lunedì 25 luglio 2016

Ribelli e rivoluzionari - GLI ANNI DI PIOMBO

Paolo Pedrizzetti, 14 maggio 1977, via De Amicis (Milano).

Questa foto, scattata il 14 maggio 1977 a Milano, in via De Amicis, è entrata nell’immaginario collettivo come icona degli anni di piombo: il ritratto di un dimostrante con il volto coperto da un passamontagna, le gambe divaricate, le ginocchia flesse, mentre impugna una pistola a braccia tese.
Autore della foto è Paolo Pedrizzetti, allora studente di Architettura al Politecnico di Milano e fotografo freelance, che quel giorno è lì con la sua macchina fotografica in via De Amicis quando scoppiano gli scontri. Riparatosi su un lato della via, nell'androne di un palazzo, scatta la celebre foto dell’autonomo che, tenendo la pistola con le mani unite, fa fuoco contro la polizia. La foto viene pubblicata il 16 maggio 1977 dal «Corriere d’Informazione», e nei giorni seguenti rimbalza su molti altri giornali, in Italia e all'estero.

Quel 14 maggio è in corso a Milano un corteo di protesta. Due giorni prima, il 12 maggio, nella ricorrenza della vittoria referendaria per il divorzio, il Partito Radicale aveva organizzato una manifestazione in Piazza Navona a Roma alla quale avevano aderito gruppi di universitari e della sinistra extraparlamentare. Erano scoppiati gli incidenti, la polizia aveva attaccato e sparato: nel corso degli scontri a fuoco era rimasta uccisa una studentessa di 19 anni, Giorgiana Masi.
Due giorni dopo a Milano si anima un’altra manifestazione, un corteo di protesta “contro la repressione” e contro i sanguinosi fatti di Roma che avrà il suo epilogo in Via De Amicis. La sera prima, durante la riunione dei rappresentanti di quello che venne poi definito il movimento del ’77, la maggioranza aveva deciso per un corteo che avrebbe dovuto essere assolutamente pacifico. Alcuni non erano d’accordo. Erano soprattutto quelli del collettivo autonomo Romana Vittoria.
L’uomo ritratto nella foto mentre punta la pistola è l’autonomo Giuseppe Memeo (poi terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo), 19 anni. Gli amici lo chiamano "Il Terun" per via del suo forte accento meridionale. Creduta per anni una P38 (simbolo delle proteste degli autonomi in quegli anni), la pistola è in realtà una comune Beretta calibro 22, con la canna lunga e non silenziata.
Tutto avviene in due minuti, dalle 15.37 alle 15.39. Durante il corteo qualcuno urla: “Romana fuori!” e una quarantina di quelli dell’ “autonomia operaia” si stacca dal percorso ufficiale per sfilare sotto il carcere di San Vittore. Nei pressi della prigione, imboccano via De Amicis e, armi in pugno, sparano sulla polizia schierata per contenere i manifestanti. Il giovane vicebrigadiere Antonio Custrà viene ferito a morte da un proiettile che lo colpisce in volto. Lascia la moglie incinta di otto mesi. Per un lungo tempo i magistrati rimasero convinti che era stato Memeo a uccidere Custrà (nel febbraio del '79, Memeo sarebbe stato nel gruppo di fuoco responsabile dell'uccisione del gioiellere Torregiani). E invece non era andata così. Il colpo mortale contro Custrà era stato sparato da un altro del gruppo di fuoco di via De Amicis, Mario Ferrandi detto "coniglio" perché aveva i denti leggermente sporgenti. Il caso volle che il magistrato milanese che lo appurò nel 1987, Guido Salvini, fosse stato a suo tempo compagno di scuola e amico di Ferrandi (così come di Enrico Mentana, tutti e tre studenti al liceo Cattaneo).
Questa è l'immagine simbolo del 1977, anno in cui il passaggio allo scontro armato da parte di alcuni decretò la fine del Movimento del '77. La scelta, sciagurata e suicida, di quei pochi che vollero interpretare il ruolo, in Italia impensabile, dei guerriglieri mise una pietra tombale sulla primavera fiorita nel '68. Umberto Eco a caldo, sull'Espresso, scrisse: «Quella foto non assomigliava a nessuna delle immagini in cui si era schematizzata, per almeno quattro generazioni, l’idea di rivoluzione. Mancava l’elemento collettivo, vi tornava in modo traumatico la figura dell’eroe individuale. E questo eroe individuale non era quello della iconografia rivoluzionaria, che quando ha messo in scena un uomo solo lo ha sempre visto come vittima, agnello sacrificale: il miliziano morente o il Che ucciso, appunto. Questo eroe individuale invece aveva la posa, il terrificante isolamento degli eroi dei film polizieschi americani (la Magnum dell’ispettore Callaghan) o degli sparatori solitari del West – non più cari a una generazione che si vuole di indiani. Questa immagine evocava altri mondi, altre tradizioni narrative e figurative che non avevano nulla a che vedere con la tradizione proletaria, con l’idea di rivolta popolare, di lotta di massa. Di colpo ha prodotto una sindrome di rigetto. Essa esprimeva il seguente concetto: la rivoluzione sta altrove e, se anche è possibile, non passa attraverso questo gesto ‘individuale’».
