mercoledì 3 ottobre 2018

Le fotografie "assorbite" di Jeff Wall

Jeff Wall. A View from an Apartment, 2004-05.

L’ultimo libro di Michael Fried, Why Photography Matters As Art As Never Before (2009), affronta il tema dell’assorbimento e dell’anti-teatralità nell’ambito della fotografia d'arte contemporanea. Egli nota come, a partire dagli anni '70, la produzione di una nuova generazione di fotografi d'arte ha avuto come destinazione non la pubblicazione su libri o riviste, ma la presentazione in grande formato all’interno di altri contesti espositivi. In quegli anni la fotografia, sempre più consapevole delle proprie potenzialità, prendeva le distanze dalle sue funzioni giornalistiche e approdava nelle gallerie d'arte e sulle pareti dei musei. Di questa generazione fanno parte artisti come Jeff Wall, Cindy Sherman, Hiroshi Sugimoto, Philip-Lorca diCorcia, Thomas Demand, Rineke Dijkstra e Bernd e Hilla Becher (oltre agli ex studenti di Bechers alla Düsseldorf Kunstakademie, Thomas Struth , Andreas Gursky, Thomas Ruff e Candida Höfer).

Questa forma di esposizione cambia radicalmente anche la fruizione, cioè il rapporto tra l'osservatore e la fotografia: lo spettatore è incoraggiato a sostare e contemplare a lungo l'opera, le cui dimensioni e ricchezza di dettagli favoriscono la durata e l’intensità dello sguardo.
Una volta che la fotografia è stata “liberata” dalla pagina stampata, ingrandita ed appesa su una parete, allora il rapporto dell’immagine fotografica con lo spettatore è diventato un tema cruciale come mai prima d’allora. La visione cambia radicalmente rispetto a quella che si ha sfogliando un libro. Gli spettatori, all’interno di un contesto mirato alla fruizione visiva come una galleria o un museo, si preparano a una lunga relazione meditativa con l'immagine. A questo punto, sostiene Fried, la fotografia d'arte contemporanea ha ereditato "l'intera problematica del vedere".

Jeff Wall, After “Invisible Man” by Ralph Ellison, the Prologue, 1999–2000.

Nelle opere degli artisti presi in considerazione nel suo libro, Fried vede un ritorno di quella modernità antiteatrale che si era affermata in particolar modo nella pittura francese di metà Settecento, con autori come Jean-Baptiste Chardin.
Fu un incontro casuale con l'artista canadese Jeff Wall a Rotterdam negli anni '90 che spinse Fried a estendere le sue teorie su “assorbimento” (il quadro è costruito come un mondo chiuso, che nega la presenza dello spettatore) e “teatralità” (il quadro si completa nella relazione con lo spettatore) dell’immagine alla fotografia recente.
La fotografia, per le sue caratteristiche, offre nuove possibilità alla tradizione della rappresentazione come assorbimento, in quanto permette di catturare un volto umano senza che questi ne sia consapevole. Generalmente non si può contemplare a lungo una persona senza che questa se ne accorga; di fronte a una fotografia, invece, lo sguardo può prolungarsi ed entrare in una dimensione contemplativa di un volto assorbito, ignaro di essere osservato. Ciò è stato, in particolar modo, approfondito da artisti diversi come Walker Evans , Luc Delahaye e Philip Lorca diCorcia, i quali hanno prodotto dei lavori basati sulla ripresa di persone inconsapevoli di essere fotografate.

Jeff Wall - Adrian Walker, artist, drawing from a specimen in a laboratory in the Department of Anatomy at the University of British Columbia, Vancouver, 1992.

