venerdì 14 dicembre 2018

Fotografia e didascalia

Thomas Ruff, dalla serie "Porträts".

Cominciamo questo post con un’affermazione talmente ovvia da sembrare banale e che, purtuttavia, è alla base di dibattiti e discussioni, soprattutto tra i fotoamatori e i cultori di fotografia: la didascalia di un’immagine fotografica non costituisce un semplice elemento accessorio, ma rappresenta una componente essenziale, determinante nell’orientare la fruizione dell’osservatore.
Le funzioni principali di questo tipo di testo consistono nel dare informazioni riguardo l’immagine e guidare l’occhio del fruitore nell’osservazione della foto e nella comprensione del suo significato. Jean Keim, nel suo saggio La fotografia e la sua didascalia (1963) accoglie la teoria di Barthes secondo cui la fotografia è un messaggio senza codice. La comunicazione che essa trasmette, pertanto, rimane ambigua, imprecisata: “la fotografia rischia sempre di essere fraintesa quando non abbia l’ausilio indispensabile della parola”. L’unità di immagine fotografica e testo garantisce la comprensione del significato a un livello più profondo di quello che si avrebbe dall’osservazione di una fotografia priva di testo, in quanto quest’ultimo è il solo in grado di precisarne il significato, contestualizzando l’immagine nel tempo, nello spazio e nell’azione cui appartiene.

