lunedì 24 settembre 2018

Personaggi del mito e della storia - I CENTO VOLTI DI PROMETEO



Prometeo è il Titano che, secondo la mitologia greca, fu incatenato da Zeus alle rocce del Caucaso per aver osato rubare il sacro fuoco dell’Olimpo per donarlo agli uomini. Innumerevoli sono le metamorfosi che questo personaggio ha subito storicamente, in letteratura e nelle diverse forme d’arte. Da Esiodo a Eschilo, da Ovidio a Boccaccio, da Voltaire a Rousseau, da Goethe a Shelley, da Marx a Nietsche, da Camus ai nostri giorni, Prometeo non cessa di rinnovare la sua fiamma accesa nel nostro immaginario. Nella storia della cultura occidentale, egli è rimasto simbolo di ribellione e di sfida ai limiti imposti dal destino e dall’autorità, e così anche metafora della conoscenza e del pensiero libero nonché dello spirito di iniziativa dell’uomo. Ora dio benefattore dell’umanità, patrono delle arti e delle scienze, ora invece responsabile dell’allontanamento del genere umano da uno stato di grazia iniziale; ora ribelle Lucifero, ora messianico salvatore; emblema della razza ariana e simbolo di riscatto per le masse oppresse: si può dire che nessun altro mito dell’antichità abbia avuto connotazioni così versatili e ambivalenti.


Il nome Prometeo in greco significa “colui che riflette prima”. Saggezza e intelligenza sono infatti le sue doti principali. Egli è il titano dagli occhi splendenti e scrutatori, in grado di vedere lontano.
Ma chi sono questi titani? Essi sono delle “divinità” antichissime, precedenti gli dei olimpici, e rappresentano le forze primordiali dell’universo. Prometeo è un titano di seconda generazione, figlio di Giapeto e di Climene, figlia del titano Oceano. La sua particolarità è che gli stanno particolarmente a cuore gli uomini, mentre è in contrasto con il dio supremo, Zeus, del quale rappresenta in un certo senso l’antitesi.
Secondo alcune versioni del mito, Prometeo è colui che plasmò l’uomo con l’argilla, lo animò con il fuoco divino e, in seguitò, gli donò le doti dell’intelligenza e della memoria che aveva rubato ad Atena. Egli dimostrò la sua amicizia per gli umani in altre occasioni: durante una riunione tra dei e uomini a Mekone fu portato un enorme bue sacrificale, del quale metà doveva spettare a Zeus e metà agli uomini. Il padre degli dei affidò l’incarico della spartizione a Prometeo che, ammazzato l’animale, lo fece a pezzi e lo divise in due parti: in una mise insieme le parti di carne migliori, nascondendole però sotto la disgustosa pelle del ventre dell’animale, nell’altra pose le ossa dissimulate in un lucido strato di grasso. Fatte le porzioni, invitò Zeus a scegliere la sua parte, il resto andava agli uomini. Zeus accettò l’invito, finse di non accorgersi dell’inganno e prese la parte grassa che celava le ossa, ma la sua vendetta si abbatté sugli umani, che persero la loro immortalità, divenendo creature mortali. Per punire lo sfrontato raggiro di Prometeo, inoltre, Zeus tolse il fuoco agli uomini e lo nascose. Prometeo quindi intervenne rubandolo e scatenando nuovamente le ire del padre degli dei. Quest’ultimo dapprima ordinò a Efesto di costruire una donna bellissima, di nome Pandora, la prima del genere umano, che venne mandata in dono al fratello sciocco di Prometeo, Epimeteo, e sappiamo bene l’esito drammatico che ebbe questa vicenda. In secondo luogo Zeus fece incatenare il titano amico degli uomini sulla parte più alta e più esposta alle intemperie del monte Caucaso, dove un’aquila l’avrebbe tormentato in un eterno supplizio. Il rapace infatti ogni giorno si nutriva del suo fegato, che però ricresceva di notte, fino a quando Eracle, inviato dallo stesso Zeus, sarebbe intervenuto a liberare il titano dalle sue catene.
Nella Teogonia di Esiodo, il Titano incarna il sentimento della hybris, della tracotanza, della sfida alla divinità. Prometeo, però, non rivendica a Zeus un potere, non mette mai in discussione l’ordine gerarchico da lui costituito, ma semplicemente rivendica la sua indipendenza di pensiero e di giudizio. Sebbene il mito fosse diffuso in molte parti del bacino indoeuropeo, solo nella versione greca la hýbris di Promētheús assume un senso etico, e il suo incatenamento non viene visto come un atto di giustizia volto a ricomporre l’ordine cosmico violato, ma come un atto ingiusto perpetrato da un dio vendicativo. Se più a oriente, ad esempio in Mesopotamia, l’ordine stabilito dagli dèi era visto come un’imposizione indifferente al destino umano, e l’unico tipo di rapporto tra uomini e dèi non era di natura etica, ma quasi di schiavitù, in Grecia (e da lì poi in tutto l’Occidente), invece, proprio grazie a Prometeo, il rapporto dell’uomo con dio si è poi trasformato in una relazione contrattuale.

