sabato 22 settembre 2018

Cavalli da incubo e da sogno



Fin dall’antichità, il mondo animale ha sempre ispirato la produzione artistica dell’uomo. Ma, già a partire dal periodo pre-romantico, esso comincia a comparire nei dipinti in un modo completamente diverso rispetto a prima, conformemente alla svolta subita dalla storia dell’arte negli ultimi due secoli. Quest’ultima, infatti, abbandona gradualmente la sua finalità mimetica (arte come riproduzione del reale) e la sua impostazione accademica per farsi soprattutto rappresentazione del mondo interiore, delle inquietudini e dei drammi dell’uomo moderno, o ricerca dell’essenza nascosta della realtà o di una nuova spiritualità. La tensione alla rappresentazione accurata e realistica degli animali lascia il posto a distorsioni formali e cromatiche capaci di esprimere o di incarnare le nuove tensioni dell’arte moderna: essi vengono rappresentati talora come simboli viventi delle forze vitali della natura o della psiche, oppure sintetizzati fino a raggiungere la loro essenza formale o spirituale, oppure “dinamizzati” per farne metafora delle spinte della storia e del progresso umano, o ancora deformati per divenire espressione delle angosce e dei traumi che vive l’umanità del tempo. E così l’avvicendarsi dell’arte moderna, dal Romanticismo alle Avanguardie del XX secolo, coinvolge la rappresentazione del mondo animale in quel processo di allontanamento dalla forma bella e armonica, dall’idealizzazione accademica della realtà, per farsi deformazione di essa e imporsi come immagine potente della sofferenza umana, della violenza, della passione, dell’oscurità dell’inconscio, degli sconvolgimenti interiori e storici degli ultimi due secoli.

Dei rappresentanti del mondo animale, la figura del cavallo è senza dubbio tra quelle più potenti dal punto di vista iconologico e iconografico, data la vicinanza e l’importanza che questo animale ha sempre avuto nella storia dell’uomo fin dalle sue origini. La simbologia mitologica che avvolge e permea la storia del cavallo presenta un'ambivalenza di fondo che lo vede da un lato come un essere forte, nobile ed intelligente, dall'altro come un concentrato di forza istintuale e passionale, capace di incutere angoscia e turbamenti. Egli è contemporaneamente puro e impuro, creatura solare e infernale, divino e demoniaco, animale legato al carro di Apollo e messaggero dell’Apocalisse. Il suo aspetto imponente è insieme terrificante e pieno di fascino.
Anche l’arte dei secoli più recenti ha manipolato questa aura simbolica contrastante che avvolge da sempre questo animale possente, per dare forma agli incubi e ai sogni dell’umanità di questi tempi travagliati.

L’incubo di Füssli 
Il termine inglese “nightmare” (incubo) è composto da “night” (notte) e “mare” (cavallina), perché, secondo antiche leggende popolari, l’incubo non è che un mostriciattolo (nell’antica Roma spesso identificato con un Fauno) che cavalca nella notte una giumenta per andare a tormentare il sonno delle fanciulle (l'esatta etimologia di "nightmare" in realtà non è questa, ma è la ricostruzione più diffusa). Il nome di questo mostriciattolo grottesco è proprio “incubus” (dal latino incubare, "giacere sopra"), che di notte si siede sul petto della persona dormiente, creandole in tal modo un senso di oppressione, e condannandola ad un sonno tormentato (di questo senso di oppressione sul petto che scatena l’incubo ne parla anche Freud in termini più scientifici).


Johann Heinrich Füssli, L'incubo, 1790-91, Goethe Museum Frankfurt-am-Main - Public Domain via Wikipedia Commons.
             
Questo dipinto è quello che ha reso celebre il pittore e intellettuale svizzero (trasferito in Inghilterra) Johann Heinrich Füssli e del quale esistono più versioni. Questa risale al 1791 ed è la rivisitazione della sua opera più famosa, avente lo stesso titolo, risalente a dieci anni prima.
La scena è ambientata in una tetra camera da letto. In primo piano una figura femminile, rovesciata sul letto in una posa innaturale che le conferisce un aspetto esanime. Più che addormentata, la posizione delle braccia e la testa reclinata le donano un’espressione di perdita di coscienza. Sul suo stomaco è seduto un mostro grottesco, personificazione dell'incubo, con le orecchie a punta e il sorriso sinistro, che ammicca ghignante verso lo spettatore. In secondo piano, da una tenda cremisi come quella di un sipario teatrale, spunta una cavalla spettrale, con inquietanti occhi bianchi e vacui, che rappresenta la portatrice dei sogni. Füssli colloca nello stesso spazio compositivo sia il soggetto che sogna, sia il suo incubo, sia infine il portatore dell’incubo medesimo.



