lunedì 25 luglio 2016

Ribelli e rivoluzionari - RIBELLI ON THE ROAD: EASY RIDER

“Easy Rider”, regia di Dennis Hopper, 1969.

L’epoca moderna ha fatto del viaggio un gesto di ribellione: si pensi alla fuga solitaria dell’artista o dell’intellettuale ottocentesco, lontano da valori sociali e morali che non condivide più. Questo disagio esistenziale e storico spinge al viaggio come evasione e ricerca di un’autenticità diversa, lontana dalla società borghese, utilitaristica e bellicista. Il viaggio viene così ad assumere caratteri antiborghesi, antitetico all’organizzazione dei rapporti sociali e lavorativi moderni. In questo modo, il "mettersi per strada" si rivela un’esperienza, in maniera consapevole o inconsapevole, di ribellione.
Il rifiuto del mondo borghese si traduce in una fuga individuale dalla civiltà e un porsi ai margini di essa. La strada diventa pertanto il luogo dell’inquietudine e della fuga, del progressivo distaccarsi dalle proprie radici culturali: in altre parole la strada diventa lo spazio privilegiato di ribellione, uno spazio libero, che corre ai margini del mondo civilizzato, lo spazio di Jack London e poi di Jack Kerouac.
Jack Kerouac, con il suo “On the road”, ha fatto di questa poetica e pratica di evasione il motivo fondante della Beat Generation, che contesta la società borghese e consumista, il suo conformismo e la sua ipocrisia. Molti giovani di quella generazione hanno ricalcato, concretamente o idealmente, le orme di Kerouac attraverso la scelta di un’esistenza vagabonda sulle strade e sui treni d’America. Si tratta di un atteggiamento volutamente passivo, che non si propone di abbattere le istituzioni per stabilirne altre più consone alle esigenze dell’uomo, ma contrappone, alla falsità della società borghese, la chiusura in un proprio mondo individualista e solitario.
Anche il cinema ha fatto ampiamente proprio questo motivo della fuga dalla vita borghese, che ritroviamo in numerose pellicole: “Easy Rider”, “Zabriskie Point”, “Punto Zero”, “Cinque pezzi facili”, “Paris, Texas”, “Thelma & Louise”, “Into the Wild”, solo per citarne alcuni, tutti molto diversi l’uno dall’altro, ma accomunati dal motivo del rifiuto e della fuga che culminano quasi sempre nello stesso finale: la sola meta che attende i fuggiaschi è la morte, il loro unico destino è quello di soccombere: alla polizia, alla violenza cieca o al destino. Il viaggio di fuga è sempre un viaggio tragico.
Easy Rider esce nel 1969, in un clima particolare per gli Stati Uniti, che nel giro di soli cinque anni aveva vissuto una serie di eventi luttuosi e destabilizzanti: John Fitzgerald Kennedy a Dallas nel 1963, Malcolm X nel ’65, Martin Luther King e il fratello di JFK, Bob, in un solo bimestre nel corso del 1968. E su tutto, l’ombra incombente e mortifera della guerra in Vietnam da una parte e la spinta della controcultura giovanile dall’altra. Questo è il clima in cui nasce l’idea di Easy Rider, il cui titolo è un’espressione gergale del Sud che si riferisce alla possibilità di andare con una prostituta e di usufruire di una “corsa facile”, cioè di una prestazione gratis, evitando di pagare il dovuto.
Easy Rider mette in luce lo stato di degradazione di un’America che ha perso i valori fondativi e si trova ormai in una situazione di stallo, in cui lo smarrimento dell’identità e la violenza sigillano la fine del sogno americano.
Billy e Wyatt, detto Capitan America, partono sui loro choppers. La loro destinazione è verso est (l’esatto contrario di quella di molti film western, genere di cui peraltro il road movie è una filiazione). Fanno molti incontri, piacevoli e no. Nel viaggio di ritorno sono uccisi a fucilate.
Il tema classico del viaggio si mescola con quelli della cultura alternativa degli anni '60: marijuana ed LSD, musica rock (Steppenwolf, The Birds, Jimi Hendrix, Bob Dylan), protesta hippy, pacifismo, crisi del mito americano. La colonna sonora in particolare spesso diventa protagonista della narrazione.
