lunedì 29 ottobre 2018
Lo spettatore al cinema
Il semiologo Christian Metz, in un importante studio del 1980 su cinema e psicanalisi, osserva come lʼesperienza del guardare senza essere visti accomuna il voyeur e lo spettatore cinematografico, in quanto in entrambi agiscono delle ʻpulsioni a vedereʼ che nascono da ciò che Metz definisce il desiderio perduto, cioè il desiderio per lʼoggetto-feticcio (ciò che lo spettatore vede proiettato) che viene mantenuto a distanza in maniera tale che la sua pulsione percettiva si limiti ai sensi a distanza (vista e udito), traendo piacere soprattutto dalla vista: si vede ma non si tocca. Il film, per il suo spettatore, si svolge in un “altrove” che è vicinissimo e inaccessibile nello stesso tempo.
La maggior parte delle arti visive (teatro, cinema, pittura, scultura) si fondano su questa sorta di sadismo visivo, mentre quelle che si basano sui sensi a contatto (gusto, odorato, tatto) sono spesso considerate minori (arte culinaria, dei profumi etc.). Queste ultime sono pratiche che invadono direttamente la sfera personale del soggetto, agendo sulla sua fisicità e portando ad avere un contatto immediato con l’oggetto. Mentre le arti visive esasperano il desiderio e l’attesa.
Quindi il cinema opera sulle pulsioni dei sensi a distanza stimolando il piacere scopico di un individuo, del quale ne dirige lo sguardo.
Ma come opera il dispositivo cinematografico? Consideriamo alcuni temi:
1. Lo sguardo. In genere spettacolo e spettatore si implicano a vicenda, perché non c’è uno senza l’altro. Tra i due poli, il legame è assicurato soprattutto dallo sguardo. Quello che si esplica nell’esperienza cinematografica è uno sguardo che ha una durata, che è mobile (in quanto si misura con una realtà in movimento), che si fonda sul desiderio e che si prolunga nell’immaginazione del soggetto.
2. L’impressione di realtà. L’esperienza cinematografica è caratterizzata da un paradosso: da un lato ciò che lo spettatore ha di fronte non è il mondo reale, ma una sua rappresentazione, fatta di immagini in movimento e di suoni, che trasforma e organizza il mondo in un insieme di segni. Dall’altro lato, tuttavia, soprattutto a causa della natura fotografica delle immagini, questa rappresentazione ha tutta l’evidenza della realtà: “di qui la natura ‘irreale’ della realtà rappresentata, e insieme l’ ‘effetto di realtà’ che la rappresentazione possiede”. (Casetti, L’occhio dello spettatore)
3. Lo spazio di fruizione. L’esperienza cinematografica si svolge in un ambiente particolare, una sala al buio, caratterizzata dalla presenza di alcuni elementi: innanzitutto uno schermo su cui vengono proiettate immagini in movimento (collegate all’emissione di suoni), il proiettore e un insieme di individui seduti in delle file di poltrone che ricevono gli stimoli provenienti dallo schermo, ma a cui è sottratta la visione del proiettore che li emette. Si tratta di un dispositivo vero e proprio, che produce una forma specifica di visione e che richiede l’osservanza di determinate regole da parte dello spettatore (deve stare fermo, in silenzio, seduto al suo posto) e che presenta caratteristiche che non possono essere modificate (prima tra tutte il buio) che permettono la completa immersione dello spettatore all’interno dell’esperienza cinematografica, senza la possibilità o il pericolo di subire distrazioni provienienti dal mondo reale esterno a quello filmico. Mariagrazia Fanchi definisce «l’esperienza immersiva, centrata sullo schermo, caratterizzata da un rapporto esclusivo con il testo, oggetto di contemplazione e fonte di un piacere voyeuristico» con il termine gazing. Con il termine glance viene invece indicata una forma di fruizione superficiale, disattenta e discontinua, quella che si realizza nella visione di film attraverso dispositivi portatili, che trasformano il film da oggetto privilegiato dell’attenzione dello spettatore a puro oggetto di distrazione. In questo tipo di visione, tra lo spettatore e il film non si crea un rapporto solido e continuo; al contrario tra essi esiste un rapporto discontinuo, distratto, in cui lo spettatore non riesce in alcun modo ad immergersi nell’universo filmico rappresentato, ma ne coglie solo alcuni aspetti.