Molte delle opere di Wall hanno aspetti che sembrano adattarsi all'analisi di Fried. Il critico individua l'assorbimento come il motivo ricorrente in tutto il lavoro dell’artista canadese, in quanto spesso i suoi quadri ritraggono persone coinvolte in qualche attività, in apparenza completamente ignari della presenza del fotografo o dell'eventuale spettatore.
Tali fotografie, però, sono sia anti-teatrali, in quanto quasi sempre raffigurano una o più persone "assorbite", ma allo stesso tempo sono deliberatamente messe in scena, quindi hanno anche una teatralità intrinseca, o "frontalità" (o to-be-seeingness, come preferisce Fried). A prima vista si potrebbe scambiare tali fotografie per istantanee; tuttavia uno sguardo attento è in grado di riconoscere che le situazioni descritte sono chiaramente organizzate. Inoltre il dispositivo di presentazione (il light-box) suggerisce manifestamente il carattere artificioso dell’immagine, mentre il grande formato e la chiarezza dei dettagli evidenziano che la fotografia è stata realizzata attraverso un apparecchio di notevoli dimensioni, che non poteva passare inosservato.
In quanto messe in scena, è ovvio che i soggetti sono consapevoli di essere fotografati, quindi le fotografie di Wall simulano l' assorbimento piuttosto che catturarlo. Tuttavia, come descritto da Fried, l’artista impiega metodi di lavoro elaborati che si svolgono nell'arco di giorni, se non settimane. Tali processi estesi hanno l'effetto di far dimenticare ai soggetti di essere fotografati e di ottenere simulazioni convincenti dello stato di assorbimento.
Qual è la preoccupazione fondamentale di Fried?
Egli considera opera d’arte solo un oggetto costruito in modo tale da incorporare o rappresentare l'intenzionalità del creatore. Per tale motivo critica aspramente l’arte minimalista, capace di prendere un oggetto preesistente, collocarlo in un certo contesto (come una galleria) che stabilisce una sorta di relazione tra esso e lo spettatore e sostenere che l'essenza del lavoro artistico risiede nella reazione dello spettatore a esso. Per Fried, questo è un esempio di quella teatralità che egli disapprova.
Può una fotografia, allora, essere un’opera d’arte?

A Sudden Gust of Wind, 1993.

La visione realistica della fotografia, intesa come indice, cioè come traccia del reale, i cui elementi più interessanti, spesso, sono quelli non necessariamente inclusi dal fotografo, ma finiti nell'inquadratura semplicemente perché erano lì davanti all’obiettivo, capaci magari di colpire lo spettatore più di tutto il resto dell’immagine (come sostiene la teoria del punctum di Barthes), non può, per Fried, adattarsi a una concezione della fotografia come opera d’arte, cioè come mezzo che realizza l’intenzionalità del suo creatore.
Le foto messe in scena da Jeff Wall, però, sono meticolosamente pianificate e costruite e non c'è spazio per gli imprevisti. Ciò che accomuna tutti gli artisti fotografi presi in considerazione da Fried nel libro citato è proprio questa meticolosa pianificazione e attenzione nella costruzione delle loro immagini, ed è ciò che garantisce alle loro fotografie lo statuto di opera d’arte.
Michael Fried sostiene che Morning Cleaning di Jeff Wall (1999) è un esempio eccezionale di un'opera che fa rivivere la tradizione pittorica di assorbimento in una modalità contemporanea. Questa fotografia produce per i suoi spettatori la "magia dell'assorbimento" in un modo estremamente compiuto, con "grande raffinatezza pittorica e intellettuale". Innanzitutto, l’unico personaggio - il lavavetri - appare completamente immerso nella sua stessa laboriosa attività. In secondo luogo egli ha voltato le spalle, è situato in secondo piano, in una zona d'ombra ed è chiaramente separato e indifferente all'osservatore.

Jeff Wall, Morning Cleaning, Fondazione Mies Van der Rohe, Barcellona , 1999.


Tra immagine documentaria e immagine poetica

Jean-François Chevrier ha definito i tableaux di Jeff Wall come l'attualizzazione dell'ideale di composizione unitaria dei dipinti di storia, nei quali l'unità drammatica era un elemento centrale. Si tratta di immagini che rappresentano semplici eventi quotidiani, ma pittoricamente trasformati. Solo questa trasformazione rende artisticamente significante l’evento banale. Le sue fotografie sono ricostruzioni meticolose di eventi che ha visto. Wall li rimette in scena utilizzando una modalità cinematografica, facendo uso di attori, costumi, luci e scenografie.
La modalità near documentary è lo strumento metodologico di cui Wall si serve per attuare la trasformazione pittorica dell’immagine grezza. Egli fa in modo che i suoi quadri sembrino delle fotografie documentarie, cioè un resoconto plausibile di eventi così come sono accaduti nella realtà. Ma, allo stesso tempo, mentre vengono mostrate al pubblico, da tali immagini traspare, in modo sottile, l’artificio, cioè il fatto di essere re-enactments, "rievocazioni". Infatti, come scrive David Bate, le fotografie di Wall sono pervase da “un senso di immobilità raggelata […] in modo che l’artificio che ne è alla base viene suggerito, ma non disvelato” (La fotografia d’arte, 2015).
Un’opera d’arte, affinché sia tale, per Jeff Wall deve contenere “una mediazione drammatica dell'elemento concettuale”. L’idea, cioè, deve poter trovare espressione all’interno del quadro attraverso la forma classica di unità di tempo, di spazio e di azione. Senza “dramma”, un’immagine è solo l’illustrazione noiosa di un concetto.