L’azione di Prometeo, in antitesi a quella di Zeus, favorevole all’uomo l’una, avversa l’altra, è all’origine della condizione esistenziale umana, destinata continuamente al perenne alternarsi di gioia e tormento, progresso e caduta. Prometeo è il responsabile indiretto della fine dell’immortalità dell’uomo, ma nello stesso tempo è simbolo del suo riscatto, dell’energia, dell’intelligenza, della forza di volontà che fanno la grandezza dell’umano e lo spingono a elevarsi dalla sua miseria. Quello di Prometeo è insomma il mito dell’uscita dallo stato di natura e delle origini della civiltà e del progresso.
Le rappresentazioni pittoriche e scultoree di Prometeo sono innumerevoli. Parte di esse evoca il momento in cui il titano plasma l’uomo o quello del furto del fuoco; la maggior parte invece si sofferma sul supplizio del dio incatenato alla roccia e divorato dall’aquila; un numero minore si concentra sulla liberazione del titano da parte di Eracle.

Al penultimo tipo appartiene questa pittura vascolare a figure nere attribuita al Pittore di Arkesilas, nome convenzionale con cui si indica un ceramista greco antico, attivo in Laconia tra il 565 e il 555 a.C.

Si tratta di una coppa, di una kylix, conservata al Museo Gregoriano Etrusco, in cui sono raffigurati Prometeo e Atlante (l’unica rappresentazione conosciuta in cui sono presenti entrambi i titani), ciascuno rappresentato nel momento cruciale del proprio supplizio. Il primo, sulla destra, è legato strettamente ad una colonna dorica; l’aquila tortura col becco il suo torace, da cui stillano gocce di sangue che formano una pozza sul terreno.

Prometheus, Atlas e Ethon, Pittore di Arkesilas, 565-550 a.C., Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco

Questo bassorilievo scolpito proviene invece dal Sebasteion, un complesso templare dedicato al culto imperiale, situato ad Aphrodisias (Turchia) e composto da un propylon, un tempio e due portici. Il pannello in questione proviene dal Portico Sud, ornato da pannelli scolpiti con una serie di ritratti imperiali e con un ciclo mitologico. Di quest’ultimo fa parte il rilievo in questione, che raffigura il momento della liberazione di Prometeo ad opera di Eracle. Al centro della scena, il Titano ha le braccia legate ad una roccia, mentre Eracle, coperto dalla pelle del leone nemeo, suo tradizionale attributo, si appresta a liberarne il braccio sinistro. Sulla sinistra, l’aquila, strumento di tortura mandato da Zeus, giace ormai morta, uccisa da Eracle. Qui Prometeo non è più avvinto a una colonna dorica (della quale parla Esiodo nella Teogonia), ma a uno sperone roccioso, introdotto da Eschilo nel suo Prometeo incatenato, che diverrà un elemento costante nell’iconografia del mito.

