venerdì 2 novembre 2018

Railowsky

Un breve racconto, ispirato a una delle fotografie più famose della storia.
Non ve la presento neanche, perché tanto la conoscete tutti.
Chiaramente il racconto è senza alcuna ambizione letteraria, scritto per puro diletto.

Henri Cartier-Bresson, Derrière la gare Saint-Lazare, Paris, 1932.

Railowsky

Quella mattina il signor Gregorio Comandini non si risvegliò nel suo letto, nel suo bilocale al quarto piano di Viale Argonne. Un brivido di freddo gli scosse le ossa, avvolte in un vestito che non ricordava di avere. Un vestito di altri tempi, gli sembrò, aprendo gli occhi un poco cisposi.
Ma dove si trovava? In una strada? In una piazza? Non riusciva a capire bene. Ma il fatto davvero inammissibile era che si trovasse all’aperto, in un luogo sconosciuto, in una mattina (almeno così gli parve di poter intuire dalla luce che avvolgeva le cose intorno) piovosa e grigia come l'argento brunito. Era seduto con le spalle poggiate a una ringhiera di ferro. Finalmente si accorse di avere i pantaloni bagnati sul di dietro. Era ancora assorto in questo stupefacente mistero quando di fronte a sé vide un’ombra, un uomo con un vestito scuro e un borsalino. Sembrava apparso dal nulla. Gli passò davanti poco lontano, correndo e saltando sui pioli di una scala al centro di una larga pozzanghera. Ad ogni salto, la scala ballava nell’acqua, creando dei solchi ovali tutt’intorno. Neanche il tempo di realizzare cosa fosse che l’uomo era scomparso.

