mercoledì 5 dicembre 2018

Così lontano così vicino. Guardare l’immagine alle "giuste" distanze

Vincent van Gogh, Notte stellata, particolare, 1889, Museum of Modern Art, New York.

A che distanza occorre guardare un quadro per averne una fruizione adeguata? Si potrebbe rispondere che tutto dipende dalle dimensioni e dalla sua collocazione e che, inoltre, ogni opera richiede al suo fruitore una distanza appropriata. Se prendiamo, ad esempio, un dipinto impressionista o una tela di Van Gogh, ci accorgiamo subito che, se esaminate troppo da vicino, ciò che queste immagini ci restituiscono sono solo pennellate e macchie di colore. Per percepire in modo adeguato il soggetto e l’insieme della rappresentazione occorre porsi a una certa distanza.
Questo è l’assunto che viene generalmente accettato dalla critica tradizionale in riferimento a tutta la tradizione pittorica occidentale a partire dal Rinascimento. Il mio intento (anche con riferimento alla tesi di Arasse contenuta nel suo testo Il dettaglio. La pittura vista da vicino) è quello di affermare che una visione che voglia fruire l’immagine in tutte le sue dimensioni deve essere una visione oscillante, che non cerca solo la giusta distanza e il punto di vista che implicitamente il quadro assegna all’osservatore, ma che è disposta ad assumere una modalità molteplice e mobile, avanti e indietro dalla superficie, alternando la visione d’insieme al rischio di annaspare tra la materia e i piccoli dettagli.

E’ noto che la fruizione di un’immagine varia a seconda del contesto e delle modalità in cui questa viene presentata e lo spettatore ne entra in relazione. La percezione che elaboriamo di un quadro all’interno di un museo è alquanto diversa da quella che ne ricaviamo dalla visione di un catalogo o di una qualsiasi riproduzione. E questo non perché viene meno l’aura dell’opera, ma perché nella riproduzione (almeno allo stato attuale, ma la tecnologia sta facendo passi da gigante anche in questo senso) spesso si perdono alcuni tratti dell’opera originale, che non appartengono tanto al contenuto dell’immagine, ma si riferiscono al modo e ai mezzi materiali con cui è stata realizzata.
Se parliamo di dipinti di tipo “figurativo”, occorre distinguere tra un piano iconico (cioè la rappresentazione vera e propria) e un piano materiale. Ciò che di solito chiamiamo “immagine” coincide con l’oggetto rappresentato, che è un oggetto “irreale”, finzionale. Ad esempio, se un quadro raffigura un albero, quest’ultimo rappresenta il piano iconico, mentre l’insieme dei supporti e dei mezzi pittorici utilizzati per realizzarlo rappresenta il piano materiale. Ciò non significa che il piano rappresentazionale e quello materiale siano indipendenti; tuttavia lo spettatore non può fruire contemporaneamente di entrambi, in quanto le due dimensioni sono accessibili in forma alternativa: quando nel quadro vediamo la figura, non vediamo la materialità del supporto (o meglio la releghiamo su un piano di consapevolezza visiva “periferica”) e viceversa. L’immagine dipende, per la sua visibilità, dal sostrato materiale del quadro, ma entrambi i piani hanno proprietà e condizioni di apparenza e percezione radicalmente diverse. Ed è questa una condizione fenomenologica che caratterizza tutte le immagini.
In riferimento a ciò, Louis Marin afferma che nelle immagini coesistono due dimensioni, definite “trasparenza” e “opacità”.
La prima dimensione, quella che più immediatamente si offre alla percezione, è quella della trasparenza: noi vediamo nell’immagine gli oggetti rappresentati (se guardo una natura morta, vedo una mela, un grappolo d’uva, un piatto, ecc., come se fossero veri, lì presenti, collocati in uno spazio reale). E’ questa l’idea che ha caratterizzato l’arte occidentale dal Rinascimento alla fine dell’Ottocento: il quadro è una “finestra sul mondo” (una finestra è trasparente, appunto); quello che vediamo rappresentato è un pezzo di mondo, uno spazio reale, tridimensionale, popolato da oggetti, personaggi, ecc. Questo assunto coinvolge un’idea dell’arte come mimesis, cioè come qualcosa che riproduce e sostituisce un oggetto reale.
Ogni rappresentazione, tuttavia, è sì trasparente e transitiva in quanto rende presente qualcosa di assente, ma al tempo stesso è opaca e riflessiva in quanto esibisce se stessa come artificio, mostrando la propria struttura, rendendo palesi e visibili le proprie condizioni materiali di possibilità. Un dipinto che raffigura una mela è trasparente in quanto “rappresenta” (mimesis) l’oggetto “mela”, rendendo illusoriamente presente un qualcosa che appartiene al mondo reale con un effetto di tridimensionalità; è altresì opaco in quanto, oltre alla mela, “presenta” se stesso come quadro, cioè come elemento materiale con determinate caratteristiche: il piano bidimensionale, la trama della superficie, la cornice che lo racchiude, le marche autoriali come i tratti di pennello o la firma. Questa dimensione, che Marin definisce “opacità”, consiste nella consapevolezza che ciò che ci troviamo davanti non è un pezzo di mondo, ma un quadro, un artificio umano che simula, più o meno abilmente, l’aspetto del mondo. Non una finestra trasparente, dunque, ma una superficie opaca. E’ la dimensione di opacità che costituisce il presupposto necessario per ogni riflessione sulla pittura, sulla sua tecnica e sul suo linguaggio, cioè per ogni discorso metapittorico.