Jeff Wall, Mimic (1982).

Wall utilizza elaborate strategie compositive e modalità di presentazione dell’opera (la forma del tableau monumentale, l’esposizione in musei o gallerie) tali da rendere le sue fotografie degli esempi attuali della tradizione pittorica moderna. La sua è una fotografia concepita per esser appesa al muro e che richiede la parete non diversamente dalla pittura. Non una fotografia che diventa pittorica, dunque, ma una fotografia che eredita i problemi tipici della pittura moderna.
Questo secondo l’interpretazione dello storico e critico dell’arte Michael Fried. Eppure gli scritti di Wall ci restituiscono una posizione più sfaccettata di questa. I riferimenti di Wall, infatti, si collocano nei lontani anni trenta, quando la fotografia artistica smise di considerare la pittura come suo ideale e si rivolse invece al fotogiornalismo. Il vero modello di Wall è Walker Evans, l'autentico fotografo-artista moderno, che compie il salto dal fotogiornalismo al fotogiornalismo artistico.
Per lungo tempo lo statuto della fotografia è stata ascritto nella sua natura di traccia o di copia del reale. Secondo queste teorie, la fotografia è una rappresentazione trasparente della realtà e fa riferimento ad essa per mezzo di una relazione causale o fisica. Tuttavia, soprattutto negli ultimi decenni, molti teorici della fotografia hanno criticato questa ontologia modernista, fondata su una sorta di “realismo ingenuo”.
Puntando l’attenzione non sull’ontogenesi, ma sulla funzione assolta, possiamo stabilire una distinzione tra due tipi di immagini: immagini per scopi documentari, giornalistici o di registrazione, che si potrebbero chiamare "immagini descrittive" e immagini per scopi artistici o creativi, che potremmo chiamare "immagini poetiche".

Jeff Wall - The Arrest, 1989.

Che tipo di immagini sono quelle di Jeff Wall? A prima vista sembrerebbero appartenere al primo gruppo, in quanto ci danno l’impressione di essere immagini descrittive, istantanee riprese dal vivo, con protagonisti dei personaggi ignari di essere osservati. Tuttavia, come affermato in precedenza, ci rendiamo progressivamente conto che l’immagine è costruita, che si tratta cioè di finzione. Il vero nucleo del pensiero e dell’arte di Jeff Wall è l’integrazione tra reportage e performance, tra fotografia documentaria e fotografia artistica.
Una fotografia artistica è un’immagine la cui esperienza è, per Wall, “associativa e simultanea”, e sotto questo aspetto assomiglia all’esperienza poetica: il senso di una poesia, pur essendo quest’ultima composta da frasi lineari, non risiede nel significato letterale dei termini e nel modo cronologico in cui leggiamo tali frasi; così un’immagine poetica è costituita da rappresentazioni che assomigliano allo stato delle cose nella realtà, ma vanno oltre il modo in cui le rappresentazioni vengono lette . La qualità poetica di un'immagine trasgredisce la veridicità indicizzata di una rappresentazione. Offre la possibilità di "vedere di più" o vedere oltre il quadro, raggiungendo così qualcosa che la rappresentazione difficilmente può contenere in sé.
La maggior parte dei tableau fotografici di Wall sono investiti di una forza che va al di là della pura rappresentazione. Essi sono messe in scena particolari, che realizzano delle contrazioni o delle ripetizioni non solo di eventi di cui l’autore ha fatto esperienza e rielaborato nella propria memoria, ma anche delle immagini appartenenti alla storia dell’arte, che provocano quindi effetti di déjà-vu e sentimenti di “perturbante” (Unheimlichkeit), cioè di un qualcosa di familiare collocato in un contesto nuovo, che tramuta il familiare in estraneo.

Jeff Wall. Milk. 1984.

