Questa è la parola che giustamente Calvino usa per designare ciò che fa d’un volto il prodotto di una società e della sua storia.” La maschera rende l’individuo exemplum di una tipologia. Nello stesso modo la cultura di una società riveste la fotografia di una maschera, cioè la riconduce all’interno delle sue coordinate interpretative, ed è questo ciò che rende universale il particolare, cioè lo connota. E’ questa mascheratura a fare in modo che l’immagine diventi socialmente leggibile. Barthes fa l’esempio della fotografia di Richard Avedon, che ritrae William Casby, nella quale verrebbe messa a nudo l’essenza della schiavitù. Ma, per comprendere tutto ciò, ho bisogno di una cultura che metta a disposizione i parametri linguistici, cognitivi e iconografici di cosa sia la schiavitù. Solo all’interno di questa cornice interpretativa socio-culturale lo Spectator è in grado di leggere l’immagine. E quest’ultima, a sua volta, continua a parlare della cultura e della società, in un rapporto di reciprocità.
Richard Avedon, William Casby, born in slavery, Algiers, Louisiana, 24 March,1963. |
Nonostante siano passati tanti anni, il libro di Barthes continua ad essere letto e a suscitare reazioni ed emozioni. Esso è soprattutto ricordato per la questione del “noema” della fotografia, per l’accostamento di questa alla morte, per la nozione di “punctum”. Temi molto suggestivi, certamente.
Personalmente, però, trovo stimolante anche la definizione dell’attività dello Spectator come un’avventura, cioè un’esperienza che "anima" e coinvolge colui che guarda in modo completo, sia dal punto di vista intellettuale e cognitivo che emotivo e patemico. L'affermazione per cui guardare una fotografia sia insomma anche viverla nella propria intimità, affrontando un viaggio, essendo disposti perfino a farsi ferire da essa.
Punctum. L’immagine che ferisce
James Van der Zee, Familienporträt,1926. |
Se lo studium riguarda la dimensione socio-culturale della fruizione dell’immagine fotografica, il punctum, invece, riguarda quella strettamente personale ed emotiva.
Il punctum è ciò che “viene a infrangere (o anche a scandire) lo studium.” Se quest’ultimo era un’applicazione, una ricerca che implicava un movimento interessato verso l’immagine, il punctum, invece, è un qualcosa che “partendo dalla scena, come una freccia mi trafigge”; è una fatalità che pungola, che va a interrompere la piacevole contemplazione dello studium. Lo studium «è educato», scrive Barthes, ma «non è mai il mio godimento (jouissance) o il mio dolore».
“Sono talvolta attratto, ma ahimè raramente, da un particolare. Io sento che la sua sola presenza modifica la mia lettura [...] Questo particolare è il punctum, ciò che mi punge. Il punctum è puntura, piccolo buco, macchiolina, piccolo taglio – e anche impresa aleatoria. Il punctum di una fotografia è quella fatalità che in essa mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce)”.
Sally Mann, Untitled from the "At Twelve" Series, Jenny and the Bedspread , 1983-1985. |
Un dettaglio della fotografia può sconvolgere improvvisamente il lettore, distogliendolo dalla lettura codificata della foto e suscitando una reazione emotiva irriducibile a ogni logica discorsiva. Può trattarsi di qualsiasi cosa, un dettaglio puramente casuale e senza scopo, che non dipende né dalle intenzioni del fotografo né dalla natura del referente. Il punctum, infatti, non ha nulla a che fare con lo shock che possono provocare ad esempio alcune foto di reportage, che 'urlano ma non feriscono'.
Il punctum si nasconde spesso in un particolare insignificante, che però sembra ferire il contesto generale. Barthes cita una fotografia del 1926, che riproduce una famiglia nera americana in un interno. Lo studium è facilmente identificabile: «esprime la rispettabilità, il familialismo, il conformismo, l’indomenicamento, uno sforzo di promozione sociale per arrivare a fregiarsi degli attributi dei bianchi». Fin qui nulla di strano, fino a che lo sguardo dello spectator è colpito da un particolare che lo ferisce: una collana al collo di una ragazza, che riconduce Barthes ai suoi personali ricordi d’infanzia. E’ un dettaglio marginale, dunque, a ferire e tuttavia, questo suo carattere secondario si converte in primario una volta che esso sia stato riconosciuto. L'autore parla a questo proposito di “forza di espansione”: l’elemento che punge attiva una dinamica tale da riempire tutta la foto, oscurando il resto dell’immagine e proiettando lo spectator in una nuova dimensione fantasmatica. Il punctum è in fondo un elemento di instabilità che spinge l’immagine al di fuori dei propri confini, il punto di fuga dell’oggetto dalla sua condizione di oggetto: «a causa della sua collana, la negra vestita con l’abito della domenica ha avuto, per me, tutta una vita non legata al suo ritratto».
Diane Arbus, Girl with a pointy hood and white schoolbag at the curb, N.Y.C., 1957. |
Se la fotografia consegna il referente a un’immobilità mortifera, trasformandolo da soggetto in oggetto, anzi in “spectrum”, il punctum libera la fotografia dalla sua immobilità e crea dinamismo, un movimento che spinge verso una sorta di fuori-campo, che rimanda al di là dell’inquadratura, «come se l’immagine proiettasse il desiderio al di là di ciò che essa dà a vedere».
Riassumendo, il punctum è quel particolare contingente che appare nel cuore della rappresentazione e che, colpendoci come una ferita e una fatalità, è in grado di trasformare la struttura d’insieme. Così lo descrive Francesco Casetti: «l’irrappresentabile nel cuore della rappresentazione, in una serie di dettagli pronti a ristrutturare il disegno complessivo». Pur essendo un dettaglio, pertanto, esso è in grado di riempire la foto e di oltrepassarla, eccedendo il livello rappresentativo.