Memeo non era il solo a sparare quel giorno. Le indagini balistiche hanno dimostrato che a sparare contro le forze dell’ordine fossero almeno una mezza dozzina di pistole. Comunque un gruppo esiguo, isolato dal resto del corteo che, in questa e soprattutto in altre foto, è mostrato mentre scappa in direzione opposta. Ma quelle foto non sono diventate famose. Non sono diventate icone. La retorica dell’icona non sta lì a sottilizzare su questioni di verità storica e passa come un bulldozer sulla complessità e la varietà delle posizioni del Movimento in quei giorni, congelando in una immagine un solo messaggio: la violenza sta solo da quella parte, mentre quest’altra, lo Stato, ne esce come unica vittima.
Ma non voglio avventurarmi su terreni troppo controversi, che richiedono un'accurata analisi storica. Ciò che si può constatare a proposito di questa foto, è come essa possegga tutti gli elementi necessari a farne un’icona:
- Immagine a forte impatto, in grado di agire potentemente sull’emotività di ognuno, suscitando sentimenti di paura o di coraggio, di repulsione o di partecipazione all’azione. Certamente non lascia indifferenti le emozioni dello spettatore.
- L’immagine, soprattutto quella più diffusamente circolata che è tagliata e lascia intravedere solo lo sparatore, senza la gente sullo sfondo di sinistra, è semplice, essenziale, immediatamente riconoscibile, stilizzabile con pochi tratti di matita, priva di dettagli inutili. Il suo messaggio non è soggetto ad ambiguità: la pistola è tenuta ad altezza d’uomo e la postura è quella di uno che prende la mira e si accinge a sparare per uccidere.
- La figura è decisamente plastica, dinamica, ritratta nel pieno di un’azione, la cui postura le conferisce un'ostentata spavalderia. La posizione delle gambe la rendono ben stabile, mentre quella del busto e delle braccia le conferiscono una forte tensione. La pistola non appare come un oggetto estraneo, ma come il prolungamento degli arti congiunti.
- L’immagine è sufficientemente indeterminata. Il volto è semi-coperto da un passamontagna, ma si riesce a scorgere la lucida fermezza dello sguardo. La controparte, anch'essa armata e facente fuoco, non si vede, è fuori campo. L'immagine isola un solo individuo nell'atto di far fuoco contro un nemico che, non avendo volto, per l'osservatore può prendere le sembianze dettate dalla sua paura o dal suo credo ideologico. Un'icona che diviene emblema dell'attacco allo Stato, è il simbolo dello scontro totale, del terrorismo portato nelle strade in cui restano a terra anche gli innocenti. E' questo significato, evocato dall'icona, che la rende ancora più inquietante. Il nemico contro cui spara l'uomo nella foto è lo Stato, siamo tutti noi: ognuno può mettere, nel bersaglio di quella pistola, il proprio volto o quello dei suoi cari.
- L’immagine rimanda ad altre immagini viste e conosciute. Questo l’aveva intuito benissimo Umberto Eco, che già nelle sue dichiarazioni a caldo la riconduceva alle scene di film polizieschi, molto comuni in quegli anni, con sparatorie per strada da parte di banditi abbigliati nello stesso modo e che impugnano la pistola nella stessa maniera.
Questi ed altri elementi contribuirono a far sì che questa foto cessasse di raccontare un evento singolo e cominciasse a raccontare dei concetti, rendendola l'emblema della svolta militare del Movimento e l'incubo dell'immaginario collettivo di quelle generazioni.
Nel dicembre 2013 Paolo Pedrizzetti è morto accidentalmente, cadendo dal suo balcone mentre disponeva gli addobbi di Natale. La moglie ha tentato di afferrarlo ma è precipitata con lui. Non ho trovato molte notizie sulla sua vita. Comunque a quanto pare non ha continuato nella carriera di fotografo, preferendo quella di architetto.


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