martedì 26 luglio 2016

Ribelli e rivoluzionari - GIUDITTA

          Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1620, Galleria degli Uffizi, Firenze.


Giuditta è un personaggio dell'Antico Testamento, le cui vicende sono narrate nel Libro di Giuditta. La storia, ambientata al tempo di Nabucodonosor, racconta che a quel tempo la città giudea di Betulia era sotto assedio da parte di Oloferne, generale assiro. Giuditta è una giovane e bella vedova ebrea, che non si arrende alla decisione di resa al nemico, presa dal governo della città e decide con coraggio di proseguire la battaglia ricorrendo alle armi femminili della seduzione. Indossa belle vesti e gioielli e si presenta ad Oloferne con la sua serva e con doni, fingendo di essere venuta a tradire i suoi.
Oloferne, dopo un banchetto, si apparta con lei nella sua tenda completamente ubriaco. Giuditta impugna con una mano la scimitarra del suo nemico, con l'altra gli afferra i capelli e con forza gli stacca la testa dal collo. Morto il suo generale, l'esercito assiro toglie l'assedio e Giuditta viene celebrata dal suo popolo come una salvatrice.

Scegliere un dipinto per rappresentare questo mito è un'impresa difficile, data la grande mole di opere d'arte che hanno ripreso questo soggetto. Ho scelto la celebre tela di Artemisia Gentileschi perché la pittrice, per le sue vicende personali e artistiche, ha anch'essa le caratteristiche della donna ribelle e perché nessun'altra opera raffigurante Giuditta, a parte quella di Caravaggio, ha la stessa dinamicità e drammaticità di quella della Gentileschi.
L'artista ha trattato questo mito in quattro tele. Quella che vediamo qui è la "Giuditta che decapita Oloferne" del 1620 conservata nella Galleria degli Uffizi di Firenze. Con lo stesso titolo Artemisia Gentileschi aveva dipinto nel 1612-13 (a soli 19 anni!) un altro quadro molto simile (cambiano i colori e le dimensioni), conservato nel Museo di Capodimonte a Napoli.

Artemisia Gentileschi, "Giuditta che decapita Oloferne", 1612 circa, Museo di Capodimonte, Napoli.
Questo dipinto colpisce per l'elevata dose di violenza che lo contraddistingue, per l'immediatezza dei soggetti raffigurati, per il gusto teatrale tipicamente barocco e per la sapienza con la quale vengono impiegati i colori. La freddezza e l'impassibilità di Giuditta, il suo sforzo nel tenere ferma la testa di Oloferne, la tensione del corpo del generale che a sua volta tenta di respingere la serva che aiuta la protagonista nella sua azione: il tema era già stato affrontato, con la stessa violenza, da Caravaggio, ma la tela di Artemisia Gentileschi sembra vibrare di una maggiore teatralità. Mai prima d'ora la scena era stata raffigurata in maniera così brutale.
Per capire le ragioni di una così grande carica di violenza, alcuni storici dell'arte ritengono necessario richiamare la drammatica vicenda biografica di Artemisia Gentileschi. Figlia del pittore Orazio, la giovane, nel 1611 (all'età di diciotto anni) venne stuprata dal pittore Agostino Tassi, all'epoca collaboratore del padre di Artemisia. Orazio sporse denuncia nei confronti del collega e riuscì a far sì che Tassi venisse condannato, in quanto si scoprì che era già unito in matrimonio con un'altra donna e non poteva quindi sposare Artemisia. La donna comunque ebbe la forza di accusare il suo violentatore (fatto che all'epoca esponeva la vittima a grandi umiliazioni), al punto da sottoporsi allo schiacciamento dei pollici per confermare l'attendibilità delle sue accuse.
La grande ferocia di Giuditta nel tagliare la testa del generale nemico potrebbe essere ricondotta al desiderio di vendetta della donna nei confronti dello stupratore; non bisogna dimenticare che la prima versione del dipinto, quella conservata a Napoli, è databile al 1612-13, e il processo contro Agostino Tassi si era concluso da pochi mesi. Con tutta evidenza, secondo la figlia di Orazio Gentileschi non era sufficiente la condanna inflitta dal tribunale ecclesiastico ad Agostino Tassi, peraltro molto blanda: la giovane voleva far sì che la sua vicenda rimanesse impressa sulla tela nei secoli a venire. Il grido di disperazione di una giovane violata, un tentativo di consegnare alla storia dell'arte l'offesa subita e il proprio riscatto.
Questa ipotesi sarebbe avvalorata dal fatto che le fattezze e la formosità di Giuditta sono molto simili a quelle di Artemisia Gentileschi (somiglianza tra l'altro ricorrente in molte opere di questa artista), mentre la folta chioma scura di Oloferne richiamerebbe la capigliatura di Agostino Tassi.
Il grande pregio di questa tela non è da ricercarsi soltanto nella sua capacità di rievocare la violenza subita dalla pittrice: si tratta infatti di uno dei capolavori più famosi di Artemisia Gentileschi, dal quale si evince tutto il grande talento della pittrice.
L’artista potrebbe essersi ispirata al prototipo caravaggesco di Palazzo Barberini nella scelta di rappresentare il momento più difficile e violento e per quanto concerne alcuni particolari compositivi, come la posizione delle braccia di Giuditta e della testa di Oloferne.