Il punctum è molto più di un semplice colpo di scena, che colpisce ma non dura. Proprio come un taglio esso lascia il segno: una sorta di cicatrice nella memoria. La differenza fondamentale tra studium e punctum è la medesima che sussiste tra interesse e amore. Molte fotografie sono interessanti ma non rimangono per tutta la vita, durano solo per il tempo della visione; altre, invece, le amiamo e continuiamo ad averle presenti come se fossero davanti a noi, anche quando chiudiamo gli occhi.
Henri Cartier-Bresson, Grecia. Cicladi. Isola di Siphnos. 1961. |
Il punctum è un elemento casuale, non voluto dal fotografo, e dipende, piuttosto, dal soggetto che guarda la foto. Pertanto non è possibile darne una definizione universale. Non tutte le fotografie hanno un punctum; inoltre esso è, in ogni fotografia che lo possiede, qualcosa di differente: qualcosa che dipende dalla contingenza di quell’immagine e dall’incontro tra questa e lo spettatore.
Il punctum è sempre inintenzionale, esso non fa emergere l’arte del fotografo, ma solo il fatto che egli era là; esso attesta in maniera necessaria l’assoluta contingenza dei fatti. Il punctum è sfrontato e irriverente; esso non si cura degli imperativi della morale o del buon gusto. Oltre che involontario, inesprimibile, «maleducato», questo dettaglio senza scopo è ‘insieme inevitabile, fatale’. Possiede cioè quel misto di necessità e contingenza che caratterizza il gesto artistico: è accaduto, mi è venuto incontro, non l’ho cercato, ma non potrebbe essere diverso; esso è già presente nella foto, viene riscoperto come un dono, una grazia non richiesta.
Vivian Maier, 1954. |
Non dipendendo dal fotografo, il punctum sfugge alle intenzioni di quello e, così facendo, sottrae la fotografia alla sfera della codificazione socio-culturale e la riconsegna alla propria contingenza, da cui era stata allontanata affinché assumesse un significato condiviso. Il punctum, come dettaglio inarginabile, imprevisto e non cercato, infrange la costruzione consapevole dell’immagine e la riporta al suo piano originario, quello in cui, prima di ogni codificazione, appare il referente nella sua contingenza. Il codice culturale passa in secondo piano a favore della componente più pienamente analogica della foto: la presentificazione della cosa stessa. Ecco, allora, ciò che mi colpisce, ciò che mi punge: la presenza del referente di fronte a me, qui e ora. Se le fotografie che appartengono alla sfera dello studium si mostrano in quanto fotografie, cioè artefatti, il punctum, invece, fa letteralmente scomparire la fotografia come medium lasciando emergere il referente. Il punctum, infatti, riporta in primo piano la realtà, piena di elementi contingenti, casuali, “fuori-fuoco”. Come nella vita quotidiana la realtà si impone, nonostante il nostro volere, nello stesso modo si impone nella fotografia, nonostante il volere del fotografo, che non può piegare totalmente a suo piacimento la materia che fissa nell’immagine.
Robert Frank |
Facile il rimando, a questo proposito, alla nozione benjaminiana di inconscio ottico, che riconosceva nell'immagine fotografica l'apparizione di uno spazio elaborato in modo inconsapevole, “quella scintilla minima di caso, di hic et nunc con cui la realtà ha folgorato il carattere dell'immagine” (W. Benjamin, “Breve storia della fotografia”).
Al di là di qualunque volontà del fotografo, al di là di qualunque connotazione e funzione culturale, la fotografia non può esimersi dal cogliere quello che c’è, e dal coglierlo nella sua totalità: anche l’eccedenza, che esula dai piani del fotografo. Presupposto di un tale ragionamento è il fatto che la fotografia sia una “rivelazione chimica dell’oggetto” e, pertanto, che essa sia fatta più dalla luce e dalla macchina che dal fotografo. In tutti i suoi aspetti, il punctum si presenta come eccedenza: rispetto alle intenzioni del fotografo e a quelle dello spettatore; rispetto all’oggetto, che raffigura; rispetto al campo dell’inquadratura, all’ambito chiuso di ciò che viene inquadrato. Questa eccedenza fa dire a Barthes che il punctum è maleducato, disobbediente, insieme ostinato e inafferrabile. Ed è anche ciò che lo induce a pronunciarsi, al termine del libro, contro una fotografia addomesticata e rinsavita, a favore di una fotografia ‘folle’.
Sia la nozione di ‘inconscio ottico’ di Benjamin che il ‘punctum’ di Barthes dimostrano che le fotografie possiedono appunto un eccedente visivo, che fa sì che esse non possano essere considerate un semplice rispecchiamento della realtà. “La fotografia – scrive Dario Mangano -, con tutti quei dettagli, non riproduce la realtà, la riscrive, mostrandoci cose che non avremmo mai percepito altrimenti. Non perché non fossero lì evidentemente, ma perché dovevano essere fissate sulla pellicola per diventare visibili. Se in teoria la fotografia riproduce la realtà, in pratica lavora sul modo che abbiamo di guardarla, facendocela rivedere” (D. Mangano, Che cos’è la semiotica della fotografia).
Dato l'argomento, ho scelto alcune delle foto che più mi "feriscono" a livello personale, la cui visione mi spinge con forza verso una dimensione che va al di là dell'immagine contenuta nella cornice.
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