Queste due dimensioni convivono sempre e necessariamente in un quadro. Ma, alcune volte, gli elementi di opacità sono particolarmente evidenti e non permettono che la trasparenza occulti la materialità della pittura e che la percezione si lasci sopraffare dall’illusione mimetica. Questi elementi sono, ad esempio, le tracce delle pennellate troppo marcate e materiche, gli impasti, gli strati, i grumi o gli schizzi di colore (che sono anche indizi della postura corporea ed emozionale dell’autore), i difetti o errori di raffigurazione o le intenzionali incompiutezze, che mettono in evidenza la natura testuale del dipinto e pongono l’attenzione dello spettatore sul quadro come artificio e, quindi, come opera di un autore.
Ma gli elementi di opacità sono visibili per lo più a una distanza ravvicinata.
Il dispositivo tradizionale della rappresentazione, che persegue l’illusione mimetica, vuole che un quadro sia fruito ad una certa distanza. Una volta valicato questo limite, la vicinanza al quadro mette la visione in scacco: l’accesso al dettaglio corrisponde all’annullamento della visibilità, dove la materia risulta staccata dalla forma; la realtà perde la sua solidità, la sua consistenza, divenendo macchia indistinta. Se la visione da lontano trasforma la rappresentazione pittorica in illusione, da vicino, invece, lo sguardo ci mette in presenza della materialità sensibile dei mezzi pittorici, della veemenza delle pennellate, dei grumi, dei graffi, degli schizzi. A distanza, la pittura si fa immagine trasparente, producendo un effetto di realtà; da vicino le forme si fanno via via sempre più astratte e incomprensibili e l’immagine ridiventa pittura, opaca materia. Per tenere insieme forma e materia, dimensione trasparente e dimensione opaca senza che l'una prevalga sull'altra, occorre che lo sguardo assuma una mobilità oscillatoria.
Anche Arasse ha smontato il principio della visione a distanza, dimostrando che all’interno di ogni quadro, annidati tra pieghe più o meno nascoste, vi sono dei dettagli, dei segreti, che sfuggono all’ordine unitario dell’opera, arrivando perfino a sovvertirne il senso consolidato. E anche questi piccoli particolari possono essere percepiti solo da una visione ravvicinata.
Per fruire dell’immagine nella sua completezza non basta trovare la giusta distanza al fine di cogliere l’unità compositiva e la chiarezza del soggetto. Ciò che noi “vediamo” in un quadro è molto diverso da quel che vediamo in senso letterale: i nostri occhi percepiscono colori, linee, macchie, che però elaboriamo in forme compiute, dando loro una configurazione e un significato. Privilegiare la dimensione trasparente di un’opera significa mutilarne la percezione, bloccandola al livello della simulazione mimetica o, come dice Arasse, a una fruizione parziale che tralascia i dettagli più reconditi. Una visione che permette di addentrarsi più in profondità e di rivelare più aspetti dell’immagine, che consente di liberarsi dal modello “egemonico” del referenzialismo mimetico e anche dalla pretesa di dover cogliere nella rappresentazione un oggetto univoco e un univoco significato, è quella che tiene conto sia del piano materiale che di quello iconico e che impone al proprio sguardo di avvicinarsi alla superficie, abbandonando quel punto di vista unico posto a distanza, che ci dava l’illusione di avere il controllo totale dell’opera, per correre il rischio anche di smarrirsi tra i solchi e i vortici delle pennellate e nella materia informe.
Più che assumere la giusta distanza, meglio provare punti di vista diversi, in particolare quello che arrischia la prossimità con la superficie, per recuperare l'ambivalenza di ogni immagine, il suo essere contemporaneamente trasparente e opaca, rappresentazione e materia.