Anche i colori cupi, dalle tinte irreali e dai forti contrasti, amplificano l'immagine visionaria dell'incubo. La luce è completamente innaturale, adoperata con tecnica teatrale tramite un’illuminazione a getti, in grado di creare delle apparizioni fantastiche e spettrali, facendole emergere dall’oscurità. La donna, con la sua lunga camicia bianca e la pelle d’avorio, è l'oggetto più illuminato, mentre la cavalla, investita da un bagliore sinistro, è circondata da un alone nebbioso.
La composizione di entrambe le versioni più famose de L’Incubo è a piramide (la versione del 1791 ha un vertice molto più acuto), che conferisce all’immagine un effetto deformante, accentuato dall'allungamento orizzontale della figura femminile. C’è una tensione stranamente sensuale nel corpo della ragazza, nel legame tra la sua pura e chiara giovinezza e l’orrendo e tetro mostro che la tormenta.
La novità assoluta de l’Incubo di Füssli è il fatto di essere la riproduzione pittorica di uno stato psicologico, la proiezione dichiarata di uno stato d’animo. La rappresentazione dei recessi più misteriosi della psiche umana attraverso il simbolismo dell’artista è un mondo irreale e fantastico, popolato da figure legate al mito e alla fiaba, dalle cui ombre emergono i turbamenti e i desideri proibiti, i demoni della parte più oscura e profonda dell'animo umano e di un'epoca storica, intrisi di violenza e istinti brutali.


Johann Heinrich Füssli, L'incubo, 1781, Detroit Institute of Arts - Public Domain via Wikipedia Commons.

La pittura di Füssli manifesta un forte conflitto tra impulsi irrazionalistici e aspirazioni illuministico-razionali. Se la realizzazione delle sue opere, basata su forme essenziali, chiuse e ben delineate e su una composizione ordinata, è di tipo neoclassico, l’atmosfera è invece pre-romantica, pregna di quelle oscurità gotiche che caratterizzano il periodo a cavallo tra Settecento e Ottocento. Anche le linee, basate su curve e sinuosità, si rifanno al gotico, così come il verticalismo e la deformazione anatomica, l’oscurità piena di mistero, l’illuminazione e i colori irreali, e il generale effetto enfatico di abbandono della fanciulla. L’ombra, che l’arte neoclassica nascondeva sotto forme limpide, irrompe nell’arte di Füssli con teatrale messa in scena. Tutto ciò concorre a provocare un impatto fortemente emozionale, sebbene di tipo angoscioso.
Egli unisce una salda formazione classica, basata su studi approfonditi della plastica soprattutto michelangiolesca, con l’influsso romantico della Londra del tempo. Le sue sono immagini istantanee, intagliate dalla luce che squarcia il buio all’improvviso, sorprende i personaggi e li contorna di un cinereo alone di mistero. Tutta la sua opera sarà caratterizzata dalla ricerca del sublime, teorizzato nel 1756 da Burke, in opposizione al sentimento del bello. Il sublime non nasce dal piacere della misura, dell'ordine e della forma bella dell'oggetto, ma ha la sua origine nei sentimenti di terrore, di sgomento, di smarrimento suscitati dalla dismisura, da “tutto ciò che è terribile o riguarda cose terribili”, per esempio il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio, l'infinito, l’abisso del sogno.

Johann Heinrich Füssli, L'incubo abbandona il giaciglio di due fanciulle dormienti, 1793, Zurigo, Muraltengut - Public Domain via Wikipedia Commons.

Nell’opera di Füssli prendono vita gli incubi che covano sotto la ragione illuminista, quella ragione la cui degenerazione aveva portato al “terrore” postrivoluzionario. La ragione inibita dal sonno permette che abbiano sopravvento l’irrazionale e il mostruoso, e sembra quasi di scorgere le ombre dei mostri di Goya generati dal sonno della ragione.
Nel clima dell’epoca, l’elemento passionale e irrazionale rivendica drammaticamente il suo diritto di cittadinanza, emergendo dalle crepe del razionalismo settecentesco, motivo per cui Füssli, insieme a Goya e Blake, viene considerato un precursore del Romanticismo. Uno degli ambiti preferiti di questo straordinario pittore fu, infatti, quello dell’irrazionale e del sovrannaturale, che dipinse in più versioni e contesti – dalla Shakespeare Gallery fino alla Milton Gallery, passando perfino attraverso illustrazioni dell’Inferno della Divina Commedia – con uno stile notturno, caratterizzato da corpi in tensione e deformazioni mostruose, raffigurati in luoghi indefinibili e senza prospettiva.