Prometeo è liberato da Eracle, 150 a.C. ca., Aphrodisias, portico sud del Sebasteion - Public Domain via Wikimedia Commons


Esiste poi un gruppo di sarcofagi romani, alcuni dei quali conservati al Louvre, datati al III secolo d.C., decorati con scene raffiguranti la plasmazione del primo uomo ad opera di Prometeo.  Se il momento specifico della creazione è presentato in maniera generalmente concorde, ogni sarcofago presenta però dei personaggi significativi che donano ad ogni scena un significato peculiare. Il titano è generalmente mostrato seduto, col sembiante di un maturo saggio barbuto, mentre guarda la sua opera ultimata: una statuetta di forma umana, posata sulle ginocchia o su un piedistallo. Il suo creatore in una mano regge solitamente uno strumento usato per modellare l’argilla, della quale è ricolmo un cesto ai suoi piedi. Accanto si trova Minerva, ornata di elmo, che posa una farfalla sulla testa dell’uomo per donargli l’anima (o l’intelligenza, secondo alcune interpretazioni).

ll ruolo di plasmatore del primo uomo non caratterizza il mito di Prometeo fin dall’antichità, ma si attesta in un’epoca più tarda (è presente, ad esempio, nel Protagora di Platone), per divenire centrale nelle fonti tardoclassiche e medioevali, nelle quali peraltro viene fortemente sottolineato l’intervento benevolo della dea Atena, che concorre a infondere la vita o le doti dell’intelletto all’uomo plasmato dal titano.

Prometeo plasma il primo uomo, animato da Minerva, Sarcofago con mito di Prometeo, III sec, Roma, Musei Capitolini - Public Domain via Wikimedia Commons


Generalmente la fronte di questi sarcofagi è popolata da numerosi personaggi che concorrono ad esprimere una profonda riflessione sul destino e sul senso della vita, tematica comune a questi monumenti e appropriata alla loro destinazione funebre. In questi bassorilievi sono infatti presenti anche le tre parche, ciascuna caratterizzata dal proprio attributo, chiamate a regolare inesorabilmente il destino dell’uomo plasmato da Prometeo.

Questa fronte che vediamo appartiene a un sarcofago, rinvenuto nel XVI secolo, ad Alyscamps, ad Arles, nella cripta della chiesa di Saint-Honorat, dove serviva da sepoltura per il vescovo Ilario, morto nel 449. Questo tipo di rappresentazioni testimonia come, sin dai primi secoli, taluni autori cristiani giungano a parlare di Prometeo come di una prefigurazione cristologica all’interno della religione greca. Il Prometeo incatenato di Eschilo è visto come la divinità che si sottopone all’estremo sacrificio per amore degli uomini, che come Cristo, immobilizzato e agonizzante, sulla cima di un monte offre il proprio costato al carnefice.

Prometeo plasma l'essere umano, sarcofago romano, ca 240 a.C., Parigi, Louvre - Public Domain via Wikimedia Commons


Creazione dell'essere umano, marmo, III secolo d.C., Parigi, Louvre - Public Domain via Wikipedia Commons


Tutto l’Alto Medioevo abbraccia questa variazione interpretativa, che testimonia l’avvenuta cristianizzazione del mito prometeico, basata sulle affinità presenti tra il racconto mitico e quello biblico. Per questo motivo il Medio Evo si è concentrato sul tema della creazione dell’uomo, a scapito degli altri episodi del mito, come il supplizio del Titano, la cui aperta ribellione a Zeus mal si conciliava con la visione provvidenzialistica di un cosmo giusto governato da Dio propria dell’epoca.

Ancora nel Cinquecento, nelle interpretazioni del Parmigianino, del Guercino, della Scuola del Sansovino, Prometeo è soprattutto il creatore dell’uomo e il dispensatore di conoscenza.