Uno sguardo mobile è, ad esempio, quello richiesto da un artista contemporaneo, Andreas Gursky, che adopera il mezzo fotografico per realizzare immagini monumentali, caratterizzate da piani schiacciati e bidimensionali, composizioni oscillanti tra il minimalismo e l’affollamento caotico, ripetizione di elementi e di architetture, impressionante ricchezza di dettagli, eliminazione dell’aneddotica, colori saturi ed elaborazione digitale che mette insieme vari pezzi ottenuti da più scatti, realizzando una visione multioculare.
La visione delle sue opere ha un effetto straniante, che attira lo spettatore e nello stesso tempo lo respinge: a uno sguardo da lontano, le grandi fotografie sembrano delle immense tele di colore, tendenti all’astratto; a uno sguardo più ravvicinato si colgono sterminati dettagli, realistici e minuziosi, inesauribili da guardare. Osservate a distanza, le immagini appaiono come strutture grafiche ordinate; avvicinandosi, si rivelano invece una coacervo sovrabbondante e caotico di segni e di oggetti.

Andreas Gursky, 99 cent, 1999.

Le immagini di Gursky non hanno un centro e dei margini, ma seguono delle trame più o meno omogenee, lungo linee che si sviluppano per lo più in orizzontale. Come gli artisti rinascimentali, l'autore tedesco si confronta con le dimensioni della parete. Se nel Rinascimento però, con l’utilizzo della prospettiva centrale, allo spettatore era affidata una stabile posizione e un punto di vista ben preciso esterno all’opera, dal quale poteva contemplare e dominare uno spazio unitario e razionalmente ordinato, le immagini di Gursky invece, con il loro appiattimento bidimensionale, provocano nello spettatore una sorta di cortocircuito spiazzante. Difficile riuscire a coglierle nel loro insieme attraverso un percorso unitario dello sguardo. Tali fotografie creano piuttosto dei micro-mondi, o meglio, degli ultra-mondi, delle immagini globali che racchiudono un unico universo, un microcosmo costruito a partire dall’assemblaggio seriale di elementi individuali.
Guardando una fotografia come 99 cent, si potrebbe pensare a una rielaborazione, in chiave contemporanea, del sublime romantico. Se quest’ultimo, nelle diverse accezioni di sublime matematico e sublime dinamico, incuteva terrore perché generava nello spettatore un senso di impotenza e di finitudine, in questa fotografia si manifesta come disagio, incapacità di dominare la mole insostenibile dei dettagli, che emergono non a distanza (come nei quadri del Romanticismo di primo Ottocento), ma a uno sguardo ravvicinato, definendo la multiforme e inafferrabile condizione dell’uomo contemporaneo, fagocitato dalla moltitudine seriale, caotica e ordinata al tempo stesso.


1 commento:

  1. l'articolo è molto interessante e ricco di spunti di riflessione. Tuttavia l'accesso a quello "sguardo mobile" auspicato quando si ha a che fare con un visivo è, io credo, limitatissimo, dal momento che nella maggior parte dei casi noi non abbiamo accesso all'opera del vivo ma attraverso altri medium, che vanno dal catalogo alla riproduzione vista su schermo (dal monitor del pc al display del cellulare). Dobbiamo insomma "subire" l'iconografia già decisa a monte da chi ha preso quello scatto che riproduce quella tal opera, pertanto io credo sia impossibile attuare, sotto questo aspetto, una visione alla giusta distanza. Perché cosa fosse la giusta distanza è già stato determinato.

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