La purezza dei cavalli di Franz Marc

Franz Marc, Cavallo nel paesaggio, 1919, Museum Folkwang - Public Domain via Wikipedia Commons.

Franz Marc è stato banalmente definito “pittore di animali”. L’artista tedesco è stato cofondatore del gruppo espressionista Der Blaue Reiter (Il Cavaliere azzurro, 1911). A questo proposito scriveva Kandinskij: “Il nome Der Blaue Reiter, lo trovammo, Marc ed io, davanti ad una tazza di caffé, sotto il pergolato di Sindersdolf. Ad entrambi piaceva il blu. A Marc piacevano i cavalli e a me i cavalieri. E così il nome venne fuori da solo”.
Come tutti i movimenti sorti intorno al primo decennio del ‘900, anche Der Blaue Reiter si poneva in contrasto con l’idea di pittura come imitazione della natura. L’Espressionismo in particolare si caratterizzava per il rifiuto della prospettiva e per l’uso antinaturalistico dei colori, in quanto l’arte non ha lo scopo di creare una illusione della realtà, rappresentando la sua apparenza, ma di esprimere la condizione interiore dell’artista, conferendo alla materia una dimensione spirituale.
Marc e gli altri del gruppo indagavano nella natura, sulla scia delle ricerche già avviate in Francia a partire da Cézanne, la sua essenza, le leggi primordiali che essa nasconde. In questa tensione, suggestionato dalla teosofia, il pittore tedesco conferisce alle proprie composizioni un significato prima di tutto poetico e simbolico. In Franz Marc alberga un anelito vitale alla purezza e un insopprimibile desiderio di spiritualità, ma, per esprimere entrambe, l’essere umano è inadeguato in quanto gli sembra  ̶  così si esprime egli stesso  ̶ semplicemente “brutto”. Per questo i soggetti dominanti delle sue opere sono figure animali, cavalli in particolare, che incarnano gli ideali di purezza, di innocenza perduta, di bellezza, di armonia, di spiritualità e attraverso le quali riesce ad esprimere la propria interiorità. E, sebbene disdegni una loro rappresentazione realista, Marc non smette di studiarne rigorosamente l’anatomia, osservarne il comportamento e passare lunghe ore nel Giardino Zoologico di Berlino, sforzandosi di immedesimarsi nella loro vita, di guardare il mondo con i loro occhi.


Franz Marc, Grazing Horses IV, Three Red Horses, 1911 - Public Domain via Wikipedia Commons

L’arte, per i pittori del “Blaue Reiter”, non può rimanere legata alle apparenze, ma deve cercare di emanciparsi da esse per andare in profondità e cercare di rappresentare “l’essere assoluto”, l'essenza, l'idea. A questo fine la pittura di Franz Marc, tra il 1908 e il 1910, comincia a semplificarsi sempre di più, a ridurre le linee e la caratterizzazione individualistica delle figure, a favore di una loro tipizzazione e astrazione, quasi a volerne ricercare l’essenza spirituale. Anche il cromatismo si emancipa dal naturalismo tradizionale, in quanto il colore (l’aveva appreso da Van Gogh, Gauguin, dai Fauves) è un elemento dotato di potenzialità creative del tutto autonome, svincolate dall’obiettivo di imitare la colorazione naturale e finalizzate all’espressione di emozioni, di stati d’animo, di idee. I colori, per Franz Marc, hanno soprattutto un significato simbolico: il blu rappresenta il principio maschile e spirituale, il giallo quello femminile, sereno e sensuale, mentre il rosso simbolizza la materia bruta e pesante al quale si contrappongono gli altri colori.
Dopo il 1910 le sue tele acquistano una plasticità spaziale, una ricchezza di colori, un tratto ritmico e dinamico che conferiscono all’immagine intensità e movimento. E’ a questo periodo che appartengono capolavori come “I grandi cavalli blu”.