Questi due pannelli dipinti da Piero di Cosimo sviluppano l’intero mito prometeico attraverso gli episodi più significativi, tra i quali però è dominante quello della creazione dell’uomo. La presenza di molti elementi oscuri tuttavia (uno tra tutti la scimmia che si arrampica sull’albero, forse allegoria della “imitazione”, che caratterizza il brutto lavoro di Epimeteo, in basso a destra, e che è agli antipodi della “creazione” di cui è capace Prometeo), non ha ancora permesso delle letture concordi dell’opera.

In questo caso il titano non è connotato tanto come creatore dell’uomo, bensì come scultore, come indicano la spatola che tiene in mano e il canestro con gli attrezzi a terra, nonché la statua posta in posizione dominante su di un piedistallo al centro della scena (che sembra citare il David di Michelangelo). Prometeo è quindi emblema dell’artista, la cui opera compie nell’arte ciò che Dio ha realizzato con la creazione del mondo. Quest’opera è espressione della centralità dell’arte e dell’alto valore ad essa dato all’interno del pensiero fiorentino della fine del Quattrocento, in uno sforzo per emancipare la produzione artistica dalla pratica artigianale e renderla un’arte liberale a tutti gli effetti.

Piero di Cosimo, Prometeo plasma l'uomo, I quarto del XVI sec.

Piero di Cosimo, Storie di Prometeo, 1515-20 ca. Strasburgo, Musée des Beaux-Arts

Tra la fine del Cinquecento e per tutto il Seicento, l’iconografia dominante del mito è quella del supplizio del corpo di Prometeo da parte dell’aquila, come si vede in questo dipinto del pittore manierista spagnolo Gregorio Martinez. In questa serie di opere, il pathos ha soppiantato il senso del tragico. Si enfatizza soprattutto l’espressione di sofferenza del viso e la tensione cui è sottoposto il corpo martoriato. La maggior parte di esse sono caratterizzate dal dettaglio crudo e truculento della ferita sanguinolenta che il rapace infligge al torace del titano.


Gregorio Martinez, Prometeo encadenado, 1590, Museo Nacional del Prado, Madrid - Public Domain via Wikimedia Commons


Questa tela di Rubens è una delle più rappresentative. Essa raffigura il momento del supplizio con estrema crudezza, sottolineando il dolore terribile sopportato da Prometeo attraverso l’espressione quasi deformata del volto e la contrazione a cui il corpo è sottoposto, le dita delle mani fermamente serrate. Ancorato per mezzo di catene ad uno sperone roccioso che allude al Caucaso, il Titano è sdraiato al suolo in una posizione scorciata, con la testa rivolta verso lo spettatore, e sembra quasi essere sospeso nel vuoto. Una grande aquila dalle ali spiegate gli artiglia il ventre e la testa (si noti il particolare dell’artiglio che poggia sulla fronte corrugata dal dolore), mentre con il becco estrae da una ferita aperta un pezzo di fegato. L’insopportabilità del dolore è magistralmente espressa soprattutto dal linguaggio del corpo, dalla gamba destra che si solleva e dal busto che si contorce nello spasimo.

Peter Paul Rubens, Prometheus Bound, 1611-18, Philadelphia Museum of Art - Public Domain via Wikipedia Commons


Con il dipinto di Rubens, questa tela di Baburen condivide la posizione supina del titano, con la testa reclinata all’indietro e rivolta verso lo spettatore.

Qui è raffigurato il momento in cui il dio Vulcano sta fissando la catena alla pietra. L’aquila con le ali spiegate è lì in attesa di compiere il suo pasto raccapricciante. L’espressione di dolore del Titano non è legata alla rappresentazione dello strazio provocato dalla tortura del rapace, ma esprime soprattutto incredulità e senso di impotenza, sentimenti resi attraverso i particolari della fronte corrugata e della bocca aperta, ma non contorta, e delle mani, chiusa a pugno quella già bloccata dalle catene, rigidamente aperta quella ancora libera.

