lunedì 10 dicembre 2018
The Artist is Present. La metamorfosi dell’aura
Una delle performance più recenti di Marina Abramović dà modo di riprendere il concetto di aura, che dopo Benjamin sembrava definitivamente uscito di scena e che invece l’esperienza della performance sembra far rientrare dalla finestra.
Nel 2010, dal 14 marzo al 31 maggio, Marina Abramović è stata protagonista di un lavoro davvero singolare, dal titolo The Artist is Present. Tutti i giorni di apertura, in uno spazio al primo piano del MOMA di New York (in cui tra l'altro era allestita una retrospettiva sull'artista), è rimasta seduta immobile e in silenzio, guardando fisso negli occhi tutti coloro che hanno raccolto l'invito (o la sfida) di sedersi di fronte a lei e di ricambiare quello sguardo per il tempo voluto. Ogni giorno, per sette ore di fila, senza mai alzarsi, né per mangiare né per assolvere altri bisogni. Nel corso delle 700 ore di performance, la sedia di fronte non è rimasta quasi mai vuota e in totale si sono avvicendate quasi 1400 persone, compresi personaggi celebri, alcune solo per pochi minuti, altre per delle ore.
L'Abramović indossava dei lunghi vestiti-tunica monocromatici, da lei stessa disegnati, e svolgeva un'azione rituale pressoché sempre identica: dopo che uno spettatore si era seduto sulla sedia di fronte, alzava lo sguardo (prima tenuto basso) su di lui guardandolo negli occhi, senza più distogliere l'attenzione, mantenendo un'espressione concentrata, ma senza tradire alcuna emozione. Diversamente da altre performance di Marina Abramović, in questa occasione allo spettatore veniva preclusa ogni possibilità di contatto fisico con l’artista; gli era richiesto, invece, di non fare movimenti bruschi e di rimanere in silenzio. Unica possibilità di interazione era lo sguardo, con tutta la sua portata di linguaggio emotivo e non verbale. Molte persone si sono sedute solo spinte dalla curiosità; altre invece si sono lasciate coinvolgere emotivamente. C'è chi ha riso, chi ha sorriso e chi si è commosso, fino alle lacrime.
La Abramović ha speso la sua intera carriera artistica, rischiando anche la vita, nel provocare, mettere in luce, analizzare le emozioni e le reazioni del pubblico di fronte al corpo dell'artista, considerato il vero agente espressivo. In questo caso il corpo è rimasto immobile e ha concentrato la sua energia nella forza dello sguardo.
Molto spesso, in tutta la storia dell’arte occidentale, l’artista si è autorappresentato mentre rivolge il proprio sguardo al di fuori della rappresentazione, in direzione dell’osservatore. Qui lo sguardo dell'autore fisso sullo spettatore raggiunge l'apice perché, lo dice lo stesso titolo della performance, egli è presente in carne e ossa, condividendo lo stesso spazio e lo stesso tempo dell'osservatore. E' assente qualsiasi filtro rappresentativo perché la "fruizione" dell'opera coincide perfettamente con il suo farsi, anzi ne costituisce l'essenza intima. In questo caso non esiste un oggetto d'arte sul quale l'osservatore detiene completo controllo, ma due soggetti e due sguardi che si incrociano e in questo modo creano un'esperienza artistica.
Queste le parole della Abramovic:
“Non voglio che il pubblico passi del tempo a guardare il mio lavoro: voglio che loro siano con me e dimentichino il tempo. Voglio spalancare lo spazio perché ci sia solo quel momento, qui e ora: non c’è niente, né futuro, né passato. In questo modo puoi estendere l’eternità. Questo significa essere presenti.”
Poiché i due partecipanti non possono usare altri tipi di interazione e di comunicazione, la relazione si costruisce nella presenza dei soggetti nello stesso spazio e nello stesso tempo, nel loro guardarsi e respirare insieme.