Ad esempio, alcune delle sue foto rimandano esplicitamente a immagini del passato; altre possono essere interpretate come tali dallo spettatore. Alcuni esempi di questa referenzialità sono: A Sudden Gust of Wind si richiama a un dipinto di Hokusai, The arrest si riferisce a La flagellazione di Cristo del Caravaggio, Stereo richiama la Olympia di Manet, The storyteller contiene dei riferimenti a Le déjeuner sur l'herbe, sempre di Manet. Ma se ne potrebbero citare molti altri.
Le fotografie di Wall non sono una riproduzione dei dipinti citati. Le somiglianze stabilite dall’autore sembrano essere di natura "poetica”, che trascendono il livello degli oggetti raffigurati. A causa dell'elaborata ricostruzione, la relazione tra l'immagine in quanto indice e la realtà viene sospesa e viene inserita una memoria virtuale. La fotografia non è più la traccia indicizzata di una visione "grezza", ma la rappresentazione di un'esperienza che è stata assorbita e elaborata, sia consciamente che inconsciamente.
Le foto di Wall hanno una natura duplice, oscillante. Tra realtà e finzione, tra il fugace e l’eterno, la trasparenza e l’opacità, l’assorbimento e la teatralità. Tra un significato iconico immediatamente disponibile e un aspetto recondito, perché la superficie chiara e trasparente dell'immagine contiene sempre una profondità oscura. La coesistenza o "coalescenza" di una parte virtuale e di una parte reale implica che la profondità e la superficie coincidano nella "piattezza" dell'immagine fotografica.
I quadri fotografici di Wall non sono semplicemente rappresentazioni dello stato reale delle cose. Sono contrazioni di elementi reali e virtuali. A questo proposito l’artista spiega il funzionamento del lightbox. Contrariamente ai dipinti o alla fotografia ordinaria, dove la luce che cade su di loro è la stessa luce che illumina il contesto dove sono collocati, nel caso dei lightbox la luce emana anche dall’opera, come se si trattasse di due mondi diversi (un mondo "visibile" che è presente e un mondo "nascosto" che è sempre "altrove"), che però coesistono.

Jeff Wall, “Man With A Rifle” (2000).

L’esperienza di visione cui è chiamato lo spettatore, pertanto, è estremamente complessa e va al di là dell’immedesimazione richiesta da un’esperienza tradizionale di assorbimento. Lo spettatore è chiamato a un ruolo attivo.
Le immagini monumentali di Wall, a prima vista, sono completamente assorbite. I personaggi sono chiusi in un proprio mondo impenetrabile, dove ognuno è concentrato in un’azione. Cosa chiedono pertanto queste foto? Che lo spettatore si ponga in una posizione di contemplazione e si immedesimi in tali personaggi?
Uno sguardo attento giunge a diverse conclusioni. Le considerazioni fin qui svolte hanno messo in chiaro che non si tratta di immagini assorbite, che neutralizzano lo spettatore, ma che, al contrario, ne richiedono il ruolo attivo e critico.
Osserviamo l’opera The storyteller (1986). Vediamo a destra il viadotto di cemento di un’autostrada, a sinistra il margine di un bosco. Sedute in modo sparso sul terrapieno al centro varie persone. La loro presenza è enigmatica: cosa ci fanno in un non-luogo come quello? Eppure, il titolo della fotografia ci suggerisce il fatto che qualcosa in realtà sta accadendo. Come scrive Bate, “Wall lascia a noi spettatori il compito di meditare su queste persone, delle quali non conosciamo la storia né il destino, ma delle quali forse riconosciamo qualcosa che fa parte anche della nostra alienazione nella vita moderna”.

Jeff Wall (Canadian, born 1946). 'The Storyteller' 1986.

Davanti alle fotografie di Wall lo spettatore ha, al primo impatto con l’opera, l’impressione di trovarsi di fronte a un’istantanea, all’istante decisivo di un evento, ma ben presto si rende conto che qualcosa non torna. Nelle sue opere, l’autore lascia spesso qualcosa in sospeso, o delle piccole incoerenze, di cui lo spettatore è chiamato a rendersi conto, come se fossero indizi in grado di condurlo a significati nuovi. L’ambiguità e l’enigmaticità dell’immagine impediscono l’univocità dell’interpretazione e conducono lo spettatore a prendere coscienza dell’artificialità dell’immagine e a riflettere sulla qualità illusoria della fotografia. In questo modo, il riguardante è chiamato a confrontarsi con il processo del proprio sguardo. Wall ricorre alla forma istantanea della fotografia affinché lo spettatore possa progressivamente procedere alla sua decostruzione.
In conclusione, la natura sempre in bilico di queste immagini impedisce allo spettatore di trasformarsi in voyeur, ma lo lascia sospeso tra immedesimazione e sguardo critico, tra assorbimento e distanza.





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