Alla preparazione del supplizio assiste Mercurio, il cui sorriso divertito provoca un forte stridore con la scena. Un altro aspetto singolare è dato dall’ambientazione: è evidente infatti che l’azione non si svolge sul monte Caucaso come vuole la tradizione, ma in un ambiente chiuso che sembra essere la fucina di Vulcano stesso.

In basso a destra sono visibili un goniometro, un compasso ed alcuni libri, una chiara allusione alle scienze e alle arti trasmesse agli uomini attraverso il fuoco, secondo il racconto del Prometeo incatenato di Eschilo. La tortura colpisce quindi il benefattore ed il civilizzatore dell’umanità, colui che sfidò Giove per trasmettere il fuoco della conoscenza, la quale costituisce la grandezza dell’uomo.

Dirck van Baburen, Vulcano incatena Prometeo, 1623 - Public Domain via Wikipedia Commons


Anche in questo dipinto di Jacob Jordaens è presente Mercurio. Entrambe le opere derivano infatti da una precisa fonte testuale, il dialogo Prometheus sive Caucasus di Luciano di Samosata, testo caratterizzato da un intento ironico e satirico.

Il dialogo avviene proprio tra gli dei Vulcano e Mercurio e il titano ed è ambientato sulle pendici del monte Caucaso, dove Prometeo è stato condotto per essere incatenato. Questi si dimena e supplica gli altri di liberarlo, ma Vulcano è impassibile, mentre Mercurio lo accusa dei suoi imbrogli e del furto del fuoco. Il titano, allora, dopo aver rivolto una furiosa invettiva contro il padre degli dei, così crudele nei confronti dei più deboli come gli uomini, e contro la lussuria e la superbia di tutti gli dei che non pensano ad altro che godere delle sofferenze altrui, compie la sua apologia dell’essere umano, riconosciuto in tutta la sua dignità e grandezza, unico testimone della magnificenza dell’universo grazie alla sua capacità di contemplazione che lo differenzia dalle bestie.

Jacob Jordaens, Prometheus (1640). Cologne - Public Domain via Wikipedia Commons


In questo tipo di dipinti, centrale è la rappresentazione del dolore del Titano, resa attraverso il contorcimento del corpo e la deformazione del viso. Prometeo diviene così l’emblema del dolore insopportabile e l’espressione della sofferenza diventa strumento di rivelazione estetica del corpo. Le rappresentazioni acquistano sempre maggiore dinamicità e teatralità e la bellezza si fonde con l’orrore.

Theodoor Rombouts (1597-1637) - Prometheus - Public Domain via Wikipedia Commons


Il Barocco enfatizza senz’altro gli aspetti più raccapriccianti e macabri del mito. Nei dipinti del genovese Gioacchino Assereto, la pateticità della rappresentazione è sottolineata dal volto estremamente caricato di dolore, con la bocca spalancata in un urlo e gli occhi serrati.

Gioacchino Assereto, La tortura di Prometeo, XVII sec. - Pinterest


Gioacchino Assereto, Prometeo, XVII sec. - Pinterest


Le quattro opere successive sono di alcuni artisti che appartengono alla scuola pittorica napoletana del Seicento, erede della lezione del Caravaggio, che proprio a Napoli aveva soggiornato tra il 1607 e il 1610.

Come si può notare, il vero protagonista di questi dipinti è il corpo del titano, la tensione dei nervi, la tensione dei muscoli, il modo in cui le membra si tendono nello spazio, un modo che in questa celebre tela di José de Ribera diventa estremamente dinamico e teatrale grazie ai forti contrasti luminosi.

José de Ribera, Prometeo, prima metà XVII sec.