Si possono classificare le didascalie secondo due macro tipologie: le didascalie denotative e quelle connotative. La prima categoria è caratterizzata da testi che descrivono l’immagine senza fornirne un’interpretazione. In genere sono quelle che riportano semplicemente l’indicazione del luogo di scatto e della data, oppure contengono una breve descrizione verbale di ciò che avviene nell’immagine, fornendo quelle informazioni minime che aiutino a comprendere il contesto della fotografia (questo tipo di didascalia descrittiva è quella generalmente usata nell’ambito della fotografia documentaria).
La didascalia connotativa, invece, orienta la lettura dell’immagine aggiungendovi significato. Questa tipologia comprende fotografie accompagnate da didascalie la cui funzione è esplicitare, o costruire dal nulla, significati metaforici che l’autore vuole attribuire alle immagini, oppure creare un gioco allusivo di rimandi o ancora creare un effetto surreale o ironico (quando, ad esempio, le parole contraddicono apertamente ciò che si vede nella fotografia o richiamano provocatoriamente l’attenzione dell’osservatore su alcuni particolari dell’immagine). Questo genere di didascalia spesso va oltre i fatti, aggiungendo una nuova dimensione, in quanto combina le proprie connotazioni con quelle della fotografia per produrre nello spettatore un’immagine nuova, che non esiste né nelle parole né nella fotografia, ma solo nella loro giustapposizione.
Il dibattito riguardante l’opportunità di aggiungere un testo esplicativo alle fotografie è tuttora aperto.
Perché si rende necessaria la presenza di un testo didascalico? Questa esigenza coinvolge la questione dello statuto ontologico della fotografia, cioè il suo rapporto con la realtà. Il ritaglio spazio – temporale, costitutivo dell’atto fotografico, isola un frammento di mondo facendo sì che la fotografia non coincida con il reale ma ne riproponga una porzione, facilmente assoggettabile a interpretazioni anche contrastanti. A causa di questa frattura tra realtà e immagine, allora è necessaria una spiegazione aggiuntiva che trasformi l’instabile messaggio iconico in un definito messaggio linguistico, cioè che funzioni da “ancoraggio”. Con questo termine Barthes intende la caratteristica del testo scritto di fissare la “catena fluttuante dei significati” dell’immagine, che, per sua natura è polisemica: il messaggio linguistico è una delle tecniche che le società sviluppano per “combattere il terrore dei segni incerti” e facilitare quindi l’identificazione degli elementi della scena mediante una descrizione che orienta la percezione e l’interpretazione dell’osservatore.
La questione è se un testo che accompagna un’immagine costituisca una necessaria precisazione del significato o piuttosto un’interpretazione limitativa, in grado di sopperire a quella fluttuante equivocità e vaghezza della fotografia (il “terrore degli incerti” di cui parla Barthes). Lo stesso Walter Benjamin, a conclusione della sua Piccola storia della fotografia, afferma:
“La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini fuggevoli e segrete, il cui effetto di shock blocca nell’osservatore il meccanismo di associazione. A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della letteralizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa”.
D’altra parte fissare la fotografia in un messaggio linguistico che non le è proprio, comporta un irrigidimento in una definizione univoca e permanente della polisemia propria di ogni immagine.
“le parole parlano più forte delle immagini […]. La didascalia è la voce mancante, e ci si aspetta che esprima la verità. Ma anche una didascalia perfettamente esatta è solo una possibile interpretazione, necessariamente limitativa, della fotografia alla quale è unita. È un guanto che s’infila e si sfila con facilità”. (S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società)
Nonostante di fronte a un’immagine lo spettatore avverta come dominante il ruolo semantico dell’immagine, resta comunque il fatto che in questa interazione il ruolo della didascalia non va affatto sottovalutato in quanto, nella sua natura di testo scritto, si presenta come un veicolo comunicativo semplice e rassicurante. E in questa funzione apparentemente così disarmante le parole diventano un supporto di straordinaria forza connotativa, in grado anche di favorire interpretazioni arbitrarie, per indirizzare la decodifica dell’immagine nella direzione voluta.
Cos’è dunque una didascalia? Una descrizione oggettiva e necessaria o una arbitraria interpretazione, che limita la polisemia dell'immagine?
Per alcuni, “la didascalia non si limita a illustrare l’immagine, ma la rielabora, approfittando della sua voce debole e della sua ambiguità, […] se le foto parlassero chiaro non avrebbero bisogno di alcuna didascalia”. (M. Smargiassi, Un’autentica bugia, Contrasto, Roma, 2009)
Certamente la presenza della didascalia è imprescindibile nel caso della fotografia-testimonianza (ad esempio nel ritratto o nella fotografia giornalistica). Una fotografia, infatti, diventa testimonianza solo se è inserita in una precisa strategia comunicativa. Se questa manca, cioè se è assente il contesto di presentazione comprensivo del messaggio verbale, “l’immagine ridiventa “muta”, cioè ridiventa un’immagine, una traccia visiva del mondo anziché un’asserzione sul mondo. Un’immagine-testimonianza amputata del suo contesto verbale è incapace di assolvere la sua funzione: essa allora va spesso alla deriva, o verso una ricezione di tipo estetico e formale (è così che i reportage fotografici di Capa si ritrovano nei musei), o verso delle ricezioni individuali ‘selvagge’.” (Schaeffer, L’immagine precaria)
Quando una fotografia circola in un canale di comunicazione mediatico, il messaggio trasmesso è quello del canale mediatico, non quello dell’immagine. Quest’ultima, però, ne aumenta di molto la forza persuasiva, grazie al suo valore indicale, cioè di impronta di una realtà effettiva. E siamo portati a ritenere questa supposta aderenza della fotografia al referente una garanzia della verità dell’immagine.
Ma non è solo la fotografia-testimonianza a trovare senso all’interno di un contesto di presentazione. “Mostrare un’immagine – scrive Michele Smargiassi – non è un’operazione neutra: ne costruisce il significato tanto quanto, se non più, del processo di fabbricazione materiale. Una volta prodotta come immagine finita, la fotografia non ha ancora terminato il percorso attraverso cui si carica di significati ulteriori, spesso diversi da quelli originariamente assunti o intesi. Uscita dalle vaschette della camera oscura o dal plotter elettronico, l’immagine imbocca il canale che la porterà sotto gli occhi del fruitore, un canale con molte diramazioni possibili, a ciascuna delle quali corrisponde uno specifico carico connotativo” (M. Smargiassi, Un’autentica bugia, p. 152)
Queste aggiunte di significato sono varie e comprendono anche i “messaggi fiancheggiatori, verbali e non” che accompagneranno l’immagine nel contesto di presentazione e di ricezione. Anche quando manca la didascalia, l’immagine non è mai 'nuda', ma è sempre inserita in un contesto significante, di cui fa parte anche il luogo in cui è esposta o il supporto che la contiene o le altre immagini con cui è in relazione. Anche quando la didascalia è “Senza titolo”, in realtà ci si trova di fronte ad una precisa dichiarazione di intenti dell’autore, che si sente in dovere di confermare con la didascalia l’ineffabilità del proprio prodotto, la sua assoluta impossibilità di essere descritto attraverso il linguaggio oppure la richiesta allo spettatore di un’ulteriore riflessione o uno sforzo di immaginazione, che vada oltre il semplice riconoscimento di ciò che si vede.
Se liberassimo l’immagine dall’involucro che la significa, esiste la possibilità che essa manifesti una sua “significanza originale” (sempre Smargiassi)? La conclusione è negativa, perché anche se ci trovassimo di fronte a una fotografia nuda e pura, il ricevente che la guarda non è una tabula rasa, ma la sua percezione è sempre “informata” dal suo sapere laterale, dalla sua cultura e dai suoi vissuti personali.
La fotografia, dunque, non ha una voce propria? Non si dice – continua Smargiassi – che la fotografia vale più di mille parole? Si, vero, ma quelle parole sono soprattutto sostantivi e aggettivi, mentre all’immagine fotografica mancano del tutto i verbi. Cioè una fotografia dà indicazioni chiare e precise su 'come è' un soggetto, non su 'cosa fa'. Ha un enorme potere descrittivo, ma uno scarso potere discorsivo: “tra il soggetto chiaro e ben definito leggibile in ogni immagine e il suo predicato invisibile e fuori campo manca il verbo; e senza i verbi, motore del senso, una fotografia non dà accesso al senso profondo delle cose. […] Spiace dover contraddire in questo Henri Cartier-Bresson e la sua appassionata difesa dell’autonomia intellettuale della fotografia, della quale “non c’è nulla da dire, bisogna solo guardare”. La fotografia non possiede un senso compiuto e autosufficiente, per questo è così malleabile. […] non esiste un grado zero dell’immagine fotografica, interamente denotativo, libero dalle connotazioni che ne informano/deformano la lettura”. (Un’autentica bugia, p. 154-155)
Didascalia si, didascalia no. Non c’è una risposta univoca. In ogni caso, dipende dalla funzione che si vuole dare all’immagine, al canale che si è scelto in cui farla circolare, al messaggio che le si vuole attribuire o da cui la si vuole lasciar libera. Perché alla fine il significato di un'immagine è sempre un processo di negoziazione tra le varie parti in campo, tra le intenzioni dell'autore, il testo, il suo contesto di presentazione e il ricevente.