Franz Marc, Grandi Cavalli blu, 1911 - Public Domain via Wikipedia Commons

In quest’ultimo dipinto il blu dominante, considerato dai pittori del Blaue Reiter colore spirituale per eccellenza, è amplificato dagli altri due primari e dai loro complementari; lo sfondo richiama l’astrattismo di Kandinskij, mentre la prevalenza delle linee curve, dall’andamento ritmico particolarmente musicale, crea una composizione caratterizzata da purezza e armonia primitive, anteriori a ogni contaminazione, e da un’atmosfera fiabesca, quasi mitologica, nella quale i cavalli blu appaiono delle creature soprannaturali, chiusi nella propria trascendente perfezione ideale. Sembra che Marc cerchi di cogliere le vibrazioni impercettibili del loro essere, il mistero del loro silenzio.


Franz Marc, Blaues Pferd I, 1911, Lenbachhaus - Public Domain via Wikipedia Commons

Quasi non vi è traccia di esseri umani nelle sue tele: gli animali, come questi cavalli, immersi nella natura, sono signori del proprio universo, perfetti nella propria solitudine, nelle forme piene e sinuose dei corpi, plasmati da colori puri, senza gradazioni né chiaroscuri. Non sono rappresentazioni riconducibili alla percezione dell’occhio umano, e quindi entità fenomeniche, ma essenze pure, idee incontaminate. Così scrive: “Non dipingeremo più la foresta o un cavallo, così come ci piacciono o come ci appaiono, bensì come essi sono realmente. Così come la foresta e il cavallo sentono il loro essere assoluto, che vive oltre l’apparenza.”
Ma la pittura di Franz Marc è in continua evoluzione, segnata anno per anno da stimoli diversi: dopo quelli delle tendenze postimpressioniste, intorno al 1911 assimila alcuni stimoli provenienti dal cubismo e, infine, tra il 1912 e il 1913, quelli derivanti dal raggismo russo, dal futurismo italiano e soprattutto dalla pittura di Delaunay.


Franz Marc, Red an blue horses, 1912 - Public Domain via Wikipedia Commons.

Il colore è sottoposto ad una complicata scomposizione prismatica, le forme e le linee si frammentano in superfici geometriche, la visione raggiunge una dinamica simultaneità ed una molteplicità di punti di osservazione. Da questo periodo in poi, anche il suo rapporto con gli animali subisce una radicale deterioramento, a tal punto che comincia a considerarli come l’uomo: brutti, impuri, ripugnanti. Tutto questo determinerà il volgersi della sua pittura verso una rappresentazione sempre più astratta. Ma le sue ricerche saranno interrotte dallo scoppio della Prima guerra mondiale, nel corso della quale troverà la morte a soli 36 anni.

Il cavallo “futurista” di Umberto Boccioni
"Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche" (dal Manifesto del futurismo, 1909).
Inizialmente intitolata Il lavoro, l'opera di Boccioni La citta che sale (1910 - 1911) è una tela di grandi dimensioni, frutto di vari tentativi e studi preparatori, disegni e schizzi a penna e matita realizzati dal pittore in diverse zone industriali di Milano. Nonostante la presenza di elementi realistici come il cantiere, o ancora la resa dello spazio in maniera prospettica, questo dipinto è considerato la prima opera veramente futurista di Boccioni, per la visione dinamica che la anima, per l'esaltazione visiva della forza e del movimento.


Umberto Boccioni, La città che sale, 1910-11, New York, Museo Gugghenheim - Public Domain via Wikipedia Commons.
 
La scena ha come sfondo la periferia industriale: in alto si intravedono infatti le impalcature adibite alla costruzione di nuovi edifici, ai quali fanno da sfondo, a destra e al centro, le ciminiere fumanti delle fabbriche e, a sinistra, una linea tranviaria, entrambe simboli del progresso industriale, che proietta la città verso il futuro. La composizione è dominata dalla possente figura di un gigantesco cavallo rosso fuoco, dal basto acuminato, teso nello sforzo di trainare un carro con l'aiuto di diversi uomini. Questa figura ricorda i cavalli del pannello centrale del Trittico dell'eroica di Previati ed è, oltre che il simbolo del lavoro, una grandiosa rappresentazione della forza fisica. La sua struttura ed il suo movimento creano l'effetto di un vortice, che struttura l'intera composizione. Questo dipinto rappresenta un'esplosione di energia, insieme umana ed animale, espressa con un moto turbinoso e travolgente, che prosegue anche oltre i limiti della cornice attraverso linee di forza che convogliano e sprigionano le spinte in molteplici direzioni.
Nell'opera di Boccioni, l'animale è ancora legato all'estetica simbolista, cioè mira a rendere visibile un mito attraverso l'immagine. Ma in questo caso non si tratta di miti arcaici e primitivi, bensì della narrazione di un'epica nuova, incentrata sul mito dell'uomo moderno, artefice di un nuovo mondo, quello venuto fuori dalla rivoluzione industriale. Con questo dipinto l'autore si proponeva di "erigere un nuovo vibrante e dinamico altare alla vita moderna", di celebrare l'esaltazione del lavoro dell'uomo, motore del progresso che avanza inarrestabile, proprio come il cavallo che si spinge potentemente in avanti, il cui sforzo si fonde dinamicamente con quello degli uomini esasperatamente protesi nella stessa direzione.
Il soggetto dunque, da raffigurazione di un normale cantiere in fermento, si trasforma nell'esaltazione visiva della forza e del movimento e nella celebrazione dell'idea del progresso industriale nella sua inarrestabile avanzata. Il cavallo che sovrasta l'uomo è visto come la metafora di quel progresso inteso come forza indomabile.