La rappresentazione del momento drammatico del supplizio di Prometeo si fa sempre più cruda e brutale. Nel dipinto di Salvator Rosa si vedono addirittura le interiora, che un’aquila particolarmente lugubre e dall’aspetto malefico estrae dal torace completamente squarciato del titano, il cui viso è deformato in un’espressione di indicibile sofferenza. Anche qui, come in altri dipinti già analizzati, il pittore fa ricorso alla raffigurazione di una gamba sollevata, di una mano stretta a pugno e dell’altra distesa e rigida per enfatizzare il tormento fisico.

Salvator Rosa, The Punishment of Prometheus, 1648-1650, Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Corsini

Questa tela di Mattia Preti raffigura invece Eracle che libera Prometeo. Qui è evidente la definizione delle forme tramite un contrasto chiaroscurale di origine caravaggesca.

Mattia Preti, Hercules frees Prometheus, 1650-56 - Pinterest


In questo dipinto, attribuito a Luca Giordano (non il solo che l’artista dedicò a questo mito), il Titano è rappresentato come un giovane privo di barba, le mani alzate al di sopra della testa come a proteggersi dalla tortura, contro il solito cielo lugubre e minaccioso

Prometheus - Luca Giordano (1660) - Public Domain via Wikimedia Commons


Questo dipinto attribuito a Jean Cossiers, un collaboratore di Rubens, rappresenta il furto del fuoco da parte di Prometeo, momento molto antico del mito, ma scarsamente rappresentato in epoca classica. Il Titano occupa l’intero spazio della tela, è coperto da un drappo rosso e nella mano destra stringe una fiaccola accesa con il fuoco appena rubato dall’Olimpo.

Questa variante interpretativa del mito presenta una notevole originalità, ravvisabile soprattutto nello sguardo acceso del titano, nella sua espressione quasi torva e nel suo fare furtivo.

Jan Cossiers, Prometeo ruba il fuoco, 1637, Madrid, Museo del Prado - Public Domain via Wikipedia Commons


Quest’opera dello scultore francese Nicolas-Sébastien Adam è considerata uno dei capolavori della scultura del XVIII secolo. L’opera, che denota l’influsso del barocco italiano, per il virtuosismo e la forza espressiva delle forme, presenta dei dettagli anatomici realizzati con estrema cura e precisione, come le vene rigonfie delle braccia e dei polpacci.

È evidente il richiamo al gruppo scultoreo del Laocoonte, una delle opere antiche all’epoca di certo più ammirate, ma qui il corpo è molto più sbilanciato e tutto l’insieme esprime un’enfasi e un’esasperazione del pathos lontane dalla moderazione classica, anche grazie all’azione della luce incidente sul corpo e alle profonde ombre che lo scultore realizza tra le pieghe del panneggio.

Nicolas-Sébastien Adam, Prometeo incatenato, 1762, Parigi, Louvre - Public Domain via Wikipedia Commons.


Quella del pittore tedesco Füger è una portentosa versione neoclassicista del mito, che in una singola opera unisce gli ideali estetici di pittura e scultura. La figura di Prometeo occupa quasi tutto il piano del quadro, con le membra modellate in colori caldi e luminosi; ai suoi piedi si trova un corpo umano inerte, senza vita, formato di argilla. Manca ancora il calore del fuoco divino che gli dia colore e vita. L’emozione dell’immagine deriva dal contrasto cromatico, ma anche dalla raffinatezza con cui sono modellate entrambe le figure.