Ma torniamo al dispositivo cinematografico. Come scrive ancora Casetti, esso “è mirato alla concentrazione dell’attenzione e alla costruzione di un’illusione: quanto viene proiettato sullo schermo tende ad occupare l’intero campo visivo, e insieme a dare l’impressione di essere una realtà ‘vera’. Ciò conferma il fatto che lo sguardo dello spettatore incontra un mondo virtuale: il suo occhio si confronta, e in modo quasi esclusivo, con qualcosa che sembra avere i caratteri del mondo effettivo, ma senza averne l’effettiva consistenza. Lo sguardo dello spettatore, ma anche lo sguardo del pubblico: nell’ambiente costituito dal dispositivo sala/schermo/proiettore/pellicola, l’esperienza individuale si fonde con (o diventa) esperienza collettiva.” (Casetti, L’occhio dello spettatore)
Quello cinematografico amalgama tre spazi: quello sociale (l’insieme dei comportamenti del pubblico), quello discorsivo (l’insieme dei segni di cui è costituito il film) e quello tecnologico (cioè gli apparati che permettono il funzionamento del dispositivo cinematografico). Questi tre spazi non sono giustapposti, ma concorrono a formare uno spazio nuovo, in cui tutti gli elementi sono connessi. “Per avere un’idea chiara di questa situazione, basta guardare allo spettatore e a ciò che egli si trova a fronteggiare. Gli è chiesto di concentrarsi sullo schermo, ma anche di interagire con gli altri spettatori in sala; di mantenere una relativa immobilità fisica e insieme di compiere le più sorprendenti piroette mentali; di proiettarsi in un mondo immaginario e insieme di portare con sé tutto il proprio concreto vissuto; di adeguarsi ad un ambiente del tutto peculiare e insieme di neutralizzarne la presenza; di sentirsi come nella realtà corrente e insieme di svegliarsi al termine della proiezione del film. L’esperienza cinematografica è veramente fatta di una vertiginosa sovrapposizione di istanze e di piani, che porta chi segue un film ad abitare più luoghi insieme, e nello stesso tempo a transitare dall’uno all’altro senza soluzione di continuità.” (Casetti, L’occhio dello spettatore)
Se guardiamo il cinema odierno, a distanza di oltre un secolo dalla sua invenzione, le cose non sembrano cambiate poi molto. Il dispositivo presenta sicuramente delle grosse innovazioni (schermi digitali ad alta definizione, impianti sonori sempre più potenti), ma la struttura di fruizione si mantiene grosso modo invariata. Alcuni segnali, però, sembrano testimoniare che qualcosa sta accadendo in grado di trasformare profondamente il concetto di spettatore e lʼistituto stesso del cinematografo.
A parte l’aumento della fruizione filmica attraverso dispositivi più a contatto con il corpo dello spettatore, come tablet e smartphone, ci sono altri segnali che suggeriscono una direzione in cui viene messa in crisi la sostanza profonda della visione cinematografica, costituita dalla fruizione di un racconto invariabile, in cui lo spettatore non può intervenire per condizionarne gli sviluppi drammatici. Il nuovo e sempre più pressante bisogno di interattività potrebbe avere risvolti interessanti in un futuro prossimo.
Un regista come Peter Greenaway, ad esempio, che in unʼintervista ha dichiarato che il mondo è stanco del cinema così come l’abbiamo conosciuto finora, ha prodotto un game-film che è già in rete e nel quale lo spettatore-giocatore può far prendere alla storia innumerevoli risvolti.
Il game, Tulse Luper journey ha la struttura di un film in cui si possono scegliere i personaggi e le scene in cui ʻvivereʼ lʼesperienza virtuale.
Sono le prime avvisaglie di una svolta? È difficile dirlo e altrettanto prevederlo.
Quello di Greenaway non è l’unico esperimento cinematografico in cui viene data allo spettatore la possibilità di decidere sulle sorti della storia, collaborando, in un certo senso, alla regia e alla sceneggiatura del film. Una situazione che somiglia molto ai videogames in cui non vi è uno spettatore ma un attore che si immerge in una storia e agisce virtualmente determinando le situazioni. D’altra parte, oggigiorno, i videogiochi vanno assumendo sempre più la forma di un film. Scene iper-realistiche, musica di sottofondo, titoli di testa e di coda, stacchi di prospettiva etc. Con questo sistema un film dʼazione può trasformarsi in un videogioco ad altissima risoluzione dando la possibilità allo spettatore di interagire con le sequenze del film.
Sicuramente il videogioco non sostituirà mai il cinema, ma è evidente questa nuova esigenza di interattività, resa peraltro possibile dagli apparati tecnologici a disposizione.
L'immagine è un fotogramma tratto dal film "Rear Window" (1954), di Alfred Hitchcock , vera metafora dell'esperienza cinematografica e acuta riflessione metafilmica sullo statuto del cinema e sulla condizione "perversa" e contraddittoria di spettatore. La finestra è uno schermo in cui si gioca la dialettica primaria del campo-fuori campo, mentre il protagonista (che è un fotoreporter, professione che si fonda sullo sguardo) si trova nella stessa posizione dello spettatore, distanziato dall'azione, impossibilitato a intervenire e preso esclusivamente dalla "visione". L'azione e lo scopo dello spettatore, proprio come quelli del voyeur, si riducono esclusivamente all'atto del guardare e al piacere di esso. Tale piacere, per il voyeur come per lo spettatore, è dato dal fatto che entrambi possono introdursi indisturbatamente nell’intimità degli oggetti del proprio desiderio, senza essere a loro volta guardati e rimanendo a una distanza di sicurezza.
Proprio perché lo spettatore è lontano e non può intervenire, il regista può mettere in atto quel meccanismo controllato che bilancia esibizione e occultamento e che fa ricorso a trucchi illusionistici, che è appunto il dispositivo stesso di un film.
Di questo tema ho parlato anche qui:
https://finestresuartecinemaemusica.blogspot.com/2017/12/il-voyeur-alla-finestra.html
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