Come immagine da affiancare a questo post, ho scelto una fotografia che riprende alcuni famosi ritratti di Thomas Ruff. Come si sa, queste fotografie sono prive di didascalia, perché questi non sono ritratti veri e propri, cioè immagini che hanno la funzione di testimoniare l’identità di qualcuno. D’altra parte lo stesso Ruff dichiara:
“Non credo che i miei ritratti possano rappresentare personaggi reali. Io non sono interessato a produrre una copia della mia interpretazione di un soggetto. È più la mia personale idea di fotografia che si accentua nei miei ritratti. Credo che la fotografia possa riprodurre solo la superficie delle cose. Lo stesso vale per un ritratto. Riprendo immagini di persone allo stesso modo di un busto di gesso.”
La mancanza di didascalia, pertanto, è pienamente funzionale al progetto dell’autore, in quanto i suoi ritratti sono in realtà la negazione del "ritratto" come genere canonico; non vogliono affermare nulla a proposito delle persone rappresentate, non vogliono "significare", ma riprodurre unicamente il tratto grafico del viso, mostrando così come funziona il ritratto dal punto di vista fotografico (che si limita a riprodurre delle superfici).
Tuttavia, non si può certo affermare che queste fotografie assolvano la loro funzione solo per se stesse. Bisogna considerare, infatti, l’insieme degli elementi che costituiscono il loro contesto di presentazione, a partire dal formato gigante delle immagini per finire alle dichiarazioni, interviste, presentazioni di quest’opera reperibili un po’ dappertutto, i quali concorrono a costruire e ad aggiungere ulteriore significato alle fotografie di partenza.

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