venerdì 9 novembre 2018

Lo sguardo che interpella. Le regard caméra



La partecipazione emotiva dello spettatore al flusso del film è l’obiettivo del cinema classico. Il cinema moderno e postmoderno, invece, mette spesso in crisi questa forma spettatoriale, mirando a creare un effetto di distanza piuttosto che di identificazione.
Uno stilema che crea distanza e straniamento è senza dubbio lo sguardo in macchina (camera look, regard caméra), uno degli elementi più trasgressivi del linguaggio cinematografico, che elimina il filtro del narratore, in quanto lo spettatore viene coinvolto direttamente, in prima persona, all'interno della storia.
Se le inquadrature soggettive e oggettive si svolgono all'interno della narrazione (elementi diegetici), lo sguardo in macchina, al contrario, sviluppa un corto circuito nella rappresentazione (è perciò un elemento extradiegetico), perché il film interrompe il corso logico della sua narrazione e si rivolge direttamente allo spettatore, traendolo allo scoperto. In tal modo viene messo in crisi il patto che è intrinseco al cinema di finzione.
Di che patto si tratta?


Il poeta inglese Coleridge, nella sua Biographia Literaria, affermava che un lettore, di fronte a un testo letterario, pratica una “volontaria sospensione dell'incredulità”. E' grazie a questa sospensione che il lettore si comporta come se gli eventi narrati nella finzione fossero veri, tanto da arrivare ad appassionarsi alla storia e ad identificarsi con i personaggi. Essa è temporanea, cioè si esaurisce nel momento in cui terminiamo la lettura: una volta chiuso il libro, chiudiamo anche la parentesi di finzione in cui eravamo stati immersi e torniamo nel mondo della realtà.
La stessa cosa accade quando entriamo in un cinema o ci apprestiamo a vedere un film. Durante la proiezione, noi spettatori possiamo provare emozioni molto forti, ridere, commuoverci o sobbalzare dalla paura, pur essendo consapevoli che ciò che vediamo è solo finzione. Ma, per tutto il film, il meccanismo illusorio funziona: si vive la storia come se fosse vera, perché temporaneamente e volontariamente accettiamo di crederci, di sospendere la nostra incredulità. Usciti dal cinema, il gioco dell'illusione sarà finito e potremo tornare alla nostra quotidianità.


In riferimento a ciò, si parla di “Patto di Sospensione dell'Incredulità”, cioè quell'accordo tacito in base a cui il lettore, o lo spettatore, si impegna a sospendere la propria incredulità razionale e a credere in una storia che è pura finzione, a patto che questa venga raccontata secondo le sue leggi interne di verosimiglianza (che variano di genere in genere, per cui le leggi di credibilità della Commedia o del Dramma non sono le stesse del Fantasy o dell’Horror, ecc.).
Quando, però, un personaggio si rivolge al pubblico o quando con uno sguardo, una frase o un gesto fa intendere di essere consapevole di essere un personaggio di un'opera di finzione, in questo modo mette in crisi la sospensione dell'incredulità pattuita tacitamente con il pubblico, perché è come se dicesse allo spettatore: “questa è solo finzione; quella che vedi non è la realtà”. Insomma, gesti come lo sguardo in macchina e l'interpellazione dello spettatore traggono fuori quest’ultimo dall’immedesimazione nella storia, collocandolo a quel tanto di distanza da permettergli di conservare una coscienza critica su ciò cui sta assistendo.


Gli sguardi in macchina fanno venire meno l'illusione di realtà, provocando uno smarrimento in chi guarda e un effetto di straniamento: lo spettatore non detiene più il monopolio dello sguardo, ma diviene a sua volta oggetto dello sguardo di uno o più personaggi, il che gli ricorda che ciò cui sta assistendo non è la realtà, ma una finzione cinematografica.
Occorre tuttavia fare delle precisazioni. Non tutti gli sguardi in macchina sono extradiegetici, cioè non tutti infrangono la quarta parete, operando uno strappo nel tessuto della finzione. In alcuni casi, infatti, essi sono diretti verso un fuori campo collocato all’interno dello spazio finzionale. Nel caso di inquadrature soggettive riprese dal punto di vista di un personaggio, ad esempio, l’interlocutore di quest’ultimo guarda in macchina come verso ciò che in quel momento costituisce il suo fuori campo. Lo sguardo in macchina, perché sia extradiegetico, deve interpellare lo spettatore (viene infatti detto “interpellazione”), cioè uscire fuori dallo spazio finzionale.