Heinrich Friedrich Füger, Prometeo ruba il fuoco, 1817 - Public Domain via Wikipedia Commons

Il Romanticismo è caratterizzato da un’inesauribile tensione verso l’infinito, la quale si manifesta anche come “titanismo”, un atteggiamento di sfida e ribellione (nei confronti di forze soverchianti, come la natura, la storia o il destino) accompagnato sempre, però, dal sentimento della sconfitta di chi è consapevole dell’impossibilità di trascendere completamente le barriere del finito, di chi intraprende una lotta impari contro i limiti della condizione umana. Il titanismo è detto anche “prometeismo” perché i romantici personificano questo atteggiamento di sfida nel mitico titano, il quale aveva avuto l’ardire di rompere l’ordine del mondo imposto dagli dei per donare agli uomini il fuoco. Se il Rinascimento e l’Illuminismo avevano sottolineato soprattutto gli aspetti umanistici del mito, i romantici tendono a vedere in Prometeo il simbolo della ribellione in quanto tale (si pensi ad esempio alla lirica giovanile Prometheus di Goethe e al dramma Prometheus Unbound di Percy Bisshe Shelley).

Nel quadro di Cesar Lair, con il cielo come sempre gonfio di nubi, la postura di Prometeo, che porge stoicamente il fegato all’aquila, il volto accasciato su una spalla, gli occhi chiusi, la bocca lievemente piegata in una smorfia di contenuto dolore, sembrano alludere a quell’atteggiamento eroico, del ribelle indomito sopraffatto da forze immani, insito nello streben e nella Sehnsucht dei romantici.

Jean Louis Cesar Lair, The torture of Prometheus, 1819 - Public Domain via Wikipedia Commons


Il mito di Prometeo ha affascinato e ispirato artisti di tutte le epoche. Nella seconda metà dell’Ottocento il pittore parigino Gustave Moreau, precursore del Simbolismo, ne dà anch’esso un’interpretazione del tutto originale. La sua pittura non illustra, ma pone degli interrogativi, invita ad andare oltre, a trovare dei significati nascosti. Le sue rappresentazioni del mito tralasciano l’atmosfera patetica o eroica dei periodi precedenti, impregnandosi di sacro e di mistero. Obiettivo della sua arte è infatti scandagliare l’animo umano e la sua spiritualità.

In questo dipinto è evidente il sincretismo che caratterizza la sua opera, che fonde insieme il mito con il cristianesimo, l’arte occidentale con richiami a quella orientale. Ritroviamo la colonna dorica, presente nella Teogonia di Esiodo, mentre un avvoltoio ha preso il posto dell’aquila sacra a Zeus. Prodigiosa l’abilità di Moreau di rendere la vertiginosa altezza del luogo e la plasticità del corpo del titano. Il suo sguardo, intenso come quello di un profeta e che rivela il suo rimando iconografico alla figura del Cristo, guarda lontano, oltre il mondo del visibile.

Gustave Moreau, Prometeo, 1868 - Public Domain via Wikipedia Commons


Spicca per la sua originalità l’interpretazione del pittore simbolista Arnold Böcklin, il quale raramente nelle sue opere, di frequente ispirate ai miti classici o a soggetti letterari, si attenne alle rappresentazioni tradizionali e amò inserire all’interno della narrazione elementi spiazzanti, capaci di alterare il significato dell’insieme.

Del dipinto (realizzato a Firenze, dove il pittore visse a lungo) si coglie immediatamente solo un cupo paesaggio di tempesta: onde di un blu profondo si infrangono con violenza contro una ripida scogliera, coperta di una fitta vegetazione, mentre il cielo denso di nubi è squarciato da un fulmine. Solo dopo un’attenta osservazione si riconosce la sagoma del gigantesco corpo del Titano, incatenato alla montagna e soggetto alla furia del cielo. Il protagonista della rappresentazione non è più l’eroe ribelle, ma la drammatica lotta, impari e senza speranza, dell’uomo contro le forze misteriose e oscure sprigionate dalla natura, che appare demonicamente animata. La figura del titano, la cui consistenza materica sembra assorbita dalla roccia e dalle nuvole, così inerte ed esposta, ci comunica solo un grande senso di impotenza e di rassegnazione.

Il fondatore della pittura metafisica, Giorgio De Chirico, in una sua opera giovanile dedicata al mito di Prometeo, trarrà chiara ispirazione proprio da questo dipinto.

