La visione di un film (come di altre espressioni visive) è una forma di fruizione che oscilla tra due poli opposti: partecipazione ed estraniamento. La partecipazione è un qualcosa che va al di là del “vedere”: non si assiste solo a quanto viene raccontato; lo si vive in prima persona. Lo straniamento accade, invece, quando il film ci sembra distante e proviamo un senso di estraneità.
La partecipazione prevede diversi gradi di coinvolgimento: si va dalla semplice sincronizzazione motoria con i gesti del personaggio ad una completa immedesimazione con la storia e i suoi protagonisti. “Il cinema è proprio questa simbiosi: - scrive Edgar Morin, nel suo Il cinema o l’uomo immaginario - un sistema che tende ad integrare lo spettatore nel flusso del film; un sistema che tende ad integrare il flusso del film nel flusso psichico dello spettatore”.
Tale partecipazione è favorita dalle condizioni della fruizione filmica: l’immobilità della postura fa perdere allo spettatore il senso del proprio corpo, il buio in sala annulla le coordinate spazio-temporali esterne, lo stimolo sonoro convoglia l’attenzione sul racconto. La visione filmica costituisce, di fatto, l’attraversamento di una soglia e l’ingresso in un mondo altro.
La partecipazione, inoltre, fa leva su dei meccanismi psichici ricorrenti, tramite i quali lo spettatore partecipa affettivamente alla vicenda filmica: lʼidentificazione e la proiezione. Secondo lo psicanalista Cesare Musatti, durante la visione di un film, lo spettatore vive un distacco tra l’ambiente fittizio della proiezione sullo schermo e l’ambiente reale dell’esperienza. Questi due spazi non possono essere vissuti contemporaneamente nell’esperienza cosciente dello spettatore, quindi accade che quest’ultimo diventa meno attento all’esperienza propriocettiva (l’ambiente reale dell’esperienza), prediligendo l’esperienza visiva (il film). Questo momentaneo oblio del mondo reale, che si sperimenta nell’immobilità della postura e nell’oscurità della sala, fa sì che lo spettatore esperisca una situazione di regressione che lo porta ad attivare i processi di identificazione e di proiezione, meccanismi di difesa che l’individuo mette in atto fin dalla prima infanzia, periodo nel quale la sua identità è ancora in costruzione.
L’identificazione è, secondo Freud, “la più primitiva e originaria forma di legame emotivo”, un legame che si sviluppa precocemente, basato sull’acquisizione delle caratteristiche dell’oggetto amato. In questo modo l’individuo plasma il suo modo di essere mutuando da un altro individuo parti, comportamenti e atteggiamenti propri di quest’ultimo. Nel caso della visione di un film, per identificazione si definisce il processo psicologico con cui un soggetto si mette nei panni dellʼattore (non sempre il protagonista), cioè opera un transfert, agevolato dalla grande impressione di realtà che il cinema offre rispetto ad altre forme di rappresentazione, come il teatro o il romanzo. Attraverso questo meccanismo, lo spettatore può assumere una nuova identità, che lo proietta fuori di sé e lo identifica con qualcun altro, magari con dei personaggi che gli consentono la soddisfazione di impulsi e desideri che, nella realtà, gli sono proibiti o autopreclusi.