Il camera look era piuttosto comune nell’ambito del cinema delle origini e dei film comici. Nei primi cortometraggi dei fratelli Lumière, che rappresentavano delle riprese di vita reale, notiamo spesso tra la folla qualche curioso che guarda verso la cinepresa, segnalando anche allo spettatore la presenza dell'operatore. Si può dire pertanto che, all'inizio della storia del cinema, il soggetto dello sguardo è ancora interno all'immagine, nel senso che non viene presupposto alcun narratore esterno che fa da filtro tra la rappresentazione e il pubblico. In seguito, quando il cinema diventerà finzione e si imporrà la struttura narrativa classica, lo sguardo in macchina sarà considerato un tabù, oppure verrà utilizzato solo in momenti particolarmente drammatici o comici. Il cinema classico, infatti, ha sempre voluto nascondere il più possibile l'artificio, perché obiettivo del film è quello di creare un'illusione di realtà. L'imperativo per gli attori è quello di recitare ignorando il set e la macchina da presa, affinché lo spettatore non percepisca la finzione, ma si lasci coinvolgere e appassionare alla storia, guardandola dietro un’immaginaria quarta parete.


Il concetto di quarta parete era stato formulato nel settecento da Denis Diderot in riferimento all'arte teatrale. Egli affermava la necessità che l'attore, durante la recitazione, immagini l'esistenza di un muro che lo divide dagli spettatori, affinché la messa in scena risulti realistica. La quarta parete è proprio questo muro immaginario che divide il palco dal pubblico e che esclude lo spettatore dalla rappresentazione.
Sta qui il paradosso dello spettatore moderno: la soglia tra universo reale e universo finzionale può essere oltrepassata solo a patto che essi restino ben distinti e separati, con due diverse dimensioni spazio-temporali. Nel momento in cui si guardano e si riconoscono reciprocamente, condividendo lo stesso spazio e lo stesso tempo, tali universi si trasformano in interlocutori che si distanziano nella frontalità e l’incanto si spezza.
Lo sguardo che interpella fuoriesce dalla narrazione e sollecita lo spettatore ad uscire dal gioco di finzione. Esso interrompe il rapporto di identificazione o di proiezione tra spettatore e film; prevale invece l’istanza dell’interpellazione, della comunicazione o della richiesta di complicità.



A questo link, una playlist che ho creato con alcuni video di youtube che ripropongono alcuni degli sguardi in macchina più famosi della storia del cinema:



Lo sguardo che smaschera un altro sguardo

Lo sguardo in macchina che interpella sospende il flusso della narrazione, creando un effetto di distanziamento e di straniamento, come quello che caratterizza il teatro brechtiano. Lo spettatore viene riconosciuto come soggetto di una relazione, stimolato a riflettere su ciò che guarda o addirittura viene indotto a staccarsi in modo critico da ciò che viene rappresentato sullo schermo. È di questa funzione che il cinema moderno investe le regard caméra.
Se all’interno della narrazione finzionale lo spettatore è normalmente incluso sotto forma di un’assenza o, meglio, di una negazione, l’interpellazione lo riporta alla presenza, in una forma di teatralità che può produrre distanza, smascherando l’osservatore nel suo ruolo di voyeur e di intruso, oppure ricondurlo a un rapporto di reciprocità e di riflessione.


Nella scena più famosa del film “Monika e il desiderio” di Bergman (1953), la donna protagonista della storia osserva a lungo il pubblico. Questo è il punto in cui il regista mette a repentaglio il sistema di rappresentazione cinematografica, creando un effetto di distanziamento.
Il film e la messa in scena scompaiono; sullo schermo sopravvive solo il volto di Harriet Andersson, che sfida lo spettatore e il suo giudizio morale (la donna ha, infatti, deciso di rifiutare la vita da casalinga e di tradire il marito). Il suo sguardo impudente lo chiama a prendere posizione, a costruire con il film la propria relazione individuale, secondo la sua morale e la sua coscienza. Come dirà Jean-Luc Godard, ella prende “lo spettatore a testimone del disprezzo che ha di se stessa per aver scelto involontariamente l’inferno invece del cielo. È il primo piano più triste della storia del cinema.”
Lo stesso Godard, e altri registi della Nouvelle Vague, protagonisti di una destrutturazione della tradizionale narrazione filmica e di una reinvenzione del linguaggio cinematografico, faranno largo uso dello sguardo in macchina, come strumento di rottura del dispositivo, portando il cinema all’interno di una riflessione su se stesso (metacinema). Si pensi a “Pierrot le fou” o ad “À bout de souffle” di Godard, o al finale de “I quattrocento colpi” di Truffaut, con il disperato sguardo in macchina del giovane volto di Jean-Pierre Léaud.