Caravaggio, Giuditta e Oloferne, 1598-99, Galleria nazionale di arte antica, Palazzo Barberini, Roma.
Per quanto riguarda lo stile dell'opera, Artemisia cerca di avvicinarsi al naturalismo di Caravaggio, riproponendo le atmosfere cupe e drammatiche, sia attraverso un gioco di luci e ombre sia cercando di tradurre le reazioni psicologiche dei personaggi nella loro violenza.
La composizione presenta uno schema a raggiera, centrato sulla testa di Oloferne, da cui si dipartono come raggi gli schizzi di sangue e le direttrici sono individuate nelle braccia delle donne. La fonte di luce proveniente da sinistra, che illumina i corpi dei personaggi, conferisce al dipinto un forte coinvolgimento drammatico, accresciuto anche dall’inquadratura serrata.
L'azione è concitata e feroce allo stesso tempo: Artemisia fa soprattutto in modo di restituire una rappresentazione il più possibile attinente alla realtà e che l'attenzione dell'osservatore non si concentri solo su un singolo particolare, ma sia portata a soffermarsi su tutti i dettagli della scena, il cui centro è da trovare nella mano di Giuditta che recide il capo di Oloferne. La pittrice non fa niente per attenuare il particolare più cruento della composizione, anzi: cerca di aumentare la tensione dipingendo sul volto di Oloferne una smorfia di dolore e disperazione e macchiando il lenzuolo su cui posa il condottiero con rivoli di sangue che sgorgano dalla ferita. Giuditta, trasposizione sulla tela della pittrice stessa, non pare in alcun modo turbata, ma rimane ferma nella sua impassibilità, scostandosi leggermente e tenendo le braccia tese forse per impedire che il sangue che zampilla dalla testa di Oloferne le macchi il vestito.
I giochi di luci e ombre, che mettono in rilievo le figure dei tre protagonisti della scena, facendo risaltare i particolari e soprattutto le espressioni del volto, derivano dalla lezione di Caravaggio, che Artemisia conosceva bene in quanto amico del padre, e da quella di Orazio stesso, caravaggista lui medesimo. Le tonalità cupe sono tipiche del barocco e contribuiscono a conferire teatralità alla scena. Di questo dipinto colpiscono anche i colori, luminosi e vibranti, in special modo quelli della veste di Giuditta, che esaltano tutta la femminilità della giovane, ma soprattutto fanno da contrappunto al drappo rosso che copre il corpo di Oloferne.
La cura e l'attenzione per i colori, per le vesti e per le forme delle protagoniste danno la misura del grande talento di questa pittrice, una donna violata che vuole riconquistare il suo onore attraverso la pittura: e a distanza di quasi quattrocento anni si può dire senza dubbio che Artemisia è riuscita nella sua personale riconquista, raggiungendo la gloria artistica e ottenendo un posto di privilegio nella storia dell'arte.
Negli anni settanta del secolo scorso Artemisia diventò un simbolo del femminismo internazionale, con numerose associazioni e circoli ad essa intitolate. Contribuirono all'affermazione di tale immagine la sua figura di donna impegnata a perseguire la propria indipendenza e la propria affermazione artistica contro le molteplici difficoltà e i pregiudizi incontrati nel corso della sua vita.

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