La città che sale, definita dallo stesso pittore "una sintesi di lavoro, luce e colore", rappresenta il passaggio di Boccioni dall'esperienza divisionista, evidente nelle pennellate filamentose e curvilinee e nella tecnica di scomposizione del colore, a quella futurista. I tocchi di pennello, rapidi ed energici, hanno andamenti direzionati funzionali non alla costruzione di masse e volumi ma alla evidenziazione delle linee di forza che caratterizzano i movimenti delle figure. In questo modo, la consistenza del volume e il peso della massa sono sacrificati a una maggiore dinamicità della composizione. Le figure sono prive di contorni, generate dai corpuscoli colorati delle pennellate che formano delle onde di moto. I colori puri, accesi nei toni caldi e di grande intensità espressiva (rosso, blu e giallo), creano una sensazione di incalzante impetuosità, un vortice di luce e movimento. La realtà è trasfigurata in ritmi puri di linee e colori.
La composizione del quadro conserva ancora un impianto tradizionale, strutturato su schemi prospettici a diversi piani di profondità, con in basso le figure in primo piano e in alto le immagini sui piani più profondi. Il quadro si divide sostanzialmente in tre fasce orizzontali: nella prima in basso Boccioni colloca le figure umane, realizzate secondo linee oblique per evidenziare lo sforzo dinamico che esse compiono. Al centro dominano alcune figure di cavalli, delle quali quella centrale occupa buona parte della superficie del quadro; nella fascia in alto compare lo sfondo della periferia urbana.
Nella composizione prevalgono le linee curve, sviluppate secondo lo schema diagonale, che descrivono il movimento vorticoso degli uomini e dei cavalli; sullo sfondo, le linee rette proiettano la città verso l'alto, in un moto ascensionale che oltrepassa i limiti della tela.
Lo spettatore viene direttamente coinvolto nella dinamica del quadro, trascinato dalle sue linee di forza, incalzato a sua volta, come gli uomini dipinti in primo piano, dall'energia e dall'impetuosità del cavallo centrale, perché il dinamismo non è semplice descrizione fenomenica, ma una sensazione emotiva e uno stato d'animo.


L’orrore di Guernica


Pablo Picasso, Guernica, 1937, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid - Flickr CC BY-NC 2.0.