Oltre all’identificazione, nello spettatore è presente un altro originario meccanismo di difesa, quello della proiezione. “Sul piano strettamente psicoanalitico, per proiezione si intende quel processo con cui lʼindividuo espelle da sé e localizza nellʼaltro, persona o cosa, delle qualità, dei desideri e dei sentimenti che egli non riconosce o rifiuta. […] Sebbene in maniera subordinata, anche il meccanismo della proiezione agisce nella situazione cinematografica. La struttura, generalmente rigida ed articolata, del linguaggio filmico consente un limitato esercizio della proiezione. Tuttavia essa si manifesta, palesemente, ogni volta che lo spettatore tende ad attribuire ai personaggi del film sentimenti ed intenzioni che sono, più o meno consapevolmente, suoi”. (Alberto Angelini, Psicologia del cinema)
Un film può dunque funzionare come uno specchio, un momento fondamentale di svelamento dell’individuo a se stesso. In tal senso, per alcuni studiosi, il termine «rispecchiamento» è più adatto di quello di identificazione per definire la relazione fra vissuto affettivo dello spettatore e vissuto del personaggio. Nel suo Le signifiant imaginaire, Metz sottolinea l’analogia tra lo specchio e lo schermo cinematografico, a cominciare dai meccanismi di identificazione tra il soggetto-spettatore e lo specchio-schermo, in cui lo spettatore rivive inconsciamente il processo infantile della formazione dell’Io, descritto da Lacan come lo stadio dello specchio. Per Metz, lo schermo del film presenta infatti una forte somiglianza con lo specchio lacaniano, senza però riflettere mai il corpo dello spettatore che, contrariamente al corpo del bambino davanti allo specchio, risulta assente dalla sua superficie.
Il concetto di spettatore, tuttavia, è quello di un soggetto complesso, oggetto di approcci diversi. L’interpretazione psicoanalitica descrive il coinvolgimento spettatoriale nei termini dei processi preconsci e inconsci che sono alla base di quelle forme di identificazione e di proiezione, di narcisismo e di voyeurismo, collocabili nel punto di incontro tra sguardo e desiderio. L’estetica analitica, il cognitivismo e la più recente Neurofilmologia, invece, interpretano la partecipazione dello spettatore cinematografico alle immagini del film in termini di empatia e di rispecchiamento corporeo e motorio.
Nell’ambito degli studi cognitivisti la propensione dello spettatore a rispondere emotivamente ai personaggi del film non viene ricondotta alla nozione di identificazione, ma a quelle di simpatia ed empatia, in cui lo spettatore evoca più che altro la figura del testimone lucido e consapevole in ogni momento di trovarsi di fronte a una finzione. Egli, pertanto, non si identifica con i personaggi, semmai si “allinea” al loro punto di vista. I concetti di simpatia ed empatia, infatti, implicano una certa distanza cosciente da cui lo spettatore osserva i fatti. Si tratta, cioè, di una forma di partecipazione emotiva in cui lo spettatore condivide i sentimenti del personaggio, senza però mai annullarsi nell’identificazione con esso. Alcuni interpretano questa partecipazione empatica nei termini di una emotional simulation, nella quale il soggetto si proietta nella situazione di qualcun altro, simulandone pensieri, desideri, emozioni, ricreando una situazione virtuale. Attraverso questo coinvolgimento emotivo, lo spettatore può accedere al vissuto del personaggio, permettendogli di comprenderne la psicologia e l’agire e di comprendere, perciò, anche il film. Proprio a partire da queste teorie, con il contributo delle neuroscienze, negli ultimi due decenni si è ripensato il coinvolgimento spettatoriale in termini corporei, come connessione affettiva del corpo dello spettatore al corpo del film (embodied simulation, di cui abbiamo già parlato qui: https://finestresuartecinemaemusica.blogspot.com/2018/10/simulazione-incarnata-il-corpo-dello.html), perché solo attraverso il sensibile, e quindi la dimensione corporea, è possibile accedere alla dimensione del senso.
A questo link una scena del film di Godard Vivre sa vie (1962), dove la protagonista Nana assiste in un cinema a La passion de Jeanne d'Arc di Dreyer. Il volto dell'attrice che interpreta Giovanna è così intenso da provocare in Nana un acuto turbamento emotivo, che la porta a identificarsi nel personaggio:
L’immagine che vedete in alto, invece, è tratta dal film di Woody Allen La rosa purpurea del Cairo, storia di una donna malinconica che evade dalla propria vita triste passando i pomeriggi in un cinema, dove proiettano senza sosta il feuilletton La rosa purpurea del Cairo. In questo caso non è la storia di uno spettatore che entra nello schermo, ma di un attore che ne fuoriesce, evidenziando comunque la permeabilità e la possibilità di attraversamento della soglia che separa la realtà dal mondo del cinema.
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