“L’immobilità e il silenzio aguzzano l’attenzione anche per il minimo movimento, un cambio di respiro, un gemito soppresso. Si realizza così una modalità di incontro con l’altra persona completamente opposto a quello abituale, in cui acquista importanza ciò che è invisibile o quasi invisibile, i più piccoli segnali che passano tra due sconosciuti che condividono un tempo di grande prossimità. La performance si concentra quindi sul puro momento dell’incontro, senza nessun motivo oltre l’esperienza della presenza dell’altra persona, senza altro ‘messaggio’ che l’esserci dei due ‘co-protagonisti’.” (Stefanie Knauss e Davide Zordan, L’aura nomade. Riflessioni sull’incontro con l’opera d’arte a partire da Walter Benjamin)
Nel saggio citato, Knauss e Zordan prendono ad esempio The Artist is Present per dimostrare che la performance contiene in sé molti aspetti che Benjamin ascrive all’esperienza dell’aura: l’originalità e l’autenticità, l’enfasi sull’hic et nunc della relazione con l’opera, la presenza, il legame a un contesto rituale. È questo dunque il luogo eletto, si chiedono i due autori, dove, nell’epoca della riproducibilità digitale, ci riappropriamo dell’aura perduta? Vediamo i vari punti in dettaglio che tradizionalmente definiscono l’esperienza auratica, applicati alla pratica performativa:
Originalità e autenticità: caratteristica della performance è la sua singolarità, cioè la sua irriproducibilità. Essa esiste solo nel momento della sua esecuzione, nella singolarità dello spazio che occupa e per quel pubblico presente. La documentazione di una performance (foto, video, residui materiali, racconti) non può far altro che ricordare ciò che è successo e trasmetterlo, senza tuttavia ambire a replicare l’evento.
Presenza: per Benjamin, il potere auratico dell’opera d’arte consiste nella possibilità, durante la fruizione dell’originale, di “percepire” quasi la presenza del suo creatore, cioè la mano dell’artista che dipinge o scolpisce l’opera. Nella performance, l’artista e gli altri partecipanti all’evento sono co-presenti e creano l’opera con il loro esserci. Inoltre, nella performance agisce anche il carisma dell’artista, in grado di creare una particolare atmosfera e di infondere intensità e forza all’azione, contribuendo a produrre l’aura dell’incontro estetico.
Hic et nunc: Il senso del qui ed ora è molto forte nella performance: essa si produce nell’istante e poi si dissolve, lasciando solo tracce di sé. Al contrario di un opera d’arte tradizionale (un oggetto che si può toccare, comprare, esporre, che ha un passato e un futuro di fruizioni successive), la performance esiste solo nel presente. In questo tempo, lo spettatore è condotto dentro uno spazio di reciprocità ove viene stimolato a fare un’esperienza significativa, che lasci un segno. Un’esperienza che instaura una relazione intima e coinvolgente tra il fruitore e l’opera, la quale non è oggetto passivo, ma ‘appare’ nel tempo (ora) e nello spazio (qui).
Contesto rituale: per Benjamin, l’aura di un’opera d’arte è legata fortemente alla sua origine cultuale/rituale e all’atteggiamento contemplativo del pubblico. Questa origine rimane evidente nelle performance, come è evidente nei lavori della Abramović, il cui aspetto rituale può essere riscontrato nel modo in cui l’artista si prepara all’evento (con il digiuno e il silenzio per purificare corpo e mente), nei gesti spesso ripetitivi, nel tentativo di trasmettere un’energia al pubblico e dunque di influire attivamente su di esso, stimolando un cambiamento o una presa di coscienza individuale, attraverso una relazione intima e quasi spirituale.
Come si vede, però, qui l’aura è passata dall’essere una qualità dell’opera d’arte a essere soprattutto un elemento dinamico della fruizione.
Benjamin annunciava la decadenza dell’aura per decretare la fine del feticismo borghese che sta alla base del culto dell’opera d’arte nel suo valore sacrale di oggetto unico e creato dal genio dell’artista. L’aura, secondo il filosofo, costituiva l’involucro che proteggeva e isolava l’opera, fruibile pertanto solo a distanza, in un atteggiamento di riverenza cultuale e di contemplazione solitaria.
L’aura che caratterizza l’esperienza performativa non è una qualità dell’opera, ma dell’esperienza estetica che vive l’individuo coinvolto. Secondo Knauss e Zordan, “il luogo proprio dell’aura è una soglia”, in quanto lo spazio in cui essa si dischiude è quello dell’incontro tra l’opera e il suo pubblico:
“L’aura non si attiva se non in un incontro di sguardi, se non nel ‘sentirsi guardati’ dall’opera, che può giungere a prendere la forma, esplicita fino al disturbante, dello sguardo fisso e insistente di Marina Abramović sugli spettatori e le spettatrici del MoMa che accettano di sedersi in silenzio di fronte a lei. Con questa nuova comprensione dell’aura non ci pare di forzare l’idea fondamentale di Benjamin: l’originalità e l’autenticità, l’hic et nunc, rimangono fondamentali, ma invece di essere attributi dell’oggetto, di cui decretano la lontananza, sono condizioni della irrepetibilità dell’incontro quasi intersoggettivo che qualifica una fruizione esteticamente rilevante.”
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