Arnold Bocklin, Prometheus, 1883

Originale anche l’interpretazione dello scultore tedesco Reinhold Begas. Qui il titano incatenato mostra un corpo in estrema tensione, che si contorce per poter volgersi indietro e osservare, con uno sguardo che esprime un orrore muto, il rapace appollaiato immobile sulla roccia sovrastante. Il vero supplizio è l’attesa di esso, il non sapere quando piomberà con i suoi artigli crudeli sulla carne indifesa. È la rappresentazione della condizione umana, caratterizzata da un destino subdolo che incombe alle spalle, pronto a colpire.

Reinhold Begas, Prometheus (ca. 1900), Akademie der Künste, Berlino - Public Domain via Wikimedia Commons


Un altro pittore simbolista, il pittore belga Jean Delville, membro della Società Teosofica, dà una versione esoterica del mito, in cui il titano appare come un profeta portatore di luce, rivelando con la sua fiamma a forma di stella la vera condizione dell’umanità. Le idee ispiratrici dell’opera di questo artista partono dall’assunto, di derivazione neoplatonica, dell’esistenza di diversi piani di realtà, dei quali il mondo visibile è solo quello meno significativo, in quanto simbolo dei piani superiori, che sono l’astrale (o spirituale) e il divino. In questa visione antimaterialistica, il corpo umano è considerato solo una prigione dell’anima e il piano fisico è un mondo avvolto dalle tenebre, da cui occorre liberarsi per conseguire l’illuminazione e ascendere verso quello dello spirito.  Il titano Prometeo, il padre degli iniziati, con la sua luce della conoscenza, è il rivelatore di questa verità teosofica, che spazza via l’oscurità in cui vivono gli esseri umani, sgomenti per tanto splendore.

A questa tela gigantesca si ispirerà il musicista Skriabin per comporre il poema sinfonico “a colori” Prometeo.

Jean Delville, Prometheus (1907) - Pinterest


Qui siamo invece nella Germania nazista, e lo scultore Arno Breker, amato dalle autorità del Terzo Reich, personifica nell’eroe del mito l’archetipo della razza ariana, dalle proporzioni perfette. Lo stesso Hitler, nel suo Mein Kampf, aveva definito l’uomo ariano il “Prometeo dell’umanità”.

Arno Breker, Prometeo ruba il fuoco, 1934, bronzo, Bonn, Museo Breker - Public Domain via Wikipedia Commons


José Clemente Orozco, uno dei tre grandi muralisti messicani, in questo gigantesco affresco realizzato nella sala mensa del Pomona College di Claremont, in California, mostra un titano che fa brillare una grande fiamma su schiere di masse oppresse, che marciano a capo chino. Con il fuoco, il titano porta agli uomini la conoscenza, la saggezza, le arti, la possibilità di autodeterminarsi e di svincolarsi da ogni schiavitù, da ogni tirannia.

Prometeo è la protesta contro l’ingiustizia, lo slancio teso al riscatto. Prometeica è l’intera pittura di Orozco: essa è azione, dinamismo, energia che si accumula (la spinta delle braccia verso il cielo) e che esplode. Perché per il pittore messicano l’arte non è ricerca della bellezza, ma è essenzialmente uno strumento di verità per i popoli, il nuovo ethos.

José Clemente Orozco, Prometeo, 1930, PomonaCollege - California

Troppo lunga sarebbe ancora la lista di tutte le interpretazioni che l’arte ha prodotto di questo mito. Ancora ai giorni nostri, Prometeo continua a parlarci con i suoi tanti volti e c’è da pensare che il suo fascino non si esaurirà mai.

Rodrigo Arenas Betancur, Prometeo Encadenado, Colombia - Public Domain via Wikimedia Commons



PER APPROFONDIRE

Iconos. Cattedra di Iconografia e Iconologia, Dipartimento di Storia dell’arte e spettacolo, Facoltà di Lettere e Filosofia, Sapienza Università di Roma



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