Ma che storia è questa, pensò tra sé, con la mente ancora intorpidita, il signor Gregorio. Facendo scricchiolare le giunture indolenzite, si tirò su e cercò di guardarsi intorno. Alla sua destra, un doppio poster con una scritta lo lasciò di sasso. La fissò con una mano ancora sull’occhio che stava sfregando e il labbro cadente. RAILOWSKY.
Non era possibile. Stava sognando. Accanto alla scritta, un altro poster, con la sagoma di una ballerina che sembrava spiccare il volo. Anche questo manifesto si ripeteva in doppio. Guardò in basso: un mucchio di pietre alla sua destra, alla sua sinistra una carriola, in mezzo la propria sagoma riflessa nell'acqua. Non aveva più dubbi, si trovava dentro un sogno. Ma allora, perché sentiva tanto freddo e quella fastidiosa sensazione di umidità al cavallo dei pantaloni? Si infilò le mani nelle tasche e inghiottì. Stava sognando oppure se l’era fatta addosso. Non sapeva quale dei due pensieri fosse più insopportabile: una vescica ormai parecchio compromessa o essere piombato nel bel mezzo della Parigi del 1932, e precisamente dietro alla Gare St. Lazare.
Perché Gregorio non aveva più dubbi. La scena in cui si trovava era quella della celebre fotografia che teneva incorniciata sulla parete di fronte al letto. Il suo HCB, il suo “artista” (come amava chiamarlo) preferito. Guardò verso la pozzanghera. Dopo appena due secondi, ecco apparire di nuovo l’ombra con il borsalino, che saltellò sui pioli della scala per poi svanire due metri oltre. I suoi passi di corsa erano talmente leggeri che non facevano rumore e non sollevavano neanche schizzi.
Dalla sua posizione lo scenario era completamente diverso da quello della foto. Un pensiero lo sorprese e aguzzò la vista: no, non c’era il giovane HCB lì di fronte con la sua macchina, pronto a cogliere l’istante decisivo.
L’istante decisivo. Ripeté Gregorio dentro di sé. E c’era anche lui dentro. Si guardò intorno. L’aria di pioggia aveva un odore metallico. Posò ancora lo sguardo sul poster che annunciava il Circo Railowsky, e poi sulla ballerina che sembrava volare. L’istante decisivo: quello in cui anche l’uomo di corsa avrebbe “volato”, staccato dal suolo della strada. Cercando di ignorare l’umidità dei calzoni avanzò verso la strada, piazzandosi poco oltre la scala in mezzo alla pozzanghera. Due istanti dopo apparve l’uomo con il cappello: saltellò sui pioli, ma fu costretto ad arrestarsi davanti alla figura di Gregorio, che gli ostacolava la corsa.
“Chi è lei? La prego si sposti e mi faccia passare”, disse questi, in un bel francese parigino.
“Mi chiamo Gregorio”, rispose il signor Comandini, che il francese l’aveva imparato lavorando parecchi anni in Piemonte, vicino al confine.
“Si può spostare, per cortesia?”, chiese l’altro.
“Non potrebbe fermarsi lei, solo un momento?”, chiese Gregorio.
“No, non posso fermarmi”.
“La prego, le rubo solo poco tempo”.
“Cos’è il tempo?”, chiese l’uomo con aria stralunata. “Non conosco questa cosa. Quindi non vedo come lei possa rubarmela.”
Gregorio strabuzzò gli occhi. “In che senso non conosce il tempo? Il tempo! Le ore, i giorni, i mesi…. Il presente, il passato...”, non concluse la terna, perché lo sguardo dell’altro era ancor più stranito di prima.
“Mi scusi”, disse questi, ma io non so di cosa stia parlando. E adesso, cortesemente, mi lasci passare. Non posso tenere i piedi appoggiati sulla strada”, e il suo tono sembrò virare verso una nota di apprensione. Gregorio lo guardò. Sotto il cappello nero, il viso di quell’uomo si era fatto di uno strano pallore.
“Ma io ho bisogno di sapere”, insistette Gregorio. “Come faccio ad andarmene via di qui? Questo non è il mio posto. Questo non è il mio tempo!”.
“Ma come glielo devo ripetere”, disse l’uomo con tono sgomento. “Qui non c’è questa cosa che lei chiama tempo! La prego, non posso stare con i piedi per terra. Mi faccia passare!”, e cercò di scansare chi gli bloccava la strada.
Ma Gregorio era ostinato. “Mi dica almeno come faccio ad andar via di qui!”. Lo afferrò per le spalle e cominciò a scuoterlo. Il volto dell’altro era ormai una maschera di cera, scolpita da un’espressione di terrore. Sotto la presa, il corpo dell'uomo sembrava burro fuso. Ad un tratto Gregorio si accorse che le sue mani stringevano il vuoto. L’uomo si era come dissolto, svanito nell'umidità di quel mattino. Guardò il muro: la scritta Railowsky era ancora lì, in doppia copia. Insieme all’immagine della ballerina, prometteva divertimento ed evasione. Si sentì girare violentemente la testa. Fece in tempo ad arrivare vicino all’inferriata, poi cedette alle emozioni e perse i sensi.
Quando riaprì gli occhi, un raggio di sole, che filtrava da un'imposta, lo investì con il suo tepore. Aveva sognato! Ma si, l’aveva sempre saputo che si trattava solo di un sogno. Si tastò il retro del pigiama: asciutto. Meno male, anche la vescica era salva. Si mise a sedere nel letto, inforcò gli occhiali e guardò di fronte a sé: la fotografia di Cartier-Bresson era al suo posto, appesa alla parete. Aggrottò la fronte e fece gli occhi a fessura: vide la doppia scritta Railowsky, la ballerina, le pietre per terra e la scala a pioli lì, nella pozzanghera della strada. Ma dell’uomo con il borsalino, sospeso nel suo salto, neanche più l’ombra.
Lontano, in piedi vicino all’inferriata, con le mani infilate nelle tasche dei calzoni, una figura immobile di cui non si distingueva il volto. Gregorio deglutì e quel giorno rimase a letto più del solito.

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