Nell'estate del 1937 si tiene a Parigi l’Esposizione universale. In Spagna infuria la guerra civile. In gennaio, il governo repubblicano commissiona a Picasso, riconosciuto e acclamato in tutto il mondo come il più grande genio artistico del tempo, un dipinto murale da collocare nel padiglione spagnolo. Picasso non ha ancora deciso il soggetto, quando il 26 aprile del 1937 aerei tedeschi e italiani, in appoggio alle truppe di Franco schierate contro le forze del legittimo governo repubblicano, devastano con un bombardamento spietato e selvaggio l'antica cittadina basca di Guernica, provocando un orrendo massacro tra la gente civile. Picasso, che aveva già fatto la sua scelta di parte schierandosi dalla parte dei repubblicani e intuendo il rischio del baratro in cui stava per precipitare l’intera Europa, decide d'impeto di esprimere il suo sdegno furioso e il suo impegno politico, facendo del murale destinato all’Esposizione la risposta all'atrocità di quella devastazione. Nasce così Guernica, un grande dipinto a tempera su tela di quasi otto metri per tre metri e mezzo. L'opera viene realizzata in appena due mesi, preceduta da un’intensa fase di studio, testimoniata da un cospicuo numero di schizzi e bozzetti.
Come afferma Argan (L’arte moderna, 1970), Guernica “può dirsi l'unico quadro storico del nostro secolo. È tale non perché rappresenta un fatto storico, ma perché è un fatto storico. È il primo, deciso intervento della cultura nella lotta politica: alla reazione, che si esprime distruggendo, la cultura democratica risponde per mano di Picasso, creando un capolavoro”. Da questo momento, gli intellettuali cominciano ad esercitare una pressione maggiore sui governi democratici, restii ad intervenire contro l’aggressione fascista alla Spagna per paura di accelerare il processo rivoluzionario delle classi lavoratrici, per indurli finalmente a difendere la democrazia.
Quello di Picasso è un atto di grande significato simbolico, che agisce col peso di tutta l’autorevolezza morale ed artistica del pittore, il primo esempio di intervento deciso dell'arte nella moderna lotta politica. Dopo l'esempio di Picasso, sarà impossibile per il mondo intellettuale europeo chiudere gli occhi sulle atrocità, sulle oscenità del nazifascismo e della guerra. E' sempre Argan ad istituire un confronto efficacissimo tra l'opera di Picasso ed Il giudizio universale della cappella Sistina, l'opera attraverso cui Michelangelo si era schierato con la chiesa cattolica romana contro le tesi protestanti che liquidavano il libero arbitrio e la responsabilità personale a favore della tesi della predestinazione. Picasso fa lo stesso, solo che invece di schierarsi con una chiesa, si schiera con la comunità laica del mondo libero e democratico. Guernica infatti non rappresenta solo l’episodio del bombardamento della città basca, ma è un grido universale contro lo scempio di ogni guerra e contro la distruzione della civiltà operato dai totalitarismi nazi-fascisti.
L’opera di Guernica, che ha al suo interno molti richiami alla storia dell’arte, è strutturata a trittico, centrato a sinistra sul toro e sulla donna col bambino in braccio, al centro sul cavallo e su altri personaggi, a destra sulla figura femminile con le braccia alzate; tutte e tre le parti culminano in un’espressione estrema di dolore, evidenziato dalla bocca spalancata, bloccata in un grido muto. L’ossatura della composizione è di impostazione classica, riscontrabile ad esempio nella simmetria delle figure e nella presenza di piani prospettici, mentre la triangolarità della composizione richiama le caratteristiche del frontone di un tempio greco.



Ma, continua Argan, “all'ordine classico si sovrappone una scomposizione formale di tipo manifestamente cubista: un linguaggio, dunque, nettamente moderno, che Picasso stesso aveva creato trent'anni prima”. Ma se a quel tempo il cubismo era stato soprattutto uno strumento analitico non solo di rappresentazione, ma anche di conoscenza di tutti gli aspetti della realtà e dei suoi lati non-apparenti, qui il linguaggio cubista diventa, oltre che visione simultanea, soprattutto frantumazione violenta, deformazione, distruzione, morte.
L’impostazione classica di Guernica non solo ha subito lo sconvolgimento delle forme e dello spazio da parte del linguaggio cubista. Guernica ha anche perduto i colori. Sulla tela ci sono solo il nero, il bianco e il grigio, stesi con una precisione piatta e asciutta che sacrifica l'effetto del rilievo e l'emozione cromatica ed evita sia gli accenti patetici che il coinvolgimento emotivo. Secondo alcune interpretazioni, l'assenza di colori deriverebbe dal fatto che Picasso aveva avuto informazioni dell’evento solo tramite reportage fotografici in bianco e nero, secondo altre invece questa soluzione è finalizzata ad accentuare il tono cupo e drammatico dell’opera. Secondo Argan, il monocromato e la mancanza di rilievo plastico nelle forme hanno un’altra spiegazione: “Il colore e il rilievo sono due qualità con cui la natura si dà alla percezione sensoria, si fa conoscere. Eliminare il colore e il rilievo è tagliare il rapporto dell'uomo col mondo: tagliandolo, non c’è più la natura o la vita. Nel quadro c'è, invece, la morte; e non è rappresentata con le sembianze della natura o della vita, perché quella morte non è il termine naturale della vita, è il contrario”. Per questo, secondo il critico, quest’opera non “rappresenta” la morte: la visione di Guernica è la “visione della morte in atto”, in cui lo spezzarsi delle linee e delle forme mette in scena un insieme di spezzoni deformati di corpi di uomini e animali confusi con pezzi di cose, di case, di spazi frantumati e ridotti in schegge, un insieme che è come un lacerante grido di dolore e di morte.
In Guernica non sono richiamati né un luogo, né un tempo specifici. Lo spazio rappresentato nell’opera è uno spazio indefinito, sia interno (ce ne accorgiamo dalla pavimentazione e dal lampadario centrale, che appare un enorme occhio da cui si diffonde, con taglio in diagonale, la luce artificiale) che esterno (si vedono infatti i palazzi in fiamme), perché il bombardamento ha sventrato le case e ribaltato l’organizzazione degli spazi, violando l’intimità domestica.
Chi sono le figure rappresentate in Guernica?
Partendo da sinistra verso destra notiamo subito una madre con un bambino morto in grembo, che richiama l’iconografia delle Pietà. Salendo verso il vertice del triangolo incontriamo tre figure di animali, che hanno fatto irruzione in uno spazio un momento prima fatto di affetti semplici e quotidiani: un toro, una colomba agonizzante nell’ombra e un cavallo. In molti hanno tentato di svelare le simbologie nascoste dietro questi personaggi: per alcuni il toro è il simbolo della Spagna offesa, per altri è invece espressione di bestialità cieca e di oscura brutalità, come il protagonista delle Tauromachie e delle Minotauromachie dell’artista catalano.
Il cavallo, figura centrale, sarebbe invece il simbolo della natura ferita oppure del popolo, al cui dolore universale dà voce con il suo grido straziante, un grido che accomuna tutti, uomini e bestie.