Il film “Funny games” del registra austriaco Michael Haneke, è un gelido quanto sadico esperimento condotto sullo spettatore, di fronte al quale esso mette definitivamente il suo essere nient'altro che un voyeur, ormai desensibilizzato rispetto a ogni forma di violenza, un complice silenzioso a causa del suo colpevole coinvolgimento nella visione dello spettacolo.
La trama è semplice: una normale famiglia borghese – madre, padre e figlioletto – arrivano nella loro casa sul lago, per trascorrervi un periodo di vacanza. Una volta arrivati sul posto, però, saranno presi in ostaggio da due ragazzi, due psicopatici vestiti di bianco, che si sono introdotti in casa loro con una scusa. Ne seguirà una serie di efferatezze dalla violenza inusitata, anche se mantenuta sempre fuori campo.
La violenza si svolge senza catarsi e senza giustificazione di alcun tipo, rigettando gli stereotipi psicologici e sociologici tradizionali, di cui il cinema fa largo uso per spiegare i comportamenti devianti ("Perché lo fate?", "Perché no?", rispondono i due torturatori). Il regista si preoccupa di demolire i cliché del genere e di destrutturare gli schemi classici del thriller americano, per indurre lo spettatore ad una riflessione sulla violenza e la morbosità che attira la sua visione. I due psicopatici non sono tali a seguito di traumi infantili o per abuso di alcool o droghe, né la loro violenza comporta una regressione a uno stadio primitivo (come succede in molte pellicole del genere). I due ragazzi, al contrario, conservano maniere gentili e squisita buona educazione, visivamente richiamate dai guanti bianchi che indossano entrambi per tutta la durata del film.


La violenza che irrompe nel perfetto ordine borghese delle vittime conserva anch'essa la patina dei modi civili e della galanteria. Anche questo elemento acuisce il senso di straniamento cui va incontro lo spettatore, vera vittima designata del regista. E' evidente che intenzione di quest'ultimo è quello di destabilizzare l'osservatore, di sottoporlo a frustrazione e violenza psicologica, tra l'altro esautorandolo anche del suo potere di controllo della visione, sottraendogli letteralmente lo scettro abituale, cioè il telecomando (in un punto del film, la madre riesce a uccidere con un fucile uno dei ragazzi, ma l'altro afferra un telecomando e riavvolge la scena, annullando l'evento accaduto e togliendo il fucile di mano alla donna).
Per mettere in evidenza le pulsioni voyeuristiche dello spettatore, il regista obbliga i due “cattivi” a infrangere spesso la quarta parete e ad ammiccare alla macchina da presa, coinvolgendo l'osservatore in prima persona, facendone un complice delle crudeli nefandezze che mettono in atto ai danni della famiglia presa in ostaggio.
Ci sono i cattivi, ci sono le vittime innocenti, e basta. Nessun personaggio o intreccio ulteriore a filtrare e schermare il rapporto con lo spettatore. Gli ammiccamenti in camera dei torturatori non fanno altro che distruggere la consolante distanza tra finzione e realtà, smascherando il ruolo di complice detenuto dall'osservatore, voyeur colpevole di assistere, anzi di “godere”, dello scempio portato avanti dai due carnefici, del dolore e della crudeltà, usati a fine di spettacolo e di intrattenimento.
Il film è pertanto un efficace esempio di metacinema, che obbliga lo spettatore ad interrogarsi sulla “perversione” del vedere, sul fascino morboso che la violenza esercita sullo sguardo, il quale, invece di ritrarsi inorridito, si lascia sedurre dall'orrore.
Al minuto 2.00 di questo video, la scena dello sguardo in macchina di uno dei ragazzi:


















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