lunedì 25 luglio 2016

Ribelli e rivoluzionari - RIBELLI SENZA CAUSA: I PUGNI IN TASCA

    I pugni in tasca, regia di Marco Bellocchio, 1965.


Già a partire da “Rebel without a cause” (Gioventù bruciata, 1955) il cinema ha fatto dell’istituzione familiare, soprattutto nella sua accezione piccolo borghese, repressa e conformista, il bersaglio della ribellione giovanile, che spesso esplode come rabbia cieca, “senza causa” appunto, un rifiuto privo di alcuna elaborazione consapevole o progetto ideale che dia forma al furore eversivo.
Nel 1965, come un pugno nello stomaco, vede la luce in sala l’opera prima di Marco Bellocchio, “I pugni in tasca”, che riveste di malinconica poesia il cinismo e la crudeltà che danno vita a una violenta e corrosiva dissacrazione della famiglia, della morale cattolica e degli altri pilastri della società borghese di quegli anni.

L’intera vicenda si svolge quasi tutta all’interno degli ambienti labirintici e claustrofobici di una antica villa della provincia piacentina e ruota attorno ad una famiglia della borghesia agraria decaduta, composta dalla madre cieca, presenza amorfa e ininfluente, e da quattro fratelli:
- Augusto, il fratello maggiore, il più “normale” della famiglia, il solo che conduce una esistenza ordinaria e che aspira a una vita altrettanto borghesemente normale lontano dalla casa natale; anche la sua normalità, però, risulta “repellente”, in quanto coincide perfettamente con il cinismo e l’opportunismo conformista della piccola borghesia a cui appartiene con la fidanzata Lucia.
- Alessandro (Lou Castel), schizofrenico ed epilettico, che passa dall'inerte apatia alla distruttività, come travolto da un’irrefrenabile pulsione di morte; l’attrazione morbosa per la sorella Giulia (Paola Pitagora) e la torva ammirazione per il fratello maggiore alimentano la sua rabbia; la famiglia è la gabbia di cui sente il peso, ma i suoi tentativi di opporsi al contesto abitudinario e soffocante in cui vive si evolvono in una messa in scena convulsa e disordinata: prima getta la madre in un burrone; poi uccide il fratello minore, addormentandolo e annegandolo nella vasca da bagno; e infine per poco non soffoca con un cuscino la sorella, pur essendo legato a lei da un legame malsano, in odore di incesto.


- Leone, il fratello minore, è ritardato e anch’esso epilettico, chiuso in un mutismo catatonico da cui esce solo per esprimere la sua disperazione impotente (e dire, forse, le cose più ragionevoli).
- Giulia, infantile e bizzarra, dominata da qualcosa che somiglia molto ad una passione incestuosa per il fratello maggiore, è segnata da un’attitudine alla vita di assoluta superficialità.
La casa isolata, decadente e arroccata sull’Appennino emiliano, immersa in un paesaggio scosceso e impervio, con l’unica strada che corre lungo il costone roccioso a strapiombo, diventa un microcosmo autodistruttivo, che si nutre della follia dei suoi abitanti. Lo spazio fisico e simbolico del film si basa sulla casa come suo baricentro, il luogo in cui viene consumata grottescamente la tragedia esistenziale dei personaggi che la abitano.
Sul fondo, comparse appena abbozzate, le pie donne e i parenti che pregano al funerale della madre, scena centrale del film, improvvisamente ravvivata dal siparietto di umorismo grottesco costruito intorno alla predica del prete prima che il feretro esca di casa.


Sandro, attratto dalla vita di Augusto, dalla sua per così dire normalità, decide che per svincolarsi dalla trappola familiare è necessario tagliare tutti i rami malati dell’albero a cominciare dalla madre, e il taglio è così netto da proseguire con l’annullamento totale del passato, che si esprime nella sequenza in cui vengono buttati dalla finestra vecchi mobili e ricordi di famiglia. La forza dirompente del film sta nello spogliare l'istituzione familiare di ogni retorica ipocrita, da ogni decantata virtù positiva per restituircela come grumo di egoismo, cinismo, calcolo, reciproca sopraffazione.
Alla sua opera prima Bellocchio elabora una pellicola che supera agevolmente il suo tempo, pur rispecchiandone umori e visioni. Era il 1965, molto stava per accadere e sarebbe esploso di lì a poco. Il personaggio interpretato da Lou Castel, con i suoi furori, è rimasto fissato nell’immaginazione come una specie di prototipo del contestatore.
Con una drammaturgia quasi espressionistica, Bellocchio mette in scena un racconto disturbante, a tratti sgradevole, che crea disagio nello spettatore, in cui la ribellione, oscillando tra quotidianità ordinaria e distorsione psicotica del reale, si fa impeto convulso, gestualità protesa fino all’urlo ed esasperata nello spasmo epilettico. Fra individualismo esasperato fino alla follia e persistenza di modelli sociali imposti dall’istituzione (famiglia, chiesa, partito), “I pugni in tasca” furono una lacerante profezia del futuro prossimo venturo, quando le istanze di rivolta e lotta divennero “… i pugni rimasti stretti nell’angustia di una progressiva incapacità di azione”. La spinta alla ribellione del protagonista non viene mai elaborata sotto forma di cosciente rifiuto, ma si esaurisce in un moto lacerato dall’impotenza, dalla frustrazione e dalla mancanza di finalità costruttive. Il suo agire scomposto è come il movimento impazzito di un moscone solitario, prigioniero in una stanza, che sbatte le ali contro i vetri di una finestra. Il finale lo vede dimenarsi sul pavimento nell’attacco epilettico che lo porterà alla morte, nell’urlo di una disperata richiesta di aiuto che rimarrà inascoltata, mentre la Violetta della Traviata canta, con cinismo inconsapevole, “… sempre libera degg’io / folleggiare di gioia in gioia …”, e il suo interminabile acuto finale finirà per coprire il grido disperato del morente.


Rivedendo oggi il film, viene però da chiedersi se l’interpretazione che l’ha caratterizzato non risenta troppo dei tempi in cui è nato e del cliché in cui è stato costretto. E’ evidente che ciò che esaspera il giovane fino alla follia omicida sono le abitudini più che noiose, mortuarie, della vita familiare e di provincia: per le quali si va a messa la domenica senza autentica fede religiosa, si cena tutti insieme riuniti intorno alla tavola da pranzo senza affetto familiare, si segue sui giornali la rubrica dei necrologi, o la sera si va a ballare in un dancing. Ma se poi si considera proprio il comportamento omicida del protagonista, si nota una profonda contraddizione. L’unico membro della famiglia che egli a priori risparmia, è il fratello maggiore, Augusto, del tutto integrato in quella vita normale, che il presunto contestatore dovrebbe detestare. E invece appare affascinato dal fratello, e sopporta con una soggezione quasi masochistica i suoi rimproveri più aspri e perfino le sue violenze: forse perché gli appare sano, dal momento che segue con determinazione un suo progetto di vita, sebbene del tutto conformistico. Mentre le vittime dell’omicida sono i familiari che gli appaiono a vario titolo malati e diversi. Insomma, questo personaggio all’apparenza ribelle e vitale, in realtà è sterile e conservatore; malato lui stesso, la sua aspirazione più profonda e segreta è probabilmente quella, struggente, di essere normale. Così come in un altro film di Bellocchio, “Nel nome del padre”, la spinta alla ribellione non mette davvero in discussione certi rapporti di forza che permeano la società e le relazioni umane, ma cerca solo di distruggere il vecchio ordine perché ormai inadeguato. Sandro è dunque il prototipo del contestatore o piuttosto la terribile metafora dell'inettitudine, della solitudine e della prigionia dell'uomo contemporaneo?
In ogni caso, nel suo svelamento delle patologiche perversioni della società contemporanea, questo film conserva ancora una sua attualità. Esso mostra come la follia non è un’anomalia estranea alla normalità, ma una sua variante. Anzi la psicosi può essere una capacità interpretativa che porta allo svelamento di verità profonde e non razionalizzabili: la pazzia, nel suo legame con l’inconscio, è l’unico elemento veramente sovversivo in grado di svelare la menzogna e l’ipocrisia su cui si regge la vita familiare.
Parte del merito della riuscita del film va attribuita alle interpretazioni degli attori principali tra le quali brilla quella di Lou Castel: l’allora giovane attore donò al suo personaggio, Sandro, una follia malinconica mista a freddezza e crudeltà.
Anche il tema musicale di Ennio Morricone contribuì a creare questa atmosfera mortifera, costruendo sonorità di forte suggestione, che ben si sposano con lo spoglio paesaggio autunnale.
In occasione dei cinquant’anni dalla sua prima uscita, alcuni giorni fa il film è tornato in alcune sale, restaurato e con l’aggiunta di alcuni fotogrammi che erano stati tagliati nella versione precedente.

Nessun commento:

Posta un commento