Pablo Picasso, La Testa di Cavallo. Schizzo per Guernica, 1937 - Flickr CC BY-SA 2.0

Toro e cavallo sono i due animali che hanno sempre interessato l'artista, i protagonisti delle corride. Ma queste ultime richiamano l’ideale di un duello compiuto (secondo la cultura spagnola) ad armi pari, dove un uomo armato di spada ingaggia la lotta con un animale più forte di lui rischiando la propria vita. Orbene, cosa c’è di leale in un bombardamento aereo, in cui morte e distruzione piombano dal cielo senza che gli si possa opporre resistenza? Il tempo dei duelli ad armi pari è finito: nella tela anche il toro ha uno sguardo smarrito e sofferente, il cavallo è ferito a morte da una picca, la spada è spezzata, l’uomo che la reggeva è ormai solo un simulacro mutilato.
Eppure dalla mano che regge la spada è sbocciato un pallido, fragile segno di speranza: un piccolo fiore, simbolo di pace e di rinascita.
Le figure sulla parte destra, invece, sono figure umane: una donna che grida e corre verso sinistra (l’intera l’opera sembra essere attraversata da una forza che spinge tutti verso quella direzione, come un’onda d’urto), un’altra figura di donna che regge un lume e si protende verso il lampadario, mentre nella parte terminale di destra inquietanti lingue di fuoco si sprigionano dalle case bombardate e lambiscono un’altra figura di donna che protende al cielo le braccia e il suo urlo di dolore.
Ogni figura raffigurata reinterpreta elementi di opere del passato come l’Incendio di Borgo di Raffaello, la Strage degli innocenti di Guido Reni e la Fucilazione del 3 maggio 1808 di Goya. Picasso in Guernica ha rappresentato una sintesi di tutta l’arte occidentale, perché è tutta la cultura e la civiltà di cui fa parte ad essere stata oltraggiata da quella barbarie.
Terminata l’Esposizione, Picasso donerà l’opera alla Spagna, ma il ritorno della tela in patria poteva avvenire solo a condizione che nel paese fosse terminata la dittatura e fosse stata ripristinata la democrazia. Per questo motivo l’opera fu conservata presso il Museum of Modern Art di New York e ritornò in Spagna solo nel 1981.

La Tentazione di Sant'Antonio di Salvador Dalì


Salvador Dalì, La Tentazione di Sant'Antonio, 1946, Museo reale delle belle arti, Bruxelles - Pinterest

L'opera La Tentazione di Sant'Antonio venne dipinta da Dalì nel 1946, mentre si trovava negli Stati Uniti. In seguito alle esplosioni della bomba atomica nel 1945, le ricerche del pittore catalano (come racconta nel suo Manifesto mistico del 1951) si volsero verso le recenti scoperte scientifiche, in particolare nel campo della fisica nucleare, e verso una forma di misticismo paranoico-critico, traendo ispirazione prevalentemente dall’iconografia religiosa occidentale. Quest’opera fu presentata al concorso indetto da Albert Levin - e vinto poi da Max Ernst - per la realizzazione dell’unica scena a colori del suo film, ispirato a Bel Ami di Maupassant.
Nel quadro di Dalì, nell’angolo in basso a sinistra, appare Sant’Antonio inginocchiato con in mano un crocefisso, formato da due legni uniti da una corda, con il quale tenta di esorcizzare le visioni demoniache che gli si presentano davanti: un cavallo bianco imbizzarrito, che sta per schiacciarlo, e quattro elefanti, tutti con lunghissime zampe, sottili e articolate come quelle dei ragni. Oltre alle zampe posteriori filiformi e all’espressione dal ghigno malefico e grottesco, questo cavallo rampante ha anche un’altra stranezza: i suoi zoccoli sono rovesciati, come se avessero subito una torsione, e grondano fanghiglia e liquami. Il suo aspetto dà contemporaneamente l’impressione della possanza e della leggerezza, in quanto unisce la forma massiccia dei fianchi, del petto e delle ossa degli arti anteriori con la consistenza vaporosa, “nuvolare”, dei muscoli e la filiformità delle zampe posteriori.



I quattro elefanti dietro trasportano sui loro dorsi oggetti e immagini simboli delle tentazioni, lusinghe del piacere dei sensi e di ricchezze mondane, dalla prevalente connotazione erotica. Il primo reca una piramide alla sommità della quale appare una donna nuda che si massaggia il corpo con provocatoria sensualità; il secondo trasporta un obelisco romano posto sopra una gualdrappa dorata, simbolo del potere (il richiamo è a una scultura del Bernini situata in piazza di Santa Maria sopra Minerva). Il terzo e il quarto trasportano una costruzione che ricorda una villa palladiana al cui interno si vedono i seni e il ventre di un corpo femminile. Gli ultimi tre hanno le zanne bianche, mentre il primo ne è privo. Un quinto elefante, in fondo e molto più lontano dagli altri, in parte nascosto dalle nuvole, trasporta sul dorso un’alta torre dal simbolismo fallico.
La particolarità affascinante di questi animali giganti è la deformazione allungata e sottilissima delle zampe. Il linguaggio surrealistico, fondato sulla visione onirica, permette di trasformare gli animali simbolo per eccellenza di pesantezza legata alla terra in creature che ispirano leggerezza, capaci di vivere in una dimensione di tramite tra la terra e il cielo, tra realtà e spiritualità. Questa figura di elefante era già presente in un’opera precedente, Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio. Anche qui le sue zampe lunghissime ed esili fanno ricordare un insetto che cammina sulla superficie dell’acqua.
In alto, all’angolo di destra, all’estremo della diagonale che parte dalla figura del santo, spunta dalle nuvole la cima dell’Escorial, il “buen ritiro” di re Filippo II, il castello-monastero luogo di salvezza dalle tentazioni terrene, simbolo di ideale ascetico, di rinuncia al mondo terreno, segno indicante la vittoria conclusiva che metterà fine alla lotta interiore che si agita nell’animo del santo.
Il corpo nudo di quest’ultimo appare energico e muscoloso, pur nella sua magrezza, e nello stesso tempo fragile ed esposto, sovrastato com’è dalle colossali apparizioni animali. La sua postura è ferma e il braccio che solleva la croce è teso, senza tentennamenti o insicurezze. Egli oppone la sua fede alla furia che lo sta per travolgere. Dinanzi a lui una terra arida e spoglia e un teschio memento mori, spesso ricorrente nell’iconografia delle “tentazioni”.
Lo sfondo deserto aumenta l'atmosfera surreale e identifica subito il luogo come un mondo altro, diverso dalla realtà, un universo onirico e visionario, inconscio e delirante, in cui gli oggetti e i personaggi sono deformati nel senso del paradosso, mettendo cioè in evidenza gli aspetti inquietanti delle cose mediante contraddizione (ad esempio pachiderma-leggerezza). La precisione illusionistica, quasi iperrealistica, del disegno ha per scopo quello di razionalizzare il delirio e di aumentare lo sconcerto e lo smarrimento che queste assurde apparizioni intendono provocare (la ricreazione del delirio onirico in modo oggettivo e sistematico è definita dal pittore “metodo paranoico-critico”).
Non è dato di sapere se Dalì avesse mai visto le Tentazioni di Sant’Antonio del pittore napoletano Salvator Rosa (1615-1673), conservate presso la Pinacoteca Rambaldi di Coldirodi. In quest’opera la tensione drammatica del soggetto, la posizione del santo e le creature inquietanti che popolano la scena ricordano la composizione del pittore catalano.

Salvator Rosa, Le tentazioni di sant’Antonio, ca. 1645, Museo di Villa Luca, Pinacoteca Rambaldi, Coldiroli - Sanremo - Pinterest

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