La tecnica di montaggio è quantomeno “bizzarra”, frammentaria, psichedelica, senza regole, con libere associazioni, ripetizioni di parti della scena, scomparsa dell'audio della presa diretta. Non c'è una narrazione lineare, ma ci sono movimenti, spostamenti, piccoli dialoghi e azioni sconnesse, tratteggiate sotto l'occhio documentarista del regista Dennis Hopper.
Il viaggio si caratterizza fin dall’inizio come quello di due outsiders: oltre al loro aspetto fisico, anche il gesto iniziale di Wyatt, che, prima di mettersi in viaggio insieme a Billy, getta via l’orologio dopo esserselo sfilato dal polso, chiarisce le loro intenzioni di tirarsi fuori non solo dal consorzio sociale, con le sue regole e i suoi ritmi, ma anche dai suoi stessi criteri spazio-temporali. Nella scena del cimitero, inoltre, decidono di provare un’esclusione definitiva, eclissandosi e autoannullandosi fuori dalla dimensione storica e sociale, assumendo una dose di LSD, l’acido lisergico diventato il simbolo della Controcultura della fine degli Anni Sessanta. Questa scena rimane la più emozionante del film. Peter Fonda sotto l'effetto dell’LSD si arrampica sino ad abbracciare una statua e si mette a piangere, a farfugliare come un bambino triste e arrabbiato il suo odio verso la madre (la Grande Madre America, all’interno della metafora del film) che lo aveva abbandonato morendo. Visto all'interno del film, il pianto di Fonda si trasforma in preghiera, in lamento verso un'America non più capace di raccogliere i sogni e i desideri delle nuove generazioni.
Il finale lascia l’amaro in bocca, l’amaro della disillusione e della perdita completa di ogni speranza. Tanto più se si pensa che quel finale fu apertamente applaudito nelle sale cinematografiche del Sud degli Stati Uniti, che non era proprio riuscito ad identificarsi in Billy e Wyatt.
Nonostante ciò, Easy Rider, sebbene realizzato a basso costo, divenne ben presto un film di culto, in cui le nuove generazioni potevano riconoscere se stesse e il proprio rifiuto dell’omologazione, che si manifestava nei loro costumi di vita e nel loro aspetto fisico. Oltre ad aver saputo interpretare e mitizzare le aspirazioni di tutta un’epoca, questo film si affermò inoltre come capostipite di un nuovo genere cinematografico, il Road Movie.
Durante il viaggio, i due personaggi incontrano George, un avvocato per i diritti civili, alcolizzato, interpretato da Jack Nicholson. Questo è uno spezzone del dialogo tra lui e Billy:
Billy: Noi non possiamo neanche andare in un alberghetto da 2 soldi. E intendo dire proprio da 2 soldi, capisci? Credono che li sgozzeremo. Hanno paura.
George: Ma non hanno paura di voi. Hanno paura di quello che voi rappresentate.
Billy: per loro noi siamo solo della gente che ha bisogno di tagliarsi i capelli.
George: Oh, no! Quello che voi rappresentate per loro... è la libertà.
Billy: E che c'è di male? La libertà è tutto.
George: Ma certo, è vero, la libertà è tutto. Ma parlare di libertà, ed essere liberi sono due cose diverse. È molto difficile essere liberi quando ti comprano e ti vendono al mercato. (…) Certo sono capaci di parlare e riparlare di questa famosa libertà individuale. Ma quando vedono un individuo davvero libero, allora hanno paura.
Billy: Questa paura però non li fa certo scappare.
George: No, ma li rende pericolosi.

A questo link, i titoli di testa del film, con la celebre “Born to be wild”. Da notare il gesto iniziale di Wyatt, prima di iniziare il viaggio: si toglie l’orologio e lo butta via. Il viaggio che stanno per intraprendere non ha bisogno di uno strumento che regola il tempo della società borghese fondata sul lavoro e sui ritmi produttivi.
https://www.youtube.com/watch?v=s8aftCh3wYI

A questo link la canzone “Ballad of Easy Rider” dei Byrds:
https://www.youtube.com/watch?v=m